SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI PENALE
SENTENZA 6 giugno 2012, n.21913
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza pronunciata in data 9 giugno 2005, il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Brescia, assolse B. M., S. L. e R. M., ‘per non avere commesso il fatto’, dal reato di concorso continuato nel delitto di falsa testimonianza commesso da G. C., T. G., R.T. in udienza penale dinanzi al Tribunale di Brescia nel procedimento nei confronti di E. V. e M. R., imputati di reati fiscali, reati fallimentari, truffa in danno dello Stato, associazione per delinquere ed altro.
Secondo la contestazione, G. C., G. T., R. T., autisti dipendenti dal V., avevano reso dichiarazioni false, favorevoli al datore di lavoro, su istigazione del B. e del Loiacono, avvocati difensori del medesimo V..
Aperto procedimento penale nei confronti dei predetti autisti per falsa testimonianza, essi resero al Pubblico Ministero numerose e varie dichiarazioni, sino alla ritrattazione finale.
Nella sentenza, dopo un’analitica esposizione delle numerose e contrastanti dichiarazioni di C. e dei due T., si concludeva rimarcando ‘la stucchevole girandola delle versioni sempre diverse l’una dall’altra’, rese dai predetti autisti, che avevano ‘dato vita, nel complesso, ad un crogiuolo talmente infido da rendere improduttivo e sterile per le esigenze del processo – e più in generale del diritto – ogni sforzo diretto a setacciare e distinguere all’interno di esso gli elementi genuini da quelli contaminati’. Per mancanza di coerenza e di logicità intrinseca delle chiamate in correità, C. e G. T. venivano qualificati ‘persone radicalmente non credibili, e ciò a prescindere dai contenuti dei loro racconti’, con l’aggiunta che l’atteggiamento processuale degli stessi risultava ‘pesantemente inquinato da logiche economiche e remunerative’, per essere emerso che avevano tentato di ‘vendere il loro silenzio’, nel procedimento a carico del loro datore di lavoro, in stato di detenzione, al prezzo di ’10 o 20 mila Euro ciascuno’, richiesto ai familiari del V..
2. La Corte d’appello di Brescia, in accoglimento dell’impugnazione del pubblico ministero, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti e – nella ritenuta equivalenza tra circostanze attenuanti generiche e aggravanti contestate e con la diminuente del rito abbreviato – ha condannando B. e L. alla pena di due anni e sei mesi di reclusione (interamente condonata), nonché alla pena accessoria dell’interdizione dalla professione di avvocato per un anno, e Merlin a quella due anni di reclusione (condonata nella misura di un mese e un giorno).
3. Ricorrono per cassazione i tre imputati, tramite i rispettivi difensori, i quali deducono motivi in larga parte comuni, anche se diversamente formulati, che si possono così sintetizzare:
a) nullità della sentenza per violazione degli artt. 545 e 546, commi 1 e 3, cod. proc. pen., con riferimento all’art. 606.1, lett. c) c.p.p. per mancanza o, comunque, per incompletezza degli elementi essenziali del dispositivo, con incertezza sul termine di impugnazione;
b) violazione dell’art. 384, comma secondo, c.p. con riferimento all’art. 606.1, lett. b) c.p.p. per mancata rilevazione del difetto di tipicità del contestato reato di falsa testimonianza, in quanto commesso da soggetti (C. e i due T.) che non avrebbero potuto essere obbligati a deporre o comunque a rispondere nel processo in cui fu commesso il reato di falsa testimonianza, giacché gli stessi erano concorrenti nei reati fiscali contestati al V.;
c) violazione dell’art. 384, comma primo, c.p. per mancata applicazione (anche nei confronti degli odierni imputati, concorrenti nel reato) della causa di non punibilità prevista in favore di chi abbia commesso il reato di cui all’art. 372 c.p. per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo da un grande nocumento nella libertà o nell’onore;
d) violazione dell’art. 372 c.p. e dell’art. 192.3 c.p.p. e vizio di motivazione, con riferimento all’art. 606.1, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione alla valutazione dalle dichiarazioni rese da C. G., G. T. e E. V., M. N. e C. B.;
e) violazione dell’art. 372 c.p. ed dell’art. 192.3 c.p.p. e vizio di motivazione, con riferimento all’art. 606.1, lett. b) ed e) c.p.p. in relazione alla valutazione delle predette dichiarazioni e dei riscontri esterni, anche sotto l’aspetto della mancata presa in considerazione degli argomenti difensivi esposti nelle memorie depositate in primo e secondo grado.
Considerato in diritto
1. Non sussiste la dedotta nullità della sentenza per violazione degli artt. 545 e 546, commi 1 e 3, cod. proc. pen., con riferimento all’art. 606.1, lett. c) c.p.p., pur corrispondendo a verità quanto denunciato da taluni ricorrenti, con riferimento alla mancata lettura del dispositivo della sentenza.
Come hanno precisato le Sezioni Unite di questa Corte, la sentenza pronunciata in appello all’esito di giudizio abbreviato deve essere pubblicata mediante lettura del dispositivo in udienza camerale dopo la deliberazione, e non mediante deposito in cancelleria. Tuttavia, in caso di omessa lettura, la sentenza non è abnorme o nulla, verificandosi una mera irregolarità, che produce però effetti giuridici, impedendo il decorso dei termini per l’impugnazione. (Cass. Sez. U, n. 12822 del 21/01/2010, Rv. 246269, Marcarino).
2. Meritano invece accoglimento, nei limiti di seguito specificati, le censure sostanziali dedotte dai ricorrenti per erronea applicazione di norme penali e violazione dell’obbligo rafforzato di motivazione della sentenza d’appello che, in accoglimento dell’impugnazione del pubblico ministero, riformi la decisione assolutoria del giudice di primo grado.
3. È consolidata giurisprudenza di questa Corte che la sentenza di appello che ribalta il giudizio assolutorio di primo grado deve confutare specificamente, a pena di vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello, e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (Cass. Sez. 6, n. 6221/2006, Rv. 233083, Aglieri; Sez. U, n. 45276/2003, Andreotti).
A tale consolidato orientamento di legittimità, occorre aggiungere la considerazione che il principio secondo cui il giudizio di condanna è legittimo ‘se l’imputato risulta colpevole […] al di là di ogni ragionevole dubbio’, (art. 533, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 5 della l. 20 febbraio 2006, n. 46), implica che, in mancanza di elementi sopravvenuti, la valutazione peggiorativa compiuta nel processo d’appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado, debba essere sorretta da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente l’errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella d’appello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di colpevolezza.
Come è stato efficacemente affermato, non basta più ‘per la riforma caducatrice di un’assoluzione, una mera diversa valutazione caratterizzata da pari o addirittura minore plausibilità rispetto a quella operata dal primo giudice, occorrendo invece una forza persuasiva superiore, tale da far cadere ogni ragionevole dubbio, in qualche modo intrinseco alla stessa situazione di contrasto. La condanna, invero, presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza, ma la mera non certezza della colpevolezza’ (Cass. sez. 6, n. 40159//2011, rv. 251066, Galante; sez. 6, n. 40513/2011, Coruzzi, n.m.; Sez. 6, n. 4996/2012, rv. 251782, Abbate).
3.1. Orbene, la sentenza impugnata è venuta meno a tale obbligo di motivazione rafforzata, tanto più in presenza di memorie di parte che aggiungevano ulteriori argomentazioni, in senso assolutorio, rispetto a quelle emergenti dalla motivazione della sentenza di primo grado.
In particolare, i giudici d’appello hanno troppo sbrigativamente superato la valutazione d’inattendibilità dei dichiaranti C. e G. T., ritenuti dal Tribunale ‘persone radicalmente non credibili, e ciò a prescindere dai contenuti dei loro racconti’.
I giudici d’appello non hanno fornito una convincente motivazione né in ordine alla credibilità dei suddetti dichiaranti, di cui risulta evidenziato l’interesse economico a ‘vendere’ il loro silenzio (ciò che implica la disponibilità di rendere dichiarazioni non veritiere ed interessate, una volta mutato il contesto di riferimento) né in ordine all’autonomia e genuinità delle dichiarazioni, la cui trascrizione contenuta negli atti difensivi palesa singolarissime identità di espressioni e riferimenti erronee a soggetti, che evidenziano un testo concertato tra i dichiaranti, e da essi meccanicamente recitato senza neppure l’accortezza di modificare le rispettive diverse identità soggettive.
4. I rilievi che precedono sono già sufficienti a imporre l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
Questa, peraltro, ha omesso di affrontare una serie di problemi giuridici, il cui preventivo esame appariva doveroso prima di affermare la penale responsabilità degli imputati.
Dalle lettura degli stessi capi d’imputazione emerge che gli autisti G. G., G. T. e T. R. – i quali, in violazione dell’art. 372 cod. pen., avevano affermato d’aver trasportato, per conto delle imprese del V., carichi di vergella di alluminio, essendo ben consapevoli di avere in realtà effettuato carichi di trasporti di pani o billette di alluminio, materiale che, a differenza della vergella, è esenta da IVA – erano imputabili, o quanto meno indiziabili, per concorso in taluni dei reati fiscali addebitati al V. e, pertanto, non dovevano e non potevano essere sentiti in qualità di testimoni, non essendo ammissibile l’obbligo di deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una responsabilità personale del dichiarante (art. 198.2, cod. proc. pen.), con conseguente applicabilità dell’art. 384, comma secondo, cod. pen..
Il giudice d’appello non poteva e non doveva sentirsi vincolato dalle scelte operate dal pubblico ministero e dai giudici nel procedimento penale nei confronti di E. V., nel cui ambito erano stati sentiti gli autisti in qualità di testi, competendo alla Corte bresciana, che ha affermato la penale responsabilità degli odierni imputati, l’obbligo di autonomamente apprezzare la corretta qualifica da attribuirsi ai predetti autisti, eventualmente discostandosi anche dalle valutazioni e dalle conclusioni a suo tempo effettuate dal giudice del procedimento in cui tali dichiarazioni furono rese (v., tra le più recenti, Cass. Sez. unite, n. 7208/2007, Genovese, e n. 15208/2010, Mills).
4.1. Da tali rilievi i ricorrenti, sull’assunto che l’art. 384, comma secondo, cod. pen. configurerebbe un’ipotesi in cui ricorre difetto di tipicità del fatto-reato, fanno derivare la necessaria assoluzione degli odierni imputati, concorrenti in un fatto che non integra il reato proprio di cui all’art. 372 cod. pen..
Per la verità nei ricorsi si denuncia anche l’erronea applicazione dell’art. 384, comma primo, cod. pen., ma tale deduzione appare del tutto inconferente, giacché nel caso in esame non ricorre l’ipotesi di persona, legittimamente assunta come teste, che ha commesso il delitto di cui all’art. 372 c.p. ‘per esservi stato costretto dalla necessità di salvare se medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore’, bensì quella di ‘chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio […] ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere’ (art. 384, comma secondo, cod. pen.).
Osserva il Collegio che, per affrontare quest’ultimo problema, è indispensabile esaminare se la condotta addebitata agli odierni imputati integri o meno la previsione di cui all’art. 111, comma primo, cod. pen., il quale prevede che ‘chi ha determinato a commettere un reato una persona […] non punibile a cagione di una condizione o qualità personale, risponde del reato da questa commesso’, previsione che, prima di costituire anche un’aggravante, configura un’ipotesi particolare di punibilità del concorrente determinatore, pur in presenza di specifiche ipotesi di non punibilità dell’autore del reato.
Invero, al di là delle ricostruzione dommatiche delle fattispecie disciplinate dall’art. 384, comma secondo, cod. pen., l’interprete-giudice deve innanzitutto considerare che il legislatore nel predetto articolo ha espressamente previsto determinati ‘casi di non punibilità’ e che la disciplina del concorso di persone nel reato, all’art. 111 cod. pen., accanto all’ipotesi della persona non imputabile, prende in esame anche quello della persona ‘non punibile a cagione di una di una condizione o qualità personale’.
Orbene, non sussiste alcun elemento normativo che impedisca di prendere in considerazione, nell’ipotesi di concorso di persone nel reato, la situazione di chi ha determinato alla commissione del delitto una persona che, per essere stata richiesta di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunta come teste, si trovi nella condizione prevista dall’art. 384, comma secondo, cod. pen., condizione che ovviamente non può che qualificarsi come ‘personale’.
È ben evidente il particolare disvalore che il legislatore, nella disciplina del concorso di persone nel reato, ha inteso assegnare alla condotta del determinatore, al punto da avvertire la necessità di specificare, ad evitare ogni dubbio, che del reato commesso dalla persona determinata, autore del fatto tipico, non punibile a cagione di condizioni o qualità personali, non soltanto risponde il determinatore, ma ‘la pena è aumentata’.
4.2. L’esame di tale questione implica, però, un preventivo accertamento di fatto di competenza del giudice del merito, giacché, mentre il capo d’imputazione contesta agli imputati B. e L., oltre al ruolo di istigatori, anche quello di ‘diretti e consapevoli determinatoti della condotta criminosa consumata in udienza’ dai tre autisti, nella sentenza della Corte bresciana manca uno specifico esame del ruolo di determinazione degli imputati, per la cui integrazione non è sufficiente una semplice richiesta, sollecitazione o istigazione verso colui che del fatto-reato tipico, occorrendo invece che la condotta dell’agente determinatore abbia fatto insorgere nel determinato un’intenzione criminosa prima inesistente (cfr. Cass. Sez. 4, n. 38107/2010, Rv. 248406; Sez. 3, n. 1516/1969, Rv. 113164).
5. In conclusione, ritenuto assorbito ogni altro motivo, la sentenza impugnata va, pertanto, annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia per nuovo giudizio.
P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia.
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