Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 12 dicembre 2013, n. 27846

Svolgimento del processo

1. Con citazione del 15 dicembre 2009, M..P. citava dinnanzi al Tribunale di Orvieto Banca Intesa san Paolo s.p.a. chiedendo, come titolare del contratto di deposito titoli sul quale era stato effettuato in data 26 febbraio 1999 l’acquisto di obbligazioni argentine 15% con scadenza 26 febbraio 2008, dell’importo nominale di Euro 31.000,00, in via principale, la risoluzione del contratto quadro e degli ordini di acquisto o, in via subordinata, l’annullamento degli ordini di borsa e l’accertamento della ricorrenza dei presupposti per la dichiarazione di responsabilità extracontrattuale, precontrattuale o contrattuale in capo alla Banca convenuta, con conseguente condanna d quest’ultima alla restituzione integrale degli importi investiti, oltre interessi e rivalutazione.
1.1. L’attore esponeva che aveva in essere con la Banca convenuta un contratto di deposito tioli; che sullo stesso aveva acquistato obbligazioni argentine per un valore nominale di Euro 31.000,00; che aveva richiesto copia dell’ordine sottoscritto; che dalla documentazione fornita dalla Banca risultava solo la data dell’operazione; che in data 26 aprile 2005 aveva reiterato la richiesta di consegna della documentazione, non evasa dalla Banca; che aveva quindi chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo per la consegna dei documenti richiesti; che da tali documenti non emergeva l’avvenuta consegna dei documenti relativi al rischio; che l’ordine del 26 febbraio 1999 era risultato riempito in un momento successivo e meccanicamente; che la Banca lo aveva indotto ad acquistare titoli di prossima svalutazione, essendo a conoscenza delle condizioni dell’economia argentina sin dal 2 ottobre 1997; che l’andamento era stato negativo sino al 2001, anno del default; che il contratto base e l’ordine di acquisto erano nulli per violazione di norme imperative; che in particolare il contratto quadro mancava degli elementi essenziali previsti dal d.lgs. n. 58 del 1998; che la Banca non lo aveva informato adeguatamente circa la natura e rischi dell’ordine di acquisto dei titoli; che, sulla base di tutti tali presupposti, nonché sulla base della evidenziazione di ulteriori profili di responsabilità della Banca, aveva chiesto, con ricorso per decreto ingiuntivo, la restituzione dei capitali investiti, oltre accessori; che il Tribunale di Orvieto aveva accolto il ricorso, ingiungendo alla Banca il pagamento delle somme richieste; che la Banca, con atto di citazione in opposizione, aveva richiesto la revoca del decreto ingiuntivo; che il Tribunale di Orvieto, con sentenza n. 73 del 2007, aveva rigettato la domanda di nullità e le altre domande proposte da esso attore, revocato il decreto ingiuntivo e dichiarato inammissibili le domande riconvenzionali proposte; che avverso questa sentenza egli aveva proposto appello; che per tutte le ipotesi di responsabilità precontrattuale, contrattuale ed extracontrattuale si era resa necessaria la instaurazione di un altro giudizio, nel quale egli aveva contestato alla Banca Commerciale Italiana (ora Intesa san Paolo s.p.a.) la violazione della normativa in tema di intermediazione finanziaria, e segnatamente del regolamento CONSOB n. 11522 del 1998.
1.2. In tale giudizio si costituiva Intesa San Paolo eccependo in via preliminare la inammissibilità e infondatezza delle domande rilevando che l’attore aveva già ottenuto, sulla base della medesima causa petendi e del medesimo petitum, decreto ingiuntivo dal Tribunale di Orvieto, revocato in sede di opposizione, rispetto al quale era tuttavia pendente giudizio di appello proposto dal P. , identico per soggetti, per petitum e per causa petendi, a quello successivamente introdotto.
2. Il Tribunale di Orvieto, rilevato che con sentenza non definitiva n. 259 del 2010, la Corte d’appello di Perugia aveva ritenuto ammissibili le nuove domande proposte dal P. con la comparsa con cui si era costituito nel primo grado del giudizio di opposizione – e ciò in quanto quelle domande erano conseguenza delle difese e della domanda di accertamento negativo di responsabilità svolte dalla Banca – e certamente fondato l’appello del P. quanto alla ammissibilità delle domande riconvenzionali subordinate, ha dichiarato, con sentenza n. 174 del 2011, depositata il 14 settembre 2011, “inammissibile” la domanda, sul rilievo della pendenza del giudizio di appello, avente il medesimo oggetto.
3. Avverso tale sentenza il P. ha proposto ricorso per regolamento di competenza sulla base di quattro motivi.
3.1. Il ricorrente, dopo aver ricordato che la Corte d’appello di Perugia, con sentenza n. 450 del 2011, decidendo in via definitiva sulla opposizione a decreto ingiuntivo, aveva ritenuto abbandonata la domanda di nullità sul rilievo che la stessa non sarebbe stata riproposta in sede di precisazione delle conclusioni e respinto le domande di risoluzione e di annullamento del contratto quadro e del contratto di acquisto delle obbligazioni argentine, con un primo motivo denuncia violazione del giudicato interno sul rilievo che la statuizione contenuta nella sentenza n. 73 del 2007 del Tribunale di Orvieto, con la quale era stata dichiarata la inammissibilità delle domande riconvenzionali che egli aveva proposto in sede di costituzione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, non aveva formato oggetto di impugnazione, avendo egli provveduto a proporre la domanda di risoluzione e di annullamento con l’atto di citazione introduttivo della causa nel corso della quale era stata dichiarata la litispendenza. La detta statuizione, peraltro non aveva formato oggetto di impugnazione neanche da parte della Banca, la quale aveva così consentito che la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale divenisse definitiva, acquisendo efficacia di giudicato.
La dichiarazione di litispendenza e di inammissibilità della domanda adotta dal Tribunale di Orvieto con la sentenza oggetto di regolamento si fondava, quindi, unicamente sulla sentenza non definitiva della Corte d’appello, la quale, peraltro, aveva giudicato extra petitum.
3.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la omessa specificazione dei presupposti della litispendenza o della continenza e l’omessa indicazione delle questioni già devolute all’altro giudice.
3.3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 39 cod. proc. civ., sostenendo che non sarebbe ammissibile la dichiarazione di litispendenza tra due controversie che, come nel caso di specie, siano pendenti in gradi diversi.
3.4. Con l’ultimo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione e del “principio dei tre gradi di giudizio”. Dopo a-ver ripercorso la vicenda processuale, il ricorrente rileva che la sua domanda di nullità, respinta dal Tribunale di Orvieto con la sentenza del 2007, non è neanche stata esaminata in grado di appello, mentre le domande di risoluzione e di annullamento non sono state esaminate in primo grado dalle due sentenze intervenute e sono state esaminate e respinte in appello con motivazione solo apparente. Ritiene quindi che il Tribunale di Orvieto, con la sentenza dichiarativa della litispendenza, sia venuto meno ai suoi doveri decisori e motivazionali, finendo per ignorare il giudicato interno formatosi sulla sentenza n. 73 del 2007 e per appiattirsi sulle sentenze della Corte d’appello.
4. L’intimata Banca Intesa Sanpaolo s.p.a. non ha resistito.
5. Il P.M. ha concluso per l’accoglimento del ricorso, richiamando l’orientamento giurisprudenziale sull’inammissibilità della declaratoria di litispendenza in relazione a cause pendenti in gradi diversi.
6. Con ordinanza interlocutoria n. 14678 del 2012, la Prima Sezione di questa Corte ha pregiudizialmente valutato l’ammissibilità del ricorso per regolamento di competenza, evidenziando come, sebbene nel dispositivo della sentenza impugnata non si parli di litispendenza, doveva ritenersi che proprio questo fosse il senso della statuizione del Tribunale; ha poi considerato come la domanda di risoluzione contrattuale possa intendersi contemporaneamente pendente pure davanti alla Corte d’appello di Perugia, nonostante il Tribunale di Orvieto ne avesse dichiarato, a conclusione del primo grado del relativo giudizio, l’inammissibilità, poiché comunque della persistenza e della sorte di tale domanda dovrà decidersi nel giudizio pendente davanti alla Corte umbra.
L’ordinanza interlocutoria ha quindi invocato l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte sulla questione se sia configurabile e possa perciò essere dichiarata la litispendenza, ai sensi dell’art. 39, primo comma, cod. proc. civ., tra cause identiche, sul piano soggettivo e ogget-tivo, che pendano però in gradi diversi.

Motivi della decisione

1. La Prima Sezione di questa Corte ha, come detto, sollecitato l’intervento di queste Sezioni Unite, sulla questione se sia configurabile e possa perciò essere dichiarata la litispendenza, ai sensi dell’art. 39, primo comma, cod. proc. civ., tra cause identiche, sul piano soggettivo e oggettivo, che pendano però in gradi diversi.
Nel rimettere gli atti al primo Presidente per la eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, la Prima Sezione ha ricordato come la tesi secondo cui anche la litispendenza, così come la continenza, non può essere dichiarata fra cause pendenti in gradi diversi di giudizio, nel qual caso si tratterebbe piuttosto di verificare la sussistenza dei presupposti per la sospensione ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., si trova esposta per la prima volta in Cass. n. 9645 del 1994; e come tale tesi sia stata poi seguita pressoché costantemente dalla successiva giurisprudenza di questa Corte sino all’attualità (Cass. n. 3965 del 1999; Cass. n. 8214 del 2000; Cass. n. 11259 del 2001; Cass. n. 12596 del 2001; Cass. n. 8833 del 2002; Cass. n. 4010 del 2003; Cass. n. 17190 del 2003; Cass. n. 9313 del 2007; Cass. n. 27018 del 2011).
La precedente opposta soluzione della giurisprudenza di legittimità era, invece, ispirata dal fondamento dell’istituto, ravvisato nel principio del ne bis in idem e nell’esigenza di evitare il pericolo di giudicati contrastanti, preferendosi perciò affermare che la litispendenza va dichiarata anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo instaurato per secondo, con l’unico limite del formarsi del giudicato nel processo instaurato per primo e senza che rilevi la pendenza dei due processi in gradi diversi (Cass. n. 1056 del 1983; Cass. n. 2462 del 1984; Cass. n. 3139 del 1986; Cass. n. 5666 del 1986; Cass. n. 10857 del 1995).
Nell’ordinanza interlocutoria si rileva quindi come né Cass. 9645 del 1994, né le successive pronunce a questa adesive, contengano un riferimento alla giurisprudenza precedente, dando l’idea di un contrasto inconsapevole. Si sottolinea, poi, il pensiero della dottrina, la quale ritiene che la svolta intrapresa da Cass. n. 9645 del 1994 tragga origine da un probabile equivoco, posto che la nuova soluzione è stata motivata mediante richiamo di precedenti riguardanti il diverso istituto della continenza di cause, e che il richiamo all’istituto della sospensione di cui all’art. 295 cod. proc. civ. sia inconciliabile con la radicale diversità dei presupposti dei due istituti, la sospensione presupponendo la pregiudizialità delle cause, la litispendenza, invece, l’identità.
Da ultimo, la Prima Sezione ha sostenuto la necessità di un intervento chiarificatore di queste Sezioni Unite anche alla luce della sentenza n. 10027 del 2012, per la quale, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile, di regola, la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., e non già, dunque, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ..
2. Il Collegio ritiene che al quesito proposto dalla ordinanza interlocutoria debba rispondersi nel senso che la litispendenza opera anche nel caso in cui le cause aventi ad oggetto la medesima domanda si trovino in gradi diversi e che quindi, anche in tale caso, il giudice successivamente adito debba dichiarare la litispendenza.
3. A tal fine occorre rilevare che il diverso orientamento – qui non condiviso e di cui si dirà – risolve il problema della coesistenza di due cause aventi ad oggetto la medesima domanda pendenti in gradi diversi facendo ricorso all’istituto della sospensione necessaria, di cui all’art. 295 cod. proc. civ..
Già questa applicazione della sospensione necessaria prestava il fianco a critiche – puntualmente esplicitate dalla prevalente dottrina – rilevandosi la non configurabilità, sul piano logico, del rapporto di pregiudizialità logico-giuridica, presupposto dall’art. 295 cod. proc. civ., tra controversie pendenti dinnanzi a giudici diversi, laddove si predichi invece la identità di quelle cause.
Ma un simile orientamento deve essere ora messo decisamente in discussione a seguito della sentenza di queste Sezioni Unite n. 10027 del 2012, per la quale, quando fra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile, di regola, la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ., e non già, dunque, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ.. È evidente, infatti, che il venir meno della necessità della sospensione imposta dall’operare dell’art. 295 cod. proc. civ., demandandosi la valutazione al giudice della causa in cui si faccia questione della efficacia di una sentenza pronunciata in un altro giudizio, comporti altresì che sia impossibile sostenere ulteriormente che la vicenda di due cause identiche pendenti in gradi diversi possa essere risolta comunque facendo ricorso all’istituto della sospensione della causa successivamente instaurata.
3.1. Ciò tanto più in quanto, come si desume dall’esame della sentenza di questa Corte n. 9645 del 1994, alla quale si fa risalire l’orientamento oggi consolidato, secondo cui “la litispendenza tra due cause fra le stesse parti – da valutarsi con riguardo alla situazione processuale esistente al momento della decisione – non può essere dichiarata quando le due cause pendono in gradi diversi, ricorrendo in tal caso l’ipotesi di sospensione del processo ex art. 295 cod. proc. civ.”, il principio è stato affermato richiamando sentenze che si riferivano ad ipotesi di continenza, e non già di litispendenza. Del resto, nella citata decisione, dopo l’affermazione prima riportata, si precisa che effettivamente, nel caso di specie, sussisteva un rapporto di parziale continenza del petitum richiesto dalla medesima parte nelle due cause poste in relazione, una delle quali era poi stata sospesa (“correttamente”, come si evidenzia nella sentenza n. 9645 del 1994) dal giudice di appello ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ..
È dunque sulla base di un’affermazione contenuta nella citata sentenza e della attribuzione ad essa della valenza di un innovativo, quanto inconsapevole, principio di diritto, che si è consolidato l’orientamento di cui si è detto e del quale l’ordinanza interlocutoria sollecita una rivisitazione.
4. Non vi è dubbio che la questione debba essere affrontata prendendo le mosse dal dato normativo di cui all’art. 39, primo comma, cod. proc. civ., il quale, nel testo attualmente vigente, per effetto della sostituzione ad opera dell’art. 45, comma 3, della legge n. 69 del 2009, recita: “Se una stessa causa è proposta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, anche d’ufficio, dichiara con ordinanza la litispendenza e dispone la cancellazione della causa dal ruolo” (nella precedente formulazione, era previsto che il giudice successivamente adito “dichiara con sentenza la litispendenza e dispone con ordinanza la cancellazione della causa dal ruolo”). Tale disposizione, all’evidenza, non consente di nutrire dubbi in ordine al fatto che la litispendenza possa operare anche allorquando la stessa causa sia stata proposta in due giudizi, uno dei quali si trovi in grado di appello. Anzi, proprio il riferimento alla esistenza dell’obbligo per il giudice che rilevi la litispendenza di dichiararla, e di disporre la cancellazione della causa dal ruolo, sembra presupporre la assoluta indifferenza del grado di giudizio ai fini della necessità che si proceda alla dichiarazione della litispendenza da parte del giudice successivamente adito, non potendosi neanche escludere che, a causa della mancata eccezione delle parti sul punto nel precedente grado di giudizio e in assenza di elementi idonei ad evidenziare la esistenza di una situazione di litispendenza, la causa successivamente adita sia quella pendente in appello, sicché potrebbe essere anche tale giudice a dovere adottare i provvedimenti di cui all’art. 39, primo comma, cod. proc. civ..
4.1. La conclusione discende pianamente ove si tenga conto della funzione dell’istituto della litispendenza. Questo è, infatti, espressione della regola, sovraordinata al sistema del processo, secondo cui de eadem re ne bis sit actio; tale regola delimita il diritto di azione nella sua dimensione pubblica, in quanto, cioè, esso sia volto ad ottenere dallo Stato la prestazione della giurisdizione, e nella sua dimensione privata, in quanto diretto verso altro soggetto che sì voglia sottoporre alle statuizioni del giudice. In tale prospettiva, la regola della litispendenza, intesa come effetto della consumazione del diritto di azione, ha lo stesso fondamento, ovvero appaga le stesse esigenze, della regola del giudicato, sicché la prima dovrebbe espandersi finché non funzioni già l’altra. Supponendo, cioè, la cosa giudicata una sentenza irrevocabile, la litispendenza, che preserva gli stessi interessi propri della prima, sarebbe tenuta ad occupare, e quindi a regolare, tutta la vicenda processuale che precede la regiudicata. Pertanto, in nome della realizzazione dell’obiettivo del ne bis in idem, tra eccezione di litispendenza e eccezione di giudicato non possono lasciarsi spazi vuoti. In sostanza, la pendenza della lite, che si determina dall’attimo in cui la domanda sia regolarmente proposta, cessa soltanto quando si consegua una sentenza definitiva non impugnabile con mezzi ordinari (col che all’eccezione di litispendenza subentra quella di giudicato), oppure si verifichi l’estinzione della domanda.
In ogni caso, le esigenze alle quali risponde l’istituto della litispendenza, la cui cogenza è manifestata dalla possibilità della relativa dichiarazione, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del giudizio successivamente iniziato, non consente di ipotizzare che per il giudice successivamente adito sia rilevante lo stato o il grado in cui si trovi la causa precedentemente iniziata, a differenza, invece, di quanto avviene nelle ipotesi di continenza, nelle quali si esclude univocamente che possa essere dichiarata con riguardo a procedimenti pendenti dinanzi ad uffici giudiziari diversi e che si trovino l’uno in fase di gravame, l’altro in primo grado, in considerazione del carattere funzionale della competenza del giudice di secondo grado, da individuarsi inderogabilmente in base al criterio fissato dall’art. 341 cod. proc. civ., nonché delle peculiarità del processo d’impugnazione, circoscritto alle questioni specificamente riproposte e non compatibile con l’inserimento “a posteriori” di problematiche ulteriori (ancorché incluse nel dibattito del precedente grado) (Cass. n. 7768 del 1993; Cass. n. 15193 del 2000; Cass. n. 10195 del 2002).
4.2. Si può quindi affermare che l’identità delle domande proposte in due giudizi diversi impone al giudice successivamente adito la pronuncia, anche d’ufficio, della litispendenza e la cancellazione della causa dal ruolo, ma non consente la sospensione del giudizio successivamente instaurato in attesa della definizione del primo, ove questo sia pendente in appello o in sede di legittimità, ovvero ancora quando siano pendenti i termini per la proposizione della impugnazione. Invero, il rapporto tra le due cause, in quanto identiche, non può giammai operare sul piano della pregiudizialità logico-giuridica. Si potrebbe ipotizzare che la sospensione della causa successivamente proposta allorquando per la medesima causa è pendente altra controversia in grado di appello risponda alla necessità di verificare che il giudizio preventivamente instaurato si concluda con una decisione di merito, consentendosi, quindi, la riattivazione del processo sospeso allorquando quello precedentemente instaurato si concluda con decisione in rito, divenuta definitiva. Ma si tratta, all’evidenza, di una torsione dell’istituto che né la lettera dell’art. 39, primo comma, cod. proc. civ., né ragioni di ordine sistematico possono giustificare, desumendosi, sia dal tenore testuale della richiamata disposizione, sia dalle finalità cui l’istituto è preordinato, una indicazione nel senso della obbligatoria cancellazione dal ruolo, previa dichiarazione di litispendenza, della causa successivamente proposta, ancorché quella precedentemente instaurata sia pendente in grado di appello o in cassazione.
4.2.1. Ma, a ben vedere, la situazione di accertata litispendenza non consente neanche il ricorso all’istituto di cui all’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ., il quale postula che l’autorità di una sentenza venga invocata in un diverso processo, mentre nell’ipotesi della litispendenza sono diversi i giudici dinnanzi ai quali pende la medesima causa; difetta, quindi, la stessa possibilità di risolvere il rapporto tra i diversi giudici investiti della medesima causa, pendente in gradi diversi, mediante la sospensione di cui al citato art. 337, secondo comma.
In questo senso, del resto, si è già pronunciata questa Corte, affermando il principio per cui “il disposto dell’art. 337, secondo comma, cod. proc. civ. – che contempla la possibilità di sospendere la causa perché in essa è invocata l’autorità di una sentenza pronunciata in un diverso processo in cui detta sentenza sia impugnata – presuppone la necessità di due decisioni; una nella controversia che costituisce l’indispensabile antecedente logico e giuridico della decisione dell’altra o nella quale viene decisa una questione fondamentale comune alla seconda lite, e l’altra nel secondo processo (che viene sospeso) nel quale si dibattono questioni consequenziali o domande più ampie. Ove invece tra le due controversie vi sia assoluta identità di domande, non può trovare applicazione il cit. art. 337, bensì sorge l’obbligo per il giudice successivamente adito, in qualunque stato e grado del processo, e quindi anche in Cassazione, di eliminare una delle due controversie in base al criterio della prevenzione, dichiarando la litispendenza nella causa successivamente instaurata, salva la preclusione derivante dal relativo giudicato” (Cass. n. 2556 del 1986).
4.3. In realtà, l’art. 39, primo comma, cod. proc. civ. postula esclusivamente la pendenza della medesima causa dinnanzi a giudici diversi, ponendo a carico del giudice successivamente adito l’obbligo di dichiarare, anche d’ufficio, la litispendenza in qualsiasi stato e grado del processo. Il terzo comma del medesimo art. 39 precisa poi che ai fini della prevenzione, e quindi per individuare quale sia la causa iniziata per prima, deve aversi riguardo alla notificazione della citazione e per i giudizi iniziati mediante ricorso, a seguito delle modificazioni introdotte dall’art. 45, comma 3, lett. e), della legge n. 69 del 2009, al deposito del ricorso.
A norma dell’art. 39, primo comma, cod. proc. civ., quindi, qualora la medesima causa venga introdotta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza, rispetto alla causa identica precedentemente iniziata, anche se questa, già decisa in I primo grado, penda davanti al giudice dell’impugnazione, indipendentemente da ogni indagine sulla competenza sia propria sia del giudice precedentemente adito (Cass. n. 5666 del 1986).
4.4. L’obbligo del giudice successivamente adito, dunque, si manifesta sin dall’inizio della causa e permane sino a quando sussista una situazione di pendenza del giudizio previamente iniziato. Tale constatazione consente di risolvere in modo agevole anche quelle situazioni in cui si ritiene che la litispendenza non possa operare perché il giudizio preventivamente instaurato non ha, allorquando il giudice successivamente adito deve adottare la dichiarazione di litispendenza, un giudice attualmente investito della sua trattazione.
È questo, ad esempio, il caso in cui nel giudizio preventivamente instaurato sia stata pronunciata una sentenza ma non siano ancora decorsi i termini per l’impugnazione. In tale caso, infatti, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato che finché l’impugnazione non è proposta non c’è un giudice investito della lite, con conseguente inconfigurabilità della contemporanea pendenza di due giudizi sull’identica causa (Cass. n. 9313 del 2007; Cass. n. 3965 del 1999; Cass. n. 10857 del 1995; Cass. m. 1963 del 2004; Cass. n. 5115 del 1987; Cass. n. 4839 del 1987; Cass. n. 656 del 1985; Cass. n. 5609 del 1984; Cass. n. 6032 del 1980).
Ovviamente, posto che per l’operatività dell’istituto della litispendenza e per la insorgenza, per il giudice successivamente adito, dell’obbligo di dichiararla, è sufficiente la pendenza del giudizio instaurato per primo, deve ritenersi che anche nel caso in cui l’impugnazione possa ancora essere proposta avverso la sentenza assunta nel giudizio iniziato prima sussista una situazione di litispendenza, la quale viene meno solo con la formazione del giudicato in tale giudizio, ovvero con la declaratoria di estinzione.
Analoghe considerazioni possono essere svolte nelle ipotesi in cui il giudizio preventivamente iniziato versi in una situazione di quiescenza, ma sia pur sempre pendente, non essendo decorsi i termini per la sua riattivazione.
5. In conclusione, deve affermarsi il seguente principio di diritto: “a norma dell’art. 39, primo comma, cod. proc. civ., qualora la medesima causa venga introdotta davanti a giudici diversi, quello successivamente adito è tenuto a dichiarare la litispendenza, rispetto alla causa identica precedentemente iniziata, anche se questa, già decisa in primo grado, penda davanti al giudice dell’impugnazione”.
6. Dall’applicazione di tale principio al caso di specie discende la reiezione del ricorso.
6.1. Il Tribunale di Orvieto ha sostanzialmente riconosciuto la identità delle domande proposte dall’odierno ricorrente in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, in replica alle difese svolte dall’istituto di credito opponente – domande dichiarate inammissibili dal medesimo Tribunale con sentenza del 2007 e poi invece ritenute ammissibili dalla Corte d’appello di Perugia con sentenza n. 259 del 2010 – e quelle, già oggetto della riconvenzionale dichiarata inammissibile, dall’odierno ricorrente riproposte in autonomo giudizio a seguito della declaratoria di inammissibilità, e sulle quali è intervenuta la dichiarazione di inammissibilità adottata con la sentenza qui impugnata.
Il Tribunale di Orvieto, quindi, discostandosi, ancorché immotivata-mente, dall’orientamento evidenziatosi nella giurisprudenza di questa Corte a partire dal 1994, ha ravvisato una situazione di identità tra le domande sulle quali esso era chiamato a pronunciarsi e quelle oggetto della causa pendente dinnanzi alla Corte d’appello di Perugia, e per tale ragione ha dichiarato inammissibile le domande successivamente proposte.
6.2. Con il primo motivo, il ricorrente ha denunciato violazione del giudicato interno sul rilievo che la statuizione contenuta nella sentenza n. 73 del 2007 del Tribunale di Orvieto, con la quale era stata dichiarata la inammissibilità delle domande riconvenzionali che egli aveva proposto in sede di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, non aveva formato oggetto di impugnazione, avendo egli provveduto a proporre la domanda di risoluzione e di annullamento con l’atto di citazione introduttivo della causa nel corso della quale era stata rilevata la identità della domanda e ne era per tale ragione stata dichiarata la inammissibilità. La detta statuizione, peraltro non aveva formato oggetto di impugnazione neanche da parte della Banca, la quale aveva così consentito che la declaratoria di inammissibilità della domanda riconvenzionale divenisse definitiva, acquisendo efficacia di giudicato.
6.2.1. Il motivo è infondato, atteso che, come esattamente rilevato nella ordinanza interlocutoria, la valutazione della ammissibilità o no delle domande in questione dinnanzi alla Corte d’appello è demandata in via esclusiva a tale giudice, dovendosi escludere che il giudice successivamente adito possa svolgere alcun sindacato in ordine alla ammissibilità o no della identica domanda proposta in precedenza dinnanzi ad un diverso giudice.
6.3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la omessa specificazione dei presupposti della litispendenza o della continenza e l’omessa indicazione delle questioni contrastanti già devolute all’altro giudice.
6.3.1. Il motivo è infondato, atteso che il Tribunale, nel dichiarare la inammissibilità delle domande proposte con l’atto di citazione del 5 dicembre 2009, perché identiche a quelle sulle quali era chiamata a pronunciarsi la Corte d’appello, che con la sentenza n. 259 del 2010 le aveva dichiarate ammissibili, riformando la statuizione del Tribunale sul punto, ha riscontrato la identità delle domande proposte; e del resto, dalla stessa sentenza impugnata e dalle conclusioni svolte dal ricorrente, emerge la identità delle domande proposte nel 2009 rispetto a quelle introdotte in sede di costituzione nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, dichiarate inammissibili dal Tribunale, ma non dalla Corte d’appello.
6.4. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 39 cod. proc. civ., sostenendo che non sarebbe ammissibile la dichiarazione di litispendenza tra due controversie che, come nel caso di specie, siano pendenti in gradi diversi.
6.4.1. Il motivo è infondato alla luce del principio di diritto dianzi affermato.
6.5. Con l’ultimo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione e del principio dei tre gradi di giudizio.
6.5.1. Il motivo è infondato, atteso che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non è costituzionalizzato e che la ipotesi verifi-catasi nel caso di specie – domanda dichiarata inammissibile in primo grado e invece ritenuta ammissibile in grado di appello – non rientra tra quelle per le quali l’art. 354 cod. proc. civ. dispone la rimessione degli atti al giudice di primo grado. Il principio del doppio grado di giurisdizione, come detto, non è costituzionalmente garantito, mentre l’obbligo del giudice di appello di valutare il merito della controversia nel contraddittorio delle parti e nel rispetto del loro diritto di difesa esclude l’astratta configurabilità di una violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione (Cass. n. 21233 del 2011).
La questione non è comunque rilevante nel presente giudizio, riguardando essa il giudizio originario, nel quale quella dichiarazione di inammissibilità in primo grado è stata pronunciata.
7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Non vi è luogo a provvedere sulle spese del presente giudizio di legittimità, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

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