Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza n. 28614 del 3 luglio 2013

RITENUTO IN FATTO

1.) F. N. ricorre, a mezzo del suo difensore, avverso la sentenza 15 gennaio 2013 della Corte di appello di Campobasso, la quale in parziale riforma della sentenza 24 settembre 2009 del Tribunale di Larino, concessa la sospensione condizionale della pena, ha confermato la condanna ex art. 348 cod. pen..
2.) La corte distrettuale, premesse le regole fissate nella decisione 11545/2012 delle S.U., ha concluso affermando che la condotta del F., quale ascrittagli in rubrica ed incontestabilmente svolta sino al 2007, con modalità di abitualità, e comunque di continuità, onerosità e (pur minimale) organizzazione, ha compiutamente integrato il reato di cui all’art. 348 c.p,. il giudice d’appello infine, in parziale riforma della sentenza in data 24 settembre 2009 emessa dal Tribunale di Larino, sezione distaccata di Termoli, ha concesso all’imputato la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena, confermando nel resto le statuizioni del primo giudice.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.) Il ricorso, ritualmente proposto, nei due motivi di impugnazione denuncia nell’ordine: violazione di legge sull’applicazione dell’art. 348 cod. pen. e vizio di motivazione per contraddittorietà, avuto riguardo alla riconosciuta limitatezza della condotta contestata.
Nel primo e nel secondo motivo di gravame viene dedotta inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione, sotto il profilo della ritenuta sussistenza del delitto di abusivo esercizio della professione di commercialista, avuto riguardo alle “sole sei ditte professionalmente assistite”, circostanza questa che non dovrebbe realizzare quella consistenza richiesta dalle S.U. (Sez. U, Sentenza n. 11545/2012 Rv. 251820, Cani) che esige la ricorrenza di modalità di esercizio continuative, strutturate, con organizzazione e retribuite.
In particolare il ricorso evidenzia: a) che nel vigore del decreto legislativo 139/2005, tale non potrebbe essere considerata la modesta attività contabile svolta dall’imputato per carenza delle note attinenti alla “continuità, all’organizzazione ed alla ripetizione”; b) che la documentazione acquisita dalla Guardia di finanza è riferita a periodi temporali anteriori all’entrata in vigore del citato decreto; c) che vi è contrasto logico tra il riconoscimento di una attività “limitata” e l’azione esecutiva del delitto, il quale, tra l’altro, è stato ritenuto senza considerare, né motivare sul punto che l’imputato dal 1 gennaio 2005 “lavorava come impiegato presso il Comune di P.”.
2.) l’impugnazione, contrariamente alle conclusioni del Procuratore generale, non solo non è accoglibile, ma non supera neppure la soglia dell’ammissibilità, avuto riguardo alla regola dl diritto fissata dalle S.U. con la citata decisione, la quale ha chiarito che integra il reato di esercizio abusivo di una professione (art. 348 cod. pen.), il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.
Quanto ai fatti, secondo il conforme assunto dei giudici di merito, risulta che la condotta di commercialista, ascritta al F. è stata desunta dalla decisiva convergenza di più dati probatori costituiti;
– da un lato, dalla risolutiva documentazione rinvenuta dalla Polizia il giudiziaria nel locale adibito a studio professionale in U. alla via (omissis) (v. comunicazione notizia di reato ex art. 247 cod. proc. pen. in data 19.4.2007);
– dall’altro, dalle conformi dichiarazioni rese da taluni clienti nell’aprile 2007 (tra gli altri, D. M. “mi fornisce attività di consulenza da oltre 15 anni”, o P. T.: “mi avvalgo di un commercialista di U., tale F. fino alla data odierna”), che hanno consentito di ritenere concrete e ripetute condotte di “tenuta della contabilità”, nonché lo svolgimento di tutti gli adempimenti fiscali connessi, per almeno sei ditte, in anni che vanno, senza soluzione di continuità, dal 1999 al 2007.
Un quadro quindi di particolare ed integrata consistenza probatoria, che non può essere invalidato dalla prospettazione della esiguità dei numero dei clienti assistiti (nella specie “solo sei”) posto che nessuna indicazione risulta effettuata, tra l’altro, sulla dimensione delle imprese e risultando comunque -nella specie- realizzate le essenziali connotazioni di ripetizione della condotte, accompagnate da modalità di esercizio continuative, strutturate, con organizzazione, e retribuite.
Per concludere, nella specie, ci si trova di fronte a due decisioni, di primo e secondo grado, che concordano nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova, posti a fondamento delle rispettive statuizioni, con una struttura motivazionale della sentenza di appello che si salda perfettamente con quella precedente, si da costituire un unico complessivo corpo argomentativo, privo di lacune, considerato che la sentenza impugnata, ha dato comunque congrua e ragionevole giustificazione degli elementi oggettivi e  dei profili psicologici del ritenuto delitto.

Conclusione questa da ribadirsi, nonostante la dedotta contemporanea sussistenza, in capo all’accusato, di un’attività di “lavoratore dipendente presso il Comune di P.”, posto che la norma incriminatrice non esige affatto che la condotta, rilevante ex art. 348 cod. pen., debba essere l’unica ed esclusiva fonte dl produzione del reddito del professionista “abusivo”.
La corte distrettuale ha quindi affermato la certa attribuibilità dell’illecito alla condotta consapevole del ricorrente attraverso una motivazione rispondente ai canoni stabiliti dall’art. 192 c.p.p., ed il procedimento probatorio, che ha fondato l’affermazione di colpevolezza, resiste alle censure di merito, formulate nel ricorso il quale tende a proporre una non consentita lettura alternativa degli eventi.
Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile.
Alla decisa inammissibilità consegue, ex art. 616 C.P.P., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, in favore della Cassa delle ammende, che si stima equo determinare in €. 1000,00 (mille).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di €. 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il giorno 5 giugno 2013

 

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