La massima

La nozione di possesso o di disponibilità, quale presupposto del delitto di peculato, fa riferimento a un potere di fatto o a una disponibilità giuridica sul bene, con il necessario collegamento ovviamente all’ufficio cui il pubblico ufficiale è preposto anche per effetto di semplice occasionalità o in dipendenza di una prassi più o meno ortodossa o di una tollerata attività di fatto. Ne consegue che risponde di peculato l’agente che ponga in essere una condotta fraudolenta, che non incida sul possesso del bene, nel senso di conseguirne la disponibilità, ma abbia la sola funzione di mascherare, almeno in apparenza, la commissione del delitto. (Nel caso di specie la Corte ha confermato la condanna per peculato e falsità materiale in atto pubblico a carico di una dipendente di un ente ospedaliero pubblico che prima aveva sottratto denaro dalla cassa, poi aveva tentato di nascondere l’ammanco, facendo risultare contabilmente l’avvenuto rimborso per prestazioni sanitarie mai eseguite).

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

SENTENZA 15 giugno 2012, n.23777


Fatto e diritto

 

1. La Corte d’appello di Cagliari, con sentenza 24/9/2009, confermava la decisione in data 11/4/2008 del Gup del locale Tribunale, che, all’esito del giudizio abbreviato, aveva dichiarato Z.G. colpevole dei reati di peculato e di falsità materiale in atto pubblico aggravata dal nesso teleologico, illeciti ritenuti in continuazione tra loro, e l’aveva condannata, con la diminuente del vizio parziale di mente, alla pena di anni due di reclusione e al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile.

Gli addebiti specifici mossi all’imputata possono essere così sintetizzati:

capo A): delitto di cui agli artt. 81 cpv., 314 cod. pen., perché, quale impiegata dalla AUSL n. X in servizio presso il Poliambulatorio di (OMISSIS) , si appropriava, in più riprese tra il 3 aprile e il 7 luglio 2003, della somma complessiva di Euro 1.720,96 di pertinenza del detto Ente e della quale aveva la disponibilità, facendo risultare contabilmente l’avvenuto rimborso di tickets sanitari a vari cittadini per prestazioni non eseguite;

capo B): delitto di cui agli artt. 61 n. 2, 81 cpv., 476 cod pen., perché, nella qualità precisata, al fine di occultare il reato che precede e di assicurarsi l’impunità, formava, nell’arco temporale indicato, 53 pratiche false di rimborso tickets sanitari per prestazioni non eseguite.

Il Giudice distrettuale riteneva che plurimi dati di fatto tra loro convergenti provavano la responsabilità dell’imputata: a) la spontanea confessione stragiudiziale da costei resa, il 7/7/2003, alla presenza dei colleghi di lavoro D.M. , P.M. e P..N. , prima ancora che venissero avviate indagini ufficiali a suo carico; b) gli esiti della espletata indagine amministrativa, che erano risultati coerenti con il tenore della confessione e riscontravano la credibilità della stessa; c) le dichiarazioni della sorella dell’imputata circa il vizio del gioco che affliggeva, a livello patologico, la congiunta, indotta probabilmente all’indebita appropriazione del denaro pubblico dalla esigenza di fronteggiare i rilevanti debiti contratti; d) la testimonianza di A..S. , direttrice amministrativa della AUSL del distretto di (OMISSIS) , che aveva riferito in ordine alle irregolarità sostanziali che caratterizzavano le 53 pratiche di rimborso tickets, all’entità dell’ammanco accertato e quantificato nella misura indicata nel capo d’imputazione e alla circostanza che la Z. , pur addetta – di norma – alla cassa ‘esenti’ P13, in più occasioni aveva sostituito colleghi alle casse (P19 e P23) dove v’era maneggio di denaro.

Aggiungeva la Corte territoriale che l’ipotesi accusatoria non poteva ritenersi smentita dalla fittizia operazione di rimborso a favore di tale G..S. , solo perché tale operazione risultava essere stata registrata nel computer alle ore 7,52 del 7/5/2003, mentre l’ingresso in ufficio dell’imputata in tale giorno era stato registrato alle ore 7,57 dall’apparecchio relativo alla timbratura dei cartellini di presenza, potendo tale minimo scarto temporale trovare verosimilmente giustificazione nella mancata sincronizzazione dei due diversi dispositivi; in ogni caso, tale isolato episodio, pur a volerlo interpretare diversamente, rivestiva una importanza insignificante nell’economia complessiva della vicenda.

Quanto alla qualificazione giuridica del fatto di cui al capo A), la Corte di merito disattendeva la tesi difensiva della truffa, in quanto la Z. si era appropriata di denaro di cui aveva la disponibilità e la predisposizione delle false pratiche di rimborso aveva avuto la sola finalità di offrire un’apparente giustificazione contabile agli illeciti prelievi di denaro.

Riteneva, infine, di non accordare alla imputata le invocate circostanze attenuanti generiche e il beneficio della sospensione condizionale della pena, considerato che la predetta era gravata da un precedente penale specifico.

2. Ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, l’imputata e ha dedotto: 1) violazione degli artt. 192 e 195 cod. proc. pen. e illogicità della motivazione, con riferimento alla decisiva valenza probatoria allegata alla confessione stragiudiziale, che, rivestendo carattere di semplice indizio, doveva essere adeguatamente riscontrata da elementi di chiaro significato esterni ad essa; 2) violazione degli artt. 192 e 195 cod. proc. pen. e illogicità della motivazione sotto il profilo che l’indagine amministrativa interna del 6/8/2003 aveva accertato delle mere irregolarità formali delle pratiche di rimborso e non anche la ricorrenza dei presupposti sostanziali legittimanti comunque le medesime; 3) violazione delle regole in tema di valutazione della prova, per non essersi dato il giusto rilievo a quanto emergeva, in senso chiaramente favorevole all’imputata, dalla pratica relativa a G..S. ; 4) violazione degli artt. 192, 195 cod. proc. pen. e omessa motivazione su quando e su come la Z. avrebbe posto in essere l’attività illecita contestatale, considerato che non era stabilmente addetta alle casse con maneggio di denaro; 5) violazione della legge penale in ordine alla qualificazione giuridica del fatto appropriativo, che andava inquadrato nel paradigma della truffa; 6) vizio di motivazione sul diniego delle invocate circostanze attenuanti generiche.

3. Il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.

I primi quattro motivi di ricorso, contestando la gestione delle regole in tema di valutazione del materiale probatorio acquisito e la conseguente valenza accusatoria a questo attribuita, sono strettamente connessi tra loro e vanno esaminati congiuntamente, per sottolineare la loro inidoneità ad evidenziare i denunciati vizi di legittimità della sentenza impugnata.

Questa, invero, non è posta in crisi dalle censure mossele, in quanto fa buon governo delle regole dettate dall’art. 192 cod. proc. pen. e riposa su un apparato argomentativo che da conto, in maniera adeguata e logica, delle ragioni che giustificano la conclusione alla quale perviene, facendo leva, come si evince da quanto più sopra sintetizzato, sulla confessione stragiudiziale dell’imputata, sulle testimonianze rese dai colleghi di lavoro della stessa che ne recepirono la confessione, sugli esiti dell’indagine amministrativo/contabile espletata dall’ufficio ispettivo della AUSL, sulla testimonianza della direttrice amministrativa di tale Ente, A..S. .

Osserva riassuntivamente la Corte che il nostro ordinamento penale non prevede una gerarchia di valore delle acquisizioni probatorie, ma si limita unicamente a indicare il criterio argomentativo che il giudice deve seguire nell’operazione intellettiva di valutazione delle dichiarazioni rese da determinati soggetti; non esiste cioè un principio di legalità della prova, ma di legalità della valutazione che ne deve essere fatta.

La confessione stragiudiziale, pertanto, ben può essere posta a base del giudizio di colpevolezza dell’imputato ove il giudice di merito, con motivazione immune da vizi logici, ne apprezzi favorevolmente la veridicità e la spontaneità, escludendo ogni sospetto di intendimento autocalunniatorio e di intervenuta costrizione sul soggetto.

Deve aggiungersi che il valore probatorio della detta fonte di prova deve essere apprezzato secondo le regole del mezzo di prova che la introduce nel processo, nel senso che la confessione stragiudiziale riferita dal testimone è soggetta alla regola di valutazione propria delle prove testimoniali ex art. 192, comma 1, cod. proc. pen., mentre per quella riferita dal chiamante in reità o in correità deve applicarsi la regola di cui all’art. 192, comma 3, cod. proc. pen..

Nel caso in esame, sono stati i testi D. , P. e N. a riferire in ordine al contenuto della spontanea confessione resa, alla loro presenza, dall’imputata e, quindi, la veridicità del narrato non può che essere la ovvia conseguenza della ritenuta attendibilità dei detti testimoni, che non avevano alcun motivo di riferire il falso, per danneggiare una loro collega di lavoro.

Perché la confessione stragiudiziale sia assunta a fonte del libero convincimento del giudice, però, rimane logicamente ferma l’esigenza di valutarla in sé, raffrontarla con gli altri elementi di giudizio e verificarne, conseguentemente, la spontaneità e la genuinità in relazione al fatto contestato.

La sentenza in verifica si fa carico, al riguardo, di analizzare in ogni dettaglio il contenuto della confessione e il contesto in cui fu resa e, in maniera argomentata e senza incorrere in vizi logici, ne inferisce la particolare credibilità (cfr. pag. 3 – 4).

La confessione, poi, trova riscontro oggettivo, come sottolinea la sentenza, negli esiti della indagine amministrativa, che accertò l’ammanco della somma di Euro 1.720,96, importo corrispondente, sia pure con una qualche approssimazione, a quello indicato dalla imputata, nonché nella riscontrata irregolarità delle pratiche di rimborso incriminate, indice della loro falsificazione, al chiaro scopo di accreditare una parvenza di regolarità contabile. Né a indebolire la prospettazione d’accusa e la confessione dell’imputata può soccorrere il dato formale che costei era addetta alla cassa c.d. ‘esente’, essendo emerso che, in più occasioni coincidenti con il periodo temporale che viene in rilievo, aveva sostituito colleghi preposti alle casse ‘non esenti’ ed aveva, quindi, avuto modo di maneggiare denaro e di appropriarsene secondo le modalità precisate nel capo d’imputazione (v. testimonianza della direttrice amministrativa A..S. ).

Tale convergenza di dati processuali in senso coerente con la postulazione accusatoria neutralizza il rilievo della ricorrente circa il mancato approfondimento delle indagini, attraverso l’audizione degli utenti interessati alla 53 pratiche incriminate. Non va sottaciuto, peraltro, che la richiesta di rito abbreviato non condizionato formulata dall’imputata e l’ammissione a tale rito comportano l’accettazione del giudizio “allo stato degli atti”, con l’effetto che non sorge in capo alla istante alcun diritto alla prova, al cui esercizio ha rinunciato formulando la detta richiesta di rito alternativo.

Quanto all’episodio relativo alla pratica di S.G. , la sentenza impugnata offre una spiegazione non manifestamente illogica ancorata al dato di fatto che, la mattina del 7/5/2003, tanto l’imputata quanto l’altro impiegato (M..D. ), gli unici presenti v allo sportello tickets, risultano avere timbrato il cartellino di presenza qualche minuto dopo la registrazione nel computer della pratica di rimborso relativa allo S. G., il che legittima l’ipotesi che l’orologio del dispositivo marcatempo non fosse sincronizzato con quello del computer e avalla la riferibilità alla Z. anche di tale pratica, del tutto simile alle altre incriminate. La ricorrente allega la presenza allo sportello tickets, il 7/5/2003, anche dell’impiegata B..M. , contestando l’affermazione dei giudici di merito, secondo i quali la predetta sarebbe stata assente dal lavoro in quel giorno; in verità, i giudici di merito non parlano di assenza dal lavoro della M. , ma si limitano ad affermare che costei, in base all’ordine di servizio, era addetta allo sportello solo nel pomeriggio del giovedì, mentre il fatto di cui si discute si verificò la mattina del 7/5/2003, che era un mercoledì (cfr. sentenza di primo grado), argomentazione alla quale la ricorrente nulla replica Corretta è la qualificazione giuridica del fatto sub A) come peculato.

La tesi della ricorrente, secondo cui la condotta addebitatale andrebbe ricondotta, in coerenza con l’artificiosa falsificazione delle pratiche di rimborso, nel paradigma della truffa, non può essere condivisa.

Ricorre il delitto di peculato quando il pubblico ufficiale si appropria il denaro o altra cosa mobile altrui, di cui ha il possesso o comunque la disponibilità per ragione del suo ufficio. La nozione di possesso o di disponibilità, quale presupposto del delitto di peculato, ha un significato molto più ampio di quello civilistico e fa riferimento a un potere di fatto o a una disponibilità giuridica sul bene, con il necessario collegamento ovviamente all’ufficio cui il pubblico ufficiale è preposto anche per effetto di semplice occasionalità o in dipendenza di una prassi più o meno ortodossa o di una tollerata attività di fatto. Si versa sempre in tema di peculato qualora l’agente ponga in essere una condotta fraudolenta, che non incida sul possesso del bene, nel senso di conseguirne la disponibilità, ma abbia la sola funzione di mascherare, almeno in apparenza, la commissione del delitto.

La truffa7 aggravata ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen. si configura, invece, quando il soggetto attivo, non avendo il possesso del bene, se lo procuri fraudolentemente in funzione della contestuale o successiva condotta appropriativa.

Nel caso in esame, per così come ricostruito dai giudici di merito, l’imputata, in quanto addetta, sia pure saltuariamente, alla cassa tickets ed ‘non esente’ aveva la disponibilità del denaro oggetto della contestata appropriazione. La formazione da parte della stessa imputata di pratiche false di rimborso non fu funzionale al conseguimento del possesso del denaro, ma rappresentò la giustificazione contabile di uscite a titolo di rimborsi tickets in realtà mai effettuati, e la modalità, quindi, attraverso la quale occultare l’illecita attività di appropriazione.

Il diniego delle circostanze attenuanti generiche è adeguatamente motivato dalla sentenza impugnata, che da rilievo al precedente specifico da cui l’imputata è gravata, con l’effetto che la corrispondente doglianza, risolvendosi in una non consentita censura in fatto a tale valutazione, è inammissibile.

4. Al rigetto del ricorso consegue, di diritto, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La ricorrente deve, altresì, essere condannata alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile, AUSL n. X di Cagliari, e liquidate nella misura in dispositivo indicata.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna inoltre la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida nella somma di Euro 2.200,00 oltre accessori, in favore della parte civile AUSL n. X di Cagliari.

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