Suprema Corte di Cassazione
sezione VI
sentenza 29 settembre 2014, n. 40292
Fatto e diritto
1. Con l’indicata sentenza la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del locale Tribunale, che all’esito di giudizio ordinario ha condannato A. D.G., tenuto conto della recidiva contestagli, alla pena di sette mesi di reclusione per il reato di minaccia plurima a pubblico ufficiale ex art. 336 c.p., avendo rivolto frasi intimidatorie a due funzionari della polizia municipale milanese per indurli a desistere dalla rituale contestazione di infrazioni al codice della strada dagli stessi rilevate, avendolo sorpreso a parlare al cellulare senza auricolare mentre era alla guida della sua vettura e a non dare la precedenza dovuta ad altri utenti della strada (frasi di minaccia, quali: “bene, vigili urbani, io ne ho già fatti licenziare due, vi farò passare dei grossi guai, so come fare e conosco le persone giuste in Procura e altrove…!’ che univa alle fotografie dei due operanti eseguite con il suo cellulare, aggiungendo: “ora ho anche le foto e i miei amici sapranno riconoscervi’).
2. Contro la sentenza di appello ha proposto ricorso il difensore dell’imputato, articolando censure di erronea applicazione dell’art. 336 c.p. e di connessa carenza e illogicità manifesta della motivazione sulla confermata responsabilità del D.G..
I giudici di appello, muovendo dalla riconosciuta piena attendibilità delle testimonianze dei due vigili urbani D.T. e N., hanno ritenuto il contegno dell’imputato integrativo, con giudizio ex ante, della contestata fattispecie criminosa, sebbene il D.G. si sia limitato a manifestare il suo semplice disappunto per il discutibile intervento operativo dei due vigili. La sussistenza della minaccia è stata ipotizzata sulla base del solo presunto oggettivo contenuto intimidatorio delle frasi rivolte ai funzionari. E’ mancata ogni verifica della finalizzazione delle frasi dell’imputato ad incidere sull’attività d’istituto dei vigili e, a tutto concedere, della concreta volontà lesiva di tali frasi. Impropriamente la sentenza di appello ha attribuito valenze minatorie anche alla videoripresa dell’episodio eseguita dal prevenuto, che si connette a un generale obbligo di trasparenza e correttezza di qualsiasi attività amministrativa, e al richiesto intervento di una pattuglia del 113 per accertare la reale identità dei due vigili, non avendo costoro (in borghese) esibito i rispettivi tesserini. La complessiva condotta dell’imputato, insomma, non ha prodotto nessuna indebita interferenza sull’intervento funzionale dei due vigili urbani.
3. II ricorso è inammissibile. Le prospettate censure, di per sé aspecifiche (perché in gran parte frutto di acritica replica di rilievi esposti con l’appello e compiutamente apprezzati dai giudici di secondo grado, oltre ad essere già stati vagliati nel primo giudizio, come si evince dalla decisione del Tribunale), sono palesemente infondate e per più versi indeducibili.
La valutazione della Corte di Appello sulla ribadita attendibilità dei due vigili persone offese è immune da possibili censure perché coerente e logica (la sentenza di appello evidenzia come i due operanti, non costituitisi parti civili, abbiano redatto la loro relazione di servizio nell’immediatezza dell’episodio poi descritto in dibattimento e come nessuna specifica doglianza sia stata sollevata dall’imputato sul merito del loro intervento). Del pari la responsabilità dell’imputato per l’ascritto reato di cui all’art. 336 c.p. è stata valutata univoca alla stregua dei palesi contenuti di minaccia, grave e ingiusta, delle frasi rivolte dall’imputato agli operanti, nel contatto con i quali ha esordito con una ulteriore frase ricordata dalla sentenza di appello (“state attenti, sono un giornalista!’) altamente significativa dei chiaro intento di arrogante intimidazione fin dall’inizio assunto dall’imputato verso i due vigili urbani.
Privi di ogni pregio vanno considerati i rilievi del ricorrente sulla inadeguata prognosi di idoneità e concretezza offensive della condotta intimidatoria attribuitagli. Non è revocabile in dubbio, infatti, come si desume da entrambe le sentenze di merito e in particolare dalla sentenza di appello, che la minaccia di influire sulla loro posizione lavorativa (addirittura fino ad un possibile licenziamento) rivolta dall’imputato ai due vigili è collegata, in relazione di diretta causalità, all’esercizio delle funzioni espletate dai due operanti e al deliberato scopo (rappresentativo del dolo specifico tipizzato dalla norma incriminatrice) di contrastare o comunque condizionare il loro operato, ivi incluso il pretestuoso sollecitato intervento di una pattuglia di polizia per accertare la reale qualità professionale dei vigili operanti, benché questi già gli avessero esibito i loro tesserini dopo averlo fermato mostrandogli, per altro, la “paletta” di ordinanza.
Come noto, il reato di minaccia o violenza a pubblico ufficiale punito dall’art. 336 c.p. si consuma, nella sua connotazione di reato di pericolo volto alla immediata tutela della libertà del pubblico ufficiale nell’espletamento dei doveri funzionali, indipendentemente dal raggiungimento del concreto effetto impeditivo o di intralcio dell’attività funzionale (cfr.: Sez. 6, 16.4.2008 n. 32390, Martucci, rv. 240650; Sez. 6, 10.1.2011 n. 6164, Stefanello, rv. 249376). Di qui l’ulteriore inconferenza degli additivi rilievi del ricorso, secondo cui i vigili hanno potuto compiere la loro attività culminata nella contestazione delle accertate infrazioni del prevenuto al codice della strada.
Merita aggiungere, d’altro canto in rapporto alla implicita rielaborazione fattuale delle fonti probatorie prefigurata con il ricorso e non consentita in sede di legittimità, che l’analisi valutativa della efficacia intimidatoria o meno della condotta di minaccia posta in essere nei confronti di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio, mentre si trovano nell’espletamento delle funzioni o del servizio rispettivi, costituisce tematica che appartiene per intero al giudizio di merito, quando -come nel caso della sentenza impugnata- la corrispondente motivazione del giudice del fatto non ecceda i limiti di una ordinaria ragionevolezza e ponderazione di giudizio.
Alla dichiarata inammissibilità dell’impugnazione segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma alla cassa delle ammende, equamente determinata in euro 1.000 (mille).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille in favore della cassa delle ammende.
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