Cosiddetto “know how” in senso ampio

Corte di Cassazione, sezione terza civile, Ordinanza 15 aprile 2019, n. 10420.

La massima estrapolata:

Le conoscenze che nell’ambito della tecnica industriale sono richieste per produrre un bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia, nonché le regole di condotta che, nel campo della tecnica mercantile, vengono desunte da studi ed esperienze di gestione imprenditoriale (cosiddetto “know how” in senso ampio), ove presentino il carattere della novità (quando comportano vantaggi di ordine tecnologico o competitivo) e della segretezza (quando non sono divulgate), assumono rilievo come autonomo elemento patrimoniale suscettibile di utilizzazione economica da parte del possessore (cosiddetto “know how” in senso stretto), anche se derivino da invenzioni brevettabili che il titolare non intenda brevettare e preferisca sfruttare in regime di segreto, o da ideazioni minori non costituenti vere e proprie invenzioni brevettabili. Ne consegue che il contratto cosiddetto di “know how”, che è un contratto sinallagmatico atipico, è pienamente valido nel nostro ordinamento giuridico a norma dell’art. 1322 c.c., consistendo nel trasferimento, nelle più diverse forme, delle conoscenze tecniche, da sole o in unione ad altre utilità, contro un determinato corrispettivo, ancorché le stesse non siano protette da brevetto.

Ordinanza 15 aprile 2019, n. 10420

Data udienza 29 maggio 2018

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso 1282/2017 proposto da:
(OMISSIS) FRANCHISIG, in persona del Dott. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studi; dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS) giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) SRL;
– intimata –
avverso la sentenza n. 2182/201F, della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 01/36/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/05/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

FATTI DI CAUSA

1. La societa’ (OMISSIS) Franchising (d’ora in poi, “IFF”) ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 2182/16 del 1 giugno 2016 della Corte di Appello di Milano che respingendo il gravame dalla stessa esperito contro la sentenza n. 15654/13 del 10 dicembre 2013 del Tribunale di Milano – ha rigettato la domanda proposta nei confronti di (OMISSIS) S.r.l. (dora in poi, ” (OMISSIS)”), volta alla declaratoria di nullita’, o di annullamento, ovvero di risoluzione per inadempimento del contratto con la stessa concluso, con condanna della convenuta alla restituzione di Euro 310.276,92.
2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di aver stipulato con (OMISSIS), nel novembre 2006, un contratto che essa qualifica di affiliazione commerciale, per la produzione, commercializzazione e vendita in (OMISSIS) di un prodotto denominato “cono pizza”, nonche’ dei macchinari e delle attrezzature necessarie alla produzione e all’allestimento dei punti vendita sotto il marchio ” (OMISSIS)”.
Deduce, inoltre, che il legale rappresentante della (OMISSIS), sin dai primi incontri che precedettero la conclusione del contratto, sosteneva di aver inventato e brevettato appositi macchinari per la produzione di un innovativo prodotto (il ” (OMISSIS)”), possedendo un know how unico al mondo che aveva assicurato alla predetta societa’ partner commerciali in tutti i continenti. Individuando quale scopo del contratto quello di vendere anche nel territorio egiziano il proprio prodotto e le proprie macchine, allargando cosi’ la propria rete distributiva, la (OMISSIS) avrebbe imposto a (OMISSIS) specifici obblighi organizzativi della istituenda rete di vendita, quali – a titolo di esempio – l’apertura di trenta punti vendita, l’acquisto di prodotti e macchine solo dal franchi sor e da suoi venditori autorizzati, e la necessita’ di svolgere la propria attivita’ in accordo con il piano di sviluppo commerciale dal medesimo affiliante stabilito.
Concluso il contratto, (OMISSIS) ebbe a constatare, tuttavia, gravi ritardi nella consegna dei macchinari e, successivamente, gravi difetti di funzionamento, tanto da commissionare una perizia ad un istituto internazionale di certificazione di qualita’, per poi scoprire che i macchinari – la cui consegna era stata effettuata senza trasferire il benche’ minimo know how – non erano stati neppure brevettati (le relative domande presso i competenti uffici essendo state respinte o abbandonate), risultando per nulla innovativi.
Su tali basi, nonche’ sull’ulteriore presupposto di aver effettuato cospicui esborsi in favore della societa’ franchisor, (OMISSIS) adiva il Tribunale di Milano per proporre domanda di nullita’ del contratto, per violazione della L. 6 maggio 2004, n. 129, oppure per difetto di causa e/o di oggetto, nonche’, subordinatamente, di annullamento per errore o dolo, ovvero, in via ulteriormente gradata, di risoluzione per inadempimento, in ogni caso con condanna di (OMISSIS) alla restituzione di Euro 310.276,92.
Costituitasi la convenuta, e proposta dalla stessa domanda riconvenzionale per il pagamento di Euro 50.344,50 quale corrispettivo per forniture eseguite (oltre che di Euro 100.000,00 a titolo di penale), l’adito giudicante rigettava ogni domanda attorea, qualificando – con valutazione poi condivisa dal giudice di appello – quello intercorso tra le parti come un “contratto di licenza”, accogliendo invece la riconvenzionale di (OMISSIS).
Proposto gravame innanzi alla Corte di Appello meneghina, la stessa lo accoglieva solo quanto alla condanna pecuniaria a carico di (OMISSIS), ricostruendo i rapporti di dare/avere tra le due societa’ come comportanti un credito dell’odierna ricorrente per Euro 37.664,85, confermando, per il resto, la precedente decisione.
3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Milano ha proposto ricorso per cassazione la societa’ (OMISSIS), sulla base di quattro motivi.
3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi, dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – si deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363, 1364, 1366 e 1370 c.c., “sulla qualificazione del contratto quale franchising”.
Si censura la sentenza impugnata laddove ha qualificato quello oggetto di lite quale “contratto di licenza”, valorizzando – oltre al “nomen iuris” – la circostanza “che le parti hanno fissato l’oggetto del contratto nello “sfruttare il know how nel territorio” e “utilizzare i marchi nel territorio”, attivita’ che caratterizzano il negozio di licenza, non prevedendo di disciplinare aspetti che debbono invece caratterizzare il contratto di franchising”. In particolare, mancherebbe “l’inserimento dell’affiliato in una catena di distribuzione L. n. 129 del 2004, ex articolo 1, (disponendo, anzi, sul punto che, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere il licenziatario a creare e organizzare la rete di vendita in Egitto)”, oppure il pagamento da parte dell’affiliato, al momento della sottoscrizione del contratto, del cd. “diritto di ingresso”, senza tacere dell’assenza di “elementi aggiuntivi, ma fondamentali propri del contratto di franchising come: l’addestramento, i controlli l’obbligo di acquisto di prodotti destinati alla vendita”.
Orbene, nel pervenire a tale conclusione il giudice di appello avrebbe errato nel valutare, nel loro complesso, tutte le clausole del contratto (ed in particolare quelle di cui agli articoli 2, 5, 8, 9, 10 e 11), che individuerebbero “specifiche obbligazioni proprie e sole del contratto di franchising (e non del contratto di licenza)”.
Nel caso in esame, oggetto del contratto non era “semplicemente lo sfruttamento del know how e l’utilizzazione del marchio”, ma anche “quello di vendere il prodotto”, ovvero il “cono-pizza”, individuandosi un’area di vendita (Egitto), e cio’ “in accordo con il piano di sviluppo commerciale” stabilito da (OMISSIS), in forza del quale (OMISSIS) – oltre a doversi fare carico dell’apertura di trenta punti vendita – avrebbe dovuto vendere “i prodotti, i forni e gli ulteriori equipaggiamenti”, e cio’ “in conformita’ alle istruzioni date dai venditori autorizzati” o dalla stessa affiliante, fornendo trimestralmente “resoconti e estratti dettagliati”. Rilevante, del resto, sarebbe pure la previsione di royalties separate “per la vendita dei prodotti e macchinari di (OMISSIS)” e “per la concessione della licenza”, ovvero la presenza nel contratto di “clausole di assistenza tecnica e commerciale”.
Cio’ premesso, una lettura del testo contrattuale condotta alla stregua del criterio ex articolo 1363 c.c., avrebbe evidenziato che nello stesso erano presenti tutti gli elementi del franchising, ovvero: “1) la commercializzazione di un prodotto del franchisor; 2) la messa a disposizione di un asserito know how; 3) l’inserimento dell’affiliato in una catena distributiva organizzata e gestita attraverso specifiche obbligazioni imposte dal franchisor; 4) l’obbligo di acquisto dei prodotti del franchisor; 5) imposizioni di controlli e ispezioni”.
D’altra parte, al medesimo esito la Corte meneghina sarebbe dovuta pervenire sia valutando il comportamento tenuto dalle parti, ed in particolare come ” (OMISSIS) abbia sempre pubblicizzato la propria attivita’ come quella di un normale franchisor”, sia applicando i criteri dell’interpretazione secondo buona fede e “contra stipulatorem”.
3.2. Con il secondo motivo – proposto ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – si censura “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio”, e cio’ in relazione alla “mancata applicazione della L. n. 129 del 2004”.
Si assume che all’esito del corretto inquadramento del contratto “de quo” come franchising, la Corte milanese avrebbe dovuto accertare la palese assenza degli elementi essenziali previsti dalla normativa di settore (e dichiararne l’invalidita’), cio’ che e’ stato invece omesso.
3.3. Il terzo motivo – proposto a norma dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – ipotizza violazione e falsa applicazione dell’articolo 1418 c.c., in relazione alla “nullita’ del contratto, a prescindere dalla sua qualificazione, per mancanza di oggetto e/o di causa”.
Si censura la sentenza impugnata laddove ha escluso la domanda, subordinata, volta a tale declaratoria, e cio’ sul rilievo che “oggetto del contratto non e’ lo sfruttamento e l’utilizzo dei brevetti ma esclusivamente lo sfruttamento del know how e l’utilizzo dei marchi nel territorio”.
Difatti, errata – secondo la ricorrente – e’ la considerazione, “all’interno del rapporto oggetto di causa”, come “completamente distinti e d (OMISSIS)erenti” degli elementi del know how e dell’utilizzo dei brevetti, come denoterebbe il contenuto del contratto, laddove si legge che (OMISSIS) “ha creato, perfezionato, sviluppato e sperimentato l’importante know how per la fabbricazione del prodotto”, sicche’ esso sarebbe “intrinsecamente legato alle invenzioni brevettate” (o meglio, asseritamente tali).
Cio’ detto, e dimostrato – secondo quanto emergerebbe sul piano documentale – che “nel caso di specie non e’ mai esistito alcun brevetto di invenzione”, ne’ sul prodotto, ne’ sulla macchina “va da se’ che anche il know how e’ svuotato di ogni contenuto ed e’ dunque totalmente inesistente”, donde la nullita’ del contratto per assenza di oggetto e/o causa.
3.4. Infine, il quarto motivo – formulato ai sensi, congiuntamente, dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – si ipotizza “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio” e “violazione e falsa applicazione degli articoli 1427, 1428, 1429 e 1439 c.c.”, in relazione all’annullabilita’ del contratto per dolo o errore”.
Si censura la sentenza impugnata laddove – nel confermare il rigetto della domanda di annullamento del contratto per dolo o errore – ha escluso una falsa rappresentazione, riconducibile a (OMISSIS), circa la titolarita’ in capo ad essa dei diritti di brevetto su progetto e macchinari, essendosi la stessa dichiarata titolare solo dei marchi ” (OMISSIS)” e ” (OMISSIS)”, limitandosi a dare atto della presentazione della domanda di brevetto.
Tuttavia, se tale situazione di fatto risponde a quanto si attesta nella premessa del contratto (dove e’ ribadita la circostanza della mera presentazione della domanda), dalla clausola n. 2) parrebbe emergere che detta societa’ si sia invece rappresentata come titolare del diritto di brevetto. Con essa, infatti, “per ragioni di chiarezza” le parti si diedero atto “che il know how e la licenza di know how non comprendono il cono, la macchina e il forno, siccome inerenti ai diritti di brevetto”, lasciando, dunque, intendere il suo avvenuto rilascio in favore di (OMISSIS); del resto e’ quanto sarebbe confermato dall’allegato H) al contratto ove, a proposito di marchi e brevetti, la societa’ si identifica quale “unico proprietario dei diritti”.
4. Non ha resisto con controricorso (OMISSIS).

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il ricorso va rigettato.
5.1. Il primo motivo non e’ fondato.
5.1.1. Sul punto occorre muovere dalla constatazione che – come ripetutamente affermato da questa Corte – “la qualificazione del contratto consta di due fasi consistenti, la prima, nella individuazione ed interpretazione della comune volonta’ dei contraenti, la seconda, nell’inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi, in precedenza individuati, che ne caratterizzano la esistenza”, restando, peraltro, inteso che le operazioni “ermeneutiche attinenti alla prima fase costituiscono espressione dell’attivita’ tipica del giudizio di merito, il cui risultato, concretandosi in un accertamento di fatto, non e’ in termini generali sindacabile in sede di legittimita’ (salvo che per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui all’articolo 1362 e ss.), la seconda, concernente l’inquadramento della comune volonta’, come appurata, nello schema legale corrispondente, si risolve nell’applicazione di norme giuridiche e puo’ formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimita’ sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto cosi’ come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo” (cosi’ da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 1, ord. 5 dicembre 2017, n. 29111, Rv. 646340-01; nello stesso senso, tra le tante, Cass. Sez. 3, sent. 12 gennaio 2006, n. 420, Rv. 586972-01; Cass. Sez. 2, sent. 3 novembre 2004, n. 21064, Rv. 577929-01; Cass. Sez. 2, sent. 25 gennaio 2001, n. 1054, Rv. 543449-01).
5.1.2. Orbene, se la qualificazione del contratto, come detto, e’ sindacabile in sede di legittimita’ solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale, siffatta verifica non puo’ che compiersi, ormai, negli stretti limiti in cui e’ consentito a questa Corte scrutinare la parte motiva del provvedimento impugnato.
Sotto questo profilo, pertanto, va rammentato che ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal Decreto Legge 22 giugno 2012, n. 83, articolo 54, comma 1, lettera b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte e’ destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonche’, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).
Lo scrutinio di questa Corte e’, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benche’ graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perche’ recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01), in quanto affetta da “irriducibile contraddittorieta’” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), o perche’ “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).
5.1.3. Esaminata, dunque, alla stregua di tali criteri la motivazione della sentenza impugnata, in punto di qualificazione del contratto come di “licenza”, appare esente da vizi.
La Corte milanese, infatti, ha proposto siffatta qualificazione valorizzando – oltre al “nomen iuris” del contratto – la circostanza “che le parti hanno fissato l’oggetto” dello stesso “nello “sfruttare il know how nel territorio” e “utilizzare i marchi nel territorio”, attivita’ che caratterizzano il negozio di licenza, non prevedendo di disciplinare aspetti che debbono invece caratterizzare il contratto di franchising”, tra i quali, segnatamente, “l’inserimento dell’affiliato in una catena di distribuzione L. n. 129 del 2004, ex articolo 1, (disponendo, anzi, sul punto che, nel caso di specie, avrebbe dovuto essere il licenziatario a creare e organizzare la rete di vendita in Egitto)”, oppure il pagamento da parte dell’affiliato, al momento della sottoscrizione del contratto, del cd. “diritto di ingresso”, senza tacere dell’assenza di “elementi aggiuntivi, ma fondamentali propri del contratto di franchising come: l’addestramento, i controlli l’obbligo di acquisto di prodotti destinati alla vendita”.
Si tratta di motivazione del tutto congrua, a contrastare la quale la ricorrente – sebbene ipotizzi la violazione di quasi tutte le disposizioni codicistiche in tema di interpretazione del contratto – si limita, in sostanza, ad affermare che il giudice di appello avrebbe errato nel valutare, nel loro complesso, le diverse clausole del contratto.
La censura, infatti, non coglie nel segno, giacche’ – secondo il costante indirizzo di questa Corte – e’ da ravvisare violazione dell’articolo 1363 c.c., allorche’ il giudice, nella interpretazione dei contratti, abbia ad “arrestarsi ad una considerazione “atomistica” delle singole clausole”, operazione, questa, da ritenersi non consentita neppure “quando la loro interpretazione possa essere compiuta, senza incertezze, sulla base del “senso letterale delle parole”, poiche’ anche questo va necessariamente riferito all’intero testo della dichiarazione negoziale, onde le varie espressioni che in essa figurano vanno coordinate fra loro e ricondotte ad armonica unita’ e concordanza” (da ultimo, Cass. Sez. 5, ord. 30 gennaio 2018, n. 2267, Rv. 649602-01).
Piu’ in particolare, si e’ precisato, che il criterio dell’interpretazione complessiva delle clausole contrattuali risulta disatteso sia “nell’ipotesi della loro omessa disamina”, sia “quando il giudice utilizza esclusivamente frammenti letterali della clausola da interpretare e ne fissa definitivamente il significato sulla base della sola lettura di questi, per poi esaminare “ex post” le altre clausole, onde ricondurle ad armonia con il senso dato aprioristicamente alla parte letterale, oppure espungerle ove con esso risultino inconciliabili” (Cass. Sez. 1, sent. 4 maggio 2001, n. 9755, Rv. 617805-01).
Siffatta evenienza non e’ ipotizzabile nel caso di specie, avendo la Corte milanese offerto un’interpretazione del testo contrattuale che ha esaminato le diverse clausole ivi contenute, ricercandone il significato proprio alla luce della loro reciproca interazione.
5.2. Il secondo motivo e’, invece, inammissibile.
5.2.1. Trova, infatti, applicazione, nella specie, l’articolo 348 ter c.p.c., u.c., rilevando nella specie una “doppia conforme di merito”, soggetta, “ratione temporis”, alla norma suddetta, essendo stato il giudizio di appello radicato con atto di gravame inviato per la notificazione dopo l’11 settembre 2012, risalendo la sentenza appellata al 10 dicembre 2013 (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 dicembre 2014, n. 26860, Rv. 633817-01; in senso conforme, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonche’ Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 648075-01).
Il tutto, peraltro, non senza tacere che l’esito dell’inammissibilita’ del motivo – da affermarsi, come detto, sulla base di tale preliminare rilievo – si impone comunque in forza del principio secondo cui il vizio suscettibile di riconduzione al novellato testo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5) deve investire “non una “questione” o un “punto” della sentenza” (come avvenuto, invece, nel presente caso), “ma un fatto vero e proprio, e quindi un fatto principale, ex articolo 2697 c.c. (cioe’, un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo), oppure secondario (cioe’, dedotto in funzione di prova di un fatto principale)”; cfr., da ultimo, in motivazione Cass. Sez. 1, sent. 8 settembre 2016, n. 17761, R. 641174-01; in senso analogo – sulla necessita’ che l’omesso esame investa sempre un “fatto storico, principale o secondario” – si veda anche Cass. Sez. 6-5, ord. 4 ottobre 2017, n. 23238, Rv. 646308-01) e “non deduzioni difensive” (cosi’ Cass. Sez. 2, sent. 14 giugno 2017, n. 14802, Rv. 644485-01).
5.3. Il terzo motivo e’, ad un tempo, inammissibile e non fondato.
5.3.1. Difatti, il secondo di tali esiti si impone laddove il motivo assume che non possa esservi un contratto che attribuisca lo sfruttamento del know how separatamente dallo sfruttamento e l’utilizzo dei brevetti. Si tratta, invero, di affermazione che e’ smentita dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “le conoscenze che nell’ambito della tecnica industriale sono richieste per produrre un bene, per attuare un processo produttivo o per il corretto impiego di una tecnologia, nonche’ le regole di condotta che, nel campo della tecnica mercantile, vengono desunte da studi ed esperienze di gestione imprenditoriale (cosiddetto know how in senso ampio), ove presentino il carattere della novita’ (quando comportano vantaggi d’ordine tecnologico o competitivo) e della segretezza (quando non sono divulgate) assumono rilievo come autonomo elemento patrimoniale suscettibile di utilizzazione economica da parte del possessore (cosiddetto know how in senso stretto) anche se derivino da invenzioni brevettabili che il titolare non intenda brevettare e preferisca sfruttare in regime di segreto, o da ideazioni minori non costituenti vere e proprie invenzioni brevettabili” (Cass. Sez. 1, sent. 20 gennaio 1992, n. 659, Rv. 475385-01).
D’altra parte, il motivo e’ invece inammissibile laddove sembra mettere in discussione l’esistenza, nella specie, di un know-how commerciabile, trattandosi di una questione di fatto non sindacabile in questa sede.
5.4. Il quarto motivo, infine, e’ nuovamente inammissibile.
5.4.1. Nella parte in cui e’ evocato l’articolo 360, comma 1, n. 5), tale esito si impone, oltre che per la gia’ ricordata operativita’ dell’articolo 348 ter c.p.c., u.c., in quanto la censura di “omissione” non investe un fatto, ma l’interpretazione di clausole contrattuali, sicche’ e’ applicabile il principio secondo cui “in tema di ricorso per cassazione, l’omesso esame della questione relativa all’interpretazione del contratto non e’ riconducibile al vizio di cui all’articolo 360 c.p.c., n. 5), in quanto l’interpretazione di una clausola negoziale non costituisce “fatto” decisivo per il giudizio, atteso che in tale nozione rientrano gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi” (Cass. Sez. 3, sent. 8 marzo 2017, n. 5795, Rv. 643401-01).
5.4.2. Quanto, invece, alla supposta violazione di legge, deve constatarsi che la ricorrente, sebbene prospetti, all’apparenza, un “error iuris”, ipotizza, in realta’, il mancato riconoscimento, sulla base delle risultanze di causa, di asseriti vizio della volonta’ che avrebbero inficiato la conclusione del contratto e che trarrebbero origine dal contegno di (OMISSIS).
Si tratta, tuttavia, di censura che fuoriesce dal paradigma di cui all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3), visto che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che e’ quanto si lamenta nel caso di specie – “e’, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimita’” (Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03).
6. Nulla e’ dovuto quanto alle spese del presente giudizio essendo rimasta solo intimata la societa’ (OMISSIS).
7. A carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, articolo 1, comma 17, la Corte da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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