Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza n. 11514 del 14 maggio 2013
IN FATTO E IN DIRITTO
Nella causa indicata in premessa. é stata depositata la seguente relazione: 1 – La sentenza impugnata, (App. Perugia, 13/10/10), in parziale riforma di quella di primo grado, ha condannato P. N. a corrispondere a F. D. la somma di € 111,14 oltre interessi legali della fatture al saldo a titolo di risarcimento del danno delle spese vive sostenute a causa della lesione da parte dell’appellante, che possono essere ristorate solo nella componente relativa alle spese mediche direttamente dipendenti dall’incidente, non potendosi invece ristorare le spese sostenute per la consulenza medica in fase giudiziale, atteso che non sono conseguenza necessitata e diretta dell’infortunio, ma piuttosto oggetto di libera scelta della parte. Ad eccezione di tale statuizione, infatti, è stato rigettato quasi del tutto l’appello principale, ritenendosi esaustiva la somma di € 873,33 oltre accessori (liquidata in sentenza in considerazione della natura minima dei postumi permanenti) e si è confermata la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale sotto il profilo del danno biologico nell’importo indicato, correttamente individuato dal giudicante secondo le “tabelle” in uso presso il Tribunale di Perugia (avendo l’appellante solo indicato diverse somme ma non avendo contestato i motivi per cui dovrebbe addivenirsi a una diversa valutazione). 2. – L’intimato non ha svolto attività difensiva. 3. – F ricorre per cassazione, deducendo: 3.1. Insufficiente motivazione sul punto della responsabilità di R. D. circa la causazione di danni biologici e morali in capo al F. D. 3.2. Insufficiente motivazione in punto di danno morale. 3.3. Insufficiente motivazione in punto di danno biologico. 3.4. Contraddittoria motivazione sul punto delle spese processuali.
4. – Il ricorso è manifestamente privo di pregio.
4.1. In ordine al primo motivo di ricorso, è appena il caso di ribadire che la Corte territoriale ha congruamente e sufficientemente motivato (con adeguata ed incensurabile valutazione in fatto) – in relazione all’invocata corresponsabilità di R. D. – che il sopraggiungere solo successivo del P., dopo la colluttazione tra il R. ed il F. e dopo che i due furono separati, dà pieno e logico conto della circostanza che non vi fu una aggressione concorsuale perpetrata dai due soggetti insieme (e quindi anche da R., derivando le lesioni occorse al F. soltanto dal colpo inferto con slancio e violenza dal P.
4.2. In ordine al secondo e terzo motivo di ricorso, si deve ribadire che, alla luce dei consolidati principi espressi da questa Suprema Corte (per tutte Cass. SS. UU. 11 novembre 2008 n. 26972) il danno non patrimoniale è categoria unica connotato in senso descrittivo da singole voci risarcitorie che ne garantiscono l’integrale soddisfazione ma non devono condurre ad un’inammissibile duplicazione di poste in cui il danno medesimo si sostanzia. Le Sezioni Unite non accettano la ricostruzione pluralistica, in base alla quale nel nostro sistema risarcitorio ci sarebbero tre categorie diverse di danno non patrimoniale e all’opposto affermano che il danno non patrimoniale è una categoria generale unitaria non suscettibile di divisione in sottocategorie autonome, cioè un danno rappresentato unitariamente dalla lesione degli interessi della persona aventi rilevanza non economica. Questa categoria unitaria comprende ogni forma di sofferenza cagionata da un comportamento illecito che leda interessi non aventi rilevanza esclusivamente economica. Ciò è molto chiaro nella definizione contenuta nel Codice delle Assicurazioni, che all’art. 138 definisce per danno biologico il “danno da lesione dell’integrità psico-fisica che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali”. Pertanto, alla luce della predetta definizione, è risarcibile la sofferenza causata dal peggioramento della qualità della vita, dal non poter più svolgere quelle attività realizzatrici della persona umana che precedentemente erano consentite al soggetto, come conseguenza della lesione del diritto fondamentale alla salute ex art. 32 Cost. Per effetto di tale ricostruzione, non trova più spazio la risarcibilità del c.d. danno morale “puro” o sofferenza d’animo- che non trova materiale riscontro sul piano delle conseguenze dannose oggetto di onere della prova per ottenere il risarcimento- in origine risarcito solo in caso di commissione di reati per effetto del combinato disposto degli artt. 185 c.p. e 2059 c.c.
Tanto premesso sul piano classificatorio a precisazione della ricostruzione giuridica effettuata dalla Corte territoriale, in ogni caso il secondo e il terzo motivo non colgono nel segno, in quanto non prospettano un vero e proprio vizio motivazionale in ordine al riconoscimento delle tipologie di danno morale e biologico, ma contengono plurime censure di stretta interpretazione dell’art. 2059 c.c. (e della relativa giurisprudenza di legittimità), che si sarebbero dovute far valere piuttosto ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c..
In ogni caso, la sentenza d’appello appare congruamente e sufficientemente motivata nella parte in cui ha riconosciuto – a seguito dell’assolvimento dell’onere della prova da parte del danneggiato – una quota di danno biologico incrementata poi in appello con le spese vive (cure mediche) sostenute in conseguenza diretta e immediata della lesione.
Pertanto, non è censurabile in sede di legittimità un tipico accertamento di fatto (effettuato sulla base delle risultanze istruttorie) quale quello che si sostanzia nella quantificazione del danno biologico risarcibile sulla base delle “tabelle”, specie in considerazione del fatto che in punto di danno non patrimoniale entrano in gioco valutazioni di tipo equitativo. Tra l’altro, la stessa Corte d’Appello ha correttamente affermato che “l’appellante non ha contestato i motivi per cui dovrebbe addivenirsi ad una diversa valutazione del danno in questione, limitandosi ad indicare diverse somme”. 4.3. In ordine al quarto motivo di ricorso, appare equa e congruamente motivata la statuizione relativa alle spese processuali effettuata dalla Corte territoriale, con una valutazione in fatto incensurabile in sede di legittimità, anche alla luce delle generiche considerazioni prospettate dal ricorrente. 5. Il relatore propone la trattazione del ricorso in camera di consiglio ai sensi degli artt. 375, 376, 380 bis c.p.c. ed il rigetto dello stesso.” La relazione é stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti costituite. Non sono state presentate memorie, né conclusioni scritte. Ritenuto che: a seguito della discussione sul ricorso in camera di consiglio, il collegio ha condiviso i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione; che il ricorso deve perciò essere rigettato, essendo manifestamente infondato; Non v’è motivo di provvedere sulle spese del presente giudizio nei confronti della parte intimata, non avendo questa svolto attività difensiva; visti gli artt. 330-bis e 385 cod. proc. civ.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Cosi deciso in Roma, il 6 marzo 2013.
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