Cassazione 11

 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

Sentenza 18 febbraio 2016, n. 6677

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza emessa in data 13 ottobre 2015 il Tribunale dei riesame di Torino ha confermato l’ordinanza applicativa della misura della custodia cautelare n carcere emessa dal G.i.p. presso il Tribunale di Torino il 20 settembre 2015 nei confronti di E.M., indagato per i reati di corruzione continuata di cui all’art. 319 cod. pen. [capi 1) e 2)], commessi in Torino dall’ottobre 2014 nella sua qualità di Presidente della Commissione medica di verifica presso il MEF (Ministero dell’economia e delle finanze), per avere ricevuto somme di denaro da un medico legale, E.Q., al fine di far ottenere benefici pensionistici ai suoi pazienti.
2. Il difensore di fiducia dei predetto indagato ha proposto ricorso per cassazione avverso la su indicata ordinanza, deducendo i seguenti motivi di doglianza.
2.1. Violazione di legge vizi della motivazione in relazione agli artt. 319-319 cod. pen., 273 e 192 cod. proc. pen., non essendo emersa alcuna prova della falsità della certificazione medica rilasciata dal dott. M.I., inserita all’interno della cartella relativa alla posizione di R.G., con la conseguenza che se la certificazione fosse conforme al vero, l’atto adottato sarebbe identico a quello che sarebbe stato adottato a tutela del pubblico interesse ed il pagamento corruttivo sarebbe ininfluente sulla conformità ai doveri d’ufficio dei M.. Peraltro, né la pratica R., né quella relativa a Perotti Vilma, riportano alcuna firma da parte dei membri della predetta Commissione, dovendosi altresì rilevare che tali pratiche avrebbero potuto anche non essere convalidate, non permettendo così alle pazienti di ottenere il richiesto beneficio.
In relazione al reato di cui al capo 2), inoltre, mancherebbe un vero e proprio riscontro oggettivo alle dichiarazioni del Q., riscontro che non potrebbe essere offerto se non dall’accertamento clinico della inesistenza delle patologie riportate dai certificati medici.
2.2. Erronea applicazione dell’art. 274 cod. proc. pen. ed illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle esigenze cautelare legate ai pericoli di reiterazione dei reato ed inquinamento delle prove, tenuto conto, in particolare, dei fatto che al M. è stato revocato l’incarico e che non vi è alcun elemento idoneo a sostenere che vi siano stati contatti con medici e pazienti.

Considerato in diritto

1. II ricorso è infondato e va rigettato per le ragioni qui di seguito esposte e precisate.
2. La gravità dei panorama indiziario evocato a sostegno della misura, e scrutinato in termini di adeguatezza dal Giudice del riesame cautelare, deve ritenersi congruamente evidenziata nella motivazione del provvedimento impugnato, che ha proceduto ad una valutazione analitica e globale degli elementi emersi a carico del ricorrente, dando conto, sulla base di passaggi argomentativi stringenti e logicamente illustrati, delle ragioni che giustificano il relativo epilogo decisorio.
Entro tale prospettiva, deve rilevarsi come l’ordinanza impugnata abbia puntualmente replicato alle obiezioni difensive, linearmente evidenziando – sulla base delle numerose emergenze investigative ivi compiutamente rappresentate, e in particolare del contenuto della documentazione sanitaria e degli esiti delle attività di intercettazione – il progressivo succedersi dei fatti oggetto dei su indicati temi d’accusa, che hanno visto l’indagato coinvolto, quale Presidente della Commissione medica di verifica presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, nella istruzione di pratiche orientate al fine di far ottenere, dietro compenso, una dichiarazione di inabilità al lavoro per ragioni di salute in favore di persone assistite dal coindagato E.Q., che non erano in possesso dei requisiti necessari per fruire dei relativi benefici pensionistici.
Ricostruiti con dovizia di particolari i fatti oggetto delle contestate ipotesi delittuose, il Tribunale del riesame ne ha individuato i relativi elementi di riscontro anche sulla base delle analoghe modalità di realizzazione che hanno connotato il dispiegarsi di ulteriori e connesse vicende storico-fattuali oggetto d’indagine, ponendo in rilievo, segnatamente: a) che le dichiarazioni rese dalle impiegate presso il M.E.F. di Torino hanno dato conto della presenza di una consuetudine volta a contrassegnare i fascicoli formati a seguito delle richieste avanzate dai pazienti del Q. con la lettera “Q”, in modo che venissero trattati nelle sedute della Commissione presieduta dal M.; b) che le stesse dichiarazioni rese dal Q. hanno confermato il fatto che i due avevano attuato un “sistema” da tempo collaudato, al fine di percepire somme di denaro per far ottenere ai suoi pazienti i richiesti benefici.
3. Sulla base delle su esposte considerazioni, deve ritenersi che il Tribunale del riesame abbia correttamente applicato i principii al riguardo affermati da questa Suprema Corte (v., in motivazione, Sez. 6, n. 23354 del 04/02/2014, Conte, Rv. 260533), secondo cui, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge, poiché la fattispecie incriminatrice de qua è chiamata a sanzionare anche l’uso distorto della discrezionalità amministrativa, cioè il procedimento condizionato non già da un percorso di attenta ed imparziale comparazione tra gli interessi in gioco, ma dalla percezione di un indebito compenso affinché venga raggiunto un esito determinato (esito che può anche essere compatibile con il sistema delle norme regolatrici, e può finanche coincidere, ex post, con quello che sarebbe stato raggiunto in assenza del pagamento corruttivo).
Nell’affermare tale principio, inoltre, la Corte ha precisato che il versamento di una somma consistente è un elemento fortemente sintomatico della necessità per il privato di incidere sulla formazione del provvedimento amministrativo, soggiungendo che “solo quando l’atto risulti sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato a tutela del pubblico interesse, con il medesimo contenuto e con le medesime modalità, il pagamento corruttivo potrebbe considerarsi ininfluente sulla sua conformità ai doveri dell’ufficio, e dunque riconducibile alla fattispecie della c.d. corruzione impropria (Sez. 6, sent. n. 36083 del 09/07/2009, Rv. 244258)”.
Irrilevante, dunque, deve ritenersi l’obiezione secondo cui la corruzione c.d. propria sussisterebbe solo quando sia configurabile un comportamento doveroso alternativo, sul presupposto che, trattandosi di persone affette da gravi patologie, il beneficio richiesto sarebbe stato ad esse comunque riconosciuto, a prescindere dalla erogazione di denaro da parte del Q., poiché ciò che si richiedeva all’indagato nell’adempimento delle sue funzioni era l’espressione di una valutazione autonoma, frutto di un meditato apprezzamento dell’esistenza e della fondatezza del tipo di patologie rilevate dagli specialisti, nell’ambito di una decisione collegiale fondata sul rispetto di regole tecniche e di criteri di buona amministrazione, laddove la corresponsione di un corrispettivo destinato a far ottenere i benefici richiesti da determinate persone preclude in radice la possibilità di un corretto esercizio dei poteri che ne regolano l’attività, impedendo, come puntualmente evidenziato dal Tribunale, “ogni considerazione, conforme a criteri di correttezza e di discrezionalità amministrativa o tecnica, nell’esame di quella richiesta”.
Deve altresì ribadirsi che, in tema di corruzione propria, costituiscono atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Sez. 6, n. 30762 del 14/05/2009, Ottochian e altri, Rv. 244530).
D’altra parte, è pacifico che il reato in oggetto possa essere integrato anche mediante atti di natura discrezionale o meramente consultiva, quando essi costituiscano concreto esercizio dei poteri inerenti l’ufficio e l’agente sia il soggetto deputato ad emetterli o abbia un’effettiva possibilità di incidere sul relativo contenuto o sulla loro emanazione. Ed invero, l’atto di natura discrezionale o consultiva non ha mai un contenuto pienamente “libero”, essendo soggetto, per un verso, al rispetto delle procedure e dei requisiti di legge, per altro verso, alla necessità di assegnare comunque prevalenza all’interesse pubblico (Sez. 6, n. 8935 del 13/01/2015, Giusti, Rv. 262497; Sez. 6, n. 36212 dei 27/06/2013, De Cecco, Rv. 256095).
4. Parimenti adeguata deve altresì ritenersi, nella motivazione dell’impugnato provvedimento, la giustificazione offerta riguardo alla sussistenza delle esigenze cautelare, che il Tribunale, a fronte di contestazioni solo genericamente formulate, ha coerentemente desunto dagli evidenziati rischi di inquinamento probatorio e di reiterazione delle gravi condotte oggetto di addebito cautelare, sia in ragione dell’influenza dall’indagato ancora esercitata sui dipendenti dell’ufficio e della necessità di acquisire ulteriori informazioni da un consistente numero di persone che egli potrebbe contattare al fine di indurle a modificare la loro versione dei fatti, sia in considerazione delle loro gravi modalità di realizzazione, indicative dell’esistenza di un sistema corruttivo da tempo collaudato e fondato su una consolidata rete di rapporti di conoscenza personale, in grado di garantire il rilascio di certificazioni sanitarie di comodo ai clienti interessati, in modo che le stesse potessero essere accettate e ritenute credibili dai membri della su indicata Commissione.
5. In definitiva, a fronte di un congruo ed esaustivo apprezzamento delle emergenze procedimentali, esposto attraverso un insieme di sequenze motivazionali chiare e prive di vizi logici, il ricorrente non ha individuato passaggi o punti della decisione tali da inficiare la complessiva tenuta del discorso argomentativo delineato dal Tribunale, ma ha sostanzialmente contrapposto una lettura alternativa delle risultanze investigative, facendo leva sul diverso apprezzamento di profili di merito già puntualmente vagliati in sede di riesame cautelare, e la cui rivisitazione, evidentemente, non è sottoponibile al giudizio di questa Suprema Corte.
Al riguardo v’è da osservare, peraltro, che l’ordinamento non conferisce a questa Suprema Corte alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende oggetto d’indagine, nè la investe di alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive degli indagati, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelare e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo ed insindacabile del giudice cui è stata richiesta l’applicazione delle misura cautelare e del tribunale chiamato a pronunciarsi sulle connesse questioni de libertate. Il controllo di legittimità, pertanto, è circoscritto esclusivamente alla verifica dell’atto impugnato, al fine di stabilire se il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro di carattere negativo, la cui contestuale presenza, come avvenuto nel caso in esame, rende l’atto per ciò stesso insindacabile: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza nel testo di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo dei provvedimento (da ultimo, v. Sez. F., n. 47748 dei 11/08/2014, dep. 19/11/2014, Rv. 261400; Sez. 3, n. 40873 del 21/10/2010, dep. 18/11/2010, Rv. 248698).
6. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 cod. proc. pen. .
La Cancelleria provvederà all’espletamento degli incombenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att., cod. proc. pen. .

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. 

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter, disp. att., cod. proc. pen.

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