SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI
SENTENZA 14 gennaio 2014, n. 1247
Fatto
1.-. Con sentenza in data 1-6-2010 il Tribunale di Cagliari ha, tra l’altro, dichiarato P.A. , B.C. , G.G. , Me.An. , C.A. , M.F. , A.G. e Ca.Ma. colpevoli dei reati di peculato loro rispettivamente ascritti ai capi E), DI), B2), e A4), Ca.Ma. e A.G. colpevoli del reato di concussione loro contestato al capo D bis), B.C. , Ma.Fr. , Ca.Ca. e S.F. colpevoli dei reati di riciclaggio loro rispettivamente ascritti sub H), O) e D2), condannando, ritenuto per tutti il vincolo della continuazione, P.A. e Ca.Ma. alla pena di anni otto di reclusione ciascuno, B.C. alla pena di anni sette di reclusione ed Euro diecimila di multa ciascuno, G.G. e M.F. alla pena di anni quattro di reclusione ciascuno, Me.An. alla pena di anni cinque e mesi sei di reclusione, C.A. alla pena di anni cinque di reclusione, A.G. alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, Ma.Fr. alla pena di anni cinque di alla pena di anni cinque di reclusione, A.G. alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione, Ma.Fr. alla pena di anni cinque di reclusione ed Euro ottomila di multa e S.F. alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro cinquemila di multa, con le pene accessorie fissate in dispositivo e con obbligo di risarcimento dei danni in favore della costituite parti civili, da liquidarsi in separata sede, e di rifusione delle spese sostenute dalla medesime parti civili, liquidate come da dispositivo.
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Cagliari, sezione 1 penale, in data 9-3-2012 ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di P.A. , B.C. , G.G. , Me.An. , C.A. , M.F. , A.G. e Ca.Ma. per i reati di peculato loro rispettivamente ascritti ai capi E), D1), B2), A4), previa qualificazione dei medesimi reati come abuso di ufficio ex art. 323 c.p.; ha assolto Ca.Ma. e A.G. dal reato di concussione loro ascritto al capo Dbis) per insussistenza del fatto; ha assolto per insussistenza dei fatti dai reati di riciclaggio B.C. e Ma.Fr. [capo H)], Ca.Ma. [capo O)] e S.F. [capo D2)], condannando quest’ultimo per il meno grave reato di ricettazione, con le attenuanti generiche, alla pena (interamente condonata) di anni due di reclusione ed Euro quattromila di multa, con obbligo di risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile e con rifusione delle spese dalla medesima sostenute, liquidate come da dispositivo.
2.-. Il processo in esame trae origine da una ispezione interna effettuata nella primavera del 2003 dalla Banca Fideuram, nel corso della quale erano state presentate diverse querele. Durante l’espletamento di tale ispezione, la promotrice finanziaria, R.G. , aveva ammesso di essersi resa responsabile di indebiti trasferimenti effettuati in favore di A.R.S.T. (Azienda Regionale Trasporti) nell’estate del 2002 di ingenti somme investite da altre due società regionali (COOP.FIN s.p.a. e IGEA s.p.a.), al fine di coprire le rilevanti perdite di investimenti in fondi comuni effettuati negli anni precedenti dalla predetta Azienda Regionale Trasporti. Nel corso delle indagini si era accertato che alcuni enti regionali (A.R.S.T.; I.S.O.L.A.; COOP.FIN; IGEA s.pa.; CON.SA.FI) avevano investito le proprie risorse finanziarie in fondi comuni di investimento (spesso di composizione in gran parte azionaria) collocati, quale soggetto intermediario, da Banca Fideuram s.p.a., per conto di altro soggetto di diritto lussemburghese. In tutti i casi i prodotti finanziari erano stati proposti dalla promotrice R.M.G. , legata da un rapporto di agenzia senza rappresentanza alla Banca Fideuram.
Le indagini espletate permettevano di accertare il coinvolgimento nei fatti dei soggetti indicati nel punto che precede, inseriti a vario titolo negli enti interessati, i quali, grazie all’influenza ed all’opera prestata dall’allora assessore all’industria della Giunta Regionale Sarda, P.A. , all’epoca sentimentalmente legato alla R. , avevano reso possibili le complesse operazioni, che avevano attuato, mediante falsi ed irregolarità e in evidente violazione della normativa sugli investimenti degli enti pubblici e degli enti regionali, la sottoscrizione di fondi comuni di investimento all’A.R.S.T. (per ben 33 miliardi di lire), all’I.S.O.L.A., all’IGEA, alla COOP.FIN ed alla CONS.AFI. Si trattava di investimenti aleatori, che non garantivano rendimenti certi, essendo soggetti all’andamento di Borsa senza che vi fosse per l’investitore alcuna garanzia di salvaguardia del capitale investito.
Secondo il Tribunale, gli imputati erano pienamente consapevoli della rischiosità degli investimenti e della natura fittizia della assicurazioni e delle garanzie, verbali e scritte, rilasciate dalla R. . Conseguentemente il Giudice di primo grado ha ritenuto la sussistenza nei fatti contestati ai capi E), D1), B2), e A4), del reato di peculato, essendosi trattato di condotte distrattive attuate mediante sottrazione delle risorse pubbliche alla loro destinazione pubblicistica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente e di terzi, o comunque impiegate per finalità diverse da quelle specificamente previste e non riconducibili alle attribuzioni proprie del ruolo istituzionale svolto dagli enti interessati. Il concetto di “appropriazione”, secondo il Tribunale, non è sinonimo di “impadronirsi” bensì di disporre uti dominus, cioè di dare ai beni la destinazione che si preferisce, come se si fosse proprietari degli stessi e si potesse scegliere al riguardo senza limiti o vincoli di sorta. Nei casi in esame, gli investimenti attuati mediante acquisto di quote in fondi comuni di investimento, gestiti da Fonditalia, avevano comportato non solo la perdita della disponibilità delle somme investite, ma avevano altresì realizzato il trasferimento della proprietà delle stesse, in quanto l’investitore, acquistando delle quote del fondo, aveva acquisito un diritto di comproprietà sul fondo medesimo, e non un diritto di credito; quote del fondo che erano soggette alle fluttuazioni del mercato, sicché, all’atto del disinvestimento, non si era avuta alcuna garanzia sul fatto che la somma così ottenuta fosse pari o superiore a quella a suo tempo impiegata per il loro acquisto.
La Corte di Appello di Cagliari, invece, è giunta a conclusioni opposte. Nel caso di specie – ha osservato la Corte Distrettuale – non si era verificata una condotta appropriativa che manifestava la volontà di agire uti dominus in relazione ai fondi dell’ente: ciò che si contestava agli imputati non era, infatti, di essersi appropriati dei fondi dell’ente o della società aventi destinazione pubblica, ma di averne fatto un utilizzo non consentito dalle norme di legge e di regolamento e da quelle più generali di contabilità pubblica, realizzando un investimento comunque a rischio e ciò facendo con l’intento di favorire la R. . Ne derivava che, con i loro comportamenti, gli agenti non avevano negato che i beni appartenessero al proprietario (l’ente pubblico per il quale era stato fatto l’investimento), ma avevano violato norme di legge sul modo con cui disporre del bene posseduto (il pubblico denaro), non appropriandosene direttamente, ma distraendolo a favore di un terzo col dare al bene, in violazione di legge, una destinazione diversa o ulteriore rispetto a quella di matrice istituzionale (l’investimento a rischio).
Era ben vero che il meccanismo dell’investimento in fondi comuni comportava il trasferimento del denaro al proprietario del fondo e l’acquisto da parte dell’investitore di quote dello stesso, tuttavia – ha puntualizzato la Corte di merito – l’agente non aveva inteso trasferire definitivamente l’utilità al terzo, essendo in quel tipo di investimento prevista per legge la possibilità di rientrarne in possesso con una disposizione dell’investitore non soggetta a limitazioni.
In definitiva, secondo la Corte di Appello, difettava in relazione al ritenuto reato di peculato la appropriazione diretta o a favore di terzo, anche perché nessun proposito vi era stato in capo agli agenti di non perseguire un interesse dell’ente, seppure con modalità illecite, e non era mai stata negata l’appartenenza dei beni all’ente. I fatti, quindi, dovevano esser riqualificati come abusi di ufficio ed erano oramai estinti per prescrizione, maturata anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado, con la conseguente necessità di escludere tutte le statuizioni civili pronunciate dal Tribunale in riferimento agli originari reati di peculato contestati.
Il Tribunale aveva inoltre affermato la colpevolezza di A.G. e Ca.Ma. in relazione alla concussione ai danni di D. loro contestata sub Dbis), avendo ritenuto provato che, nella fase delle trattative relative alla decisione dell’ARST di investire in fondi comuni su proposta della R. , i predetti imputati avevano esercitato nei confronti del D. pressioni tali da indurlo, contro la sua volontà, a dare il prescritto parere favorevole, in qualità di direttore generale del predetto ente pubblico.
Anche in questo caso la Corte di Appello ha, come si è visto, capovolto la decisione, assolvendo per insussistenza del fatto gli imputati, ritenendo dimostrato che il D. si era determinato a dare il parere favorevole all’investimento, modificando la sua iniziale contrarietà, non perché angosciato da un metus pubblicae potestatis proveniente dal Ca. e dall’A. , ma piuttosto per un proprio volere, influenzato, se mai, dall’unanime conforme indicazione proveniente da tutto il c.d.a. dell’ARST, essendo una mera illazione del medesimo D. quella di poter subire, altrimenti, ripercussioni negative in qualità di direttore generale dell’ente ed essendo, d’altra parte, inadeguati i riscontri individuati dal primo Giudice (deposizioni Se. , Po. e An. ).
Il Tribunale, infine, aveva ritenuto accertati, altresì, i reati di riciclaggio ascritti a B. e Ma. al capo H) [per avere realizzato, in concorso con la R. , indebiti trasferimenti in favore di ARST di ingenti somme di denaro investite da altre due società regionali (COOP.FIN s.p.a. e IGEA s.p.a.)], al fine di coprire la ingenti perdite, ammontanti a circa 10 milioni di Euro, di un investimento in fondi comuni effettuato negli anni precedenti da ARST per un importo pari a Euro 17.043.077,67] a Ca. al capo O) [per avere, al fine di disperderne le tracce e di ostacolarne la ricostruzione della provenienza, versato su un proprio conto presso Monte dei Paschi di Siena un assegno di Lire 300 milioni tratto sul proprio conto Fideuram, per la cui parziale copertura aveva utilizzato un assegno per Lire 103 milioni tratto su 1 un conto intestato a s.m.m. e quindi provento del delitto di truffa perpetrato ai danni di quest’ultima dalla R. , e per avere destinato la somma così accreditata per l’acquisto di titoli a brevissimo termine] e a S.F. al capo D2) [per avere ricevuto dalla R. due assegni dell’importo di 50 milioni ciascuno tratti sul conto di Co.Ga. e un assegno dell’importo di Euro 17.233,32 tratto sul conto di s.m.m. , provento di truffa ai danni di questi ultimi; per avere, al fine di disperderne le tracce e ostacolarne la ricostruzione della provenienza, fatto indicare dalla R. come beneficiaria dei predetti titoli la SEFCO COSTRUZIONI s.r.l.; e per avere poi depositato tali assegni sul conto di detta società].
La Corte di Appello di Cagliari, come si è visto, ha invece assolto gli imputati, ritenendo che nessuna attività di occultamento o di ostacolo poteva essere configurata, in quanto nelle ipotesi in esame i bonifici e gli assegni una volta acquisiti, avevano mantenuto la loro materialità, individuabilità e tracciabilità. Il solo S.F. è stato ritenuto responsabile del meno grave reato di ricettazione.
3.-. Avverso la suindicata sentenza del 9-3-12 hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Cagliari, la parte civile Banca Fideuram s.p.a., e gli imputati B.C. , G.G. e S.F. , tramite i rispettivi difensori, chiedendone l’annullamento.
4.-. Il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Cagliari ha proposto ricorso avverso detta sentenza:
– nella parte in cui ha dichiarato non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti di P.A. , B.C. , G.G. , Me.An. , C.A. , M.F. , A.G. e Ca.Ma. per i reati di peculato loro rispettivamente ascritti ai capi E), D1), B2), A4) [P. ], E) e D1) [B. ], B2) [G. , Me. , G. ], A4) [M. ], E) [A. , Ca. ], previa qualificazione come reati di abuso di ufficio ex art. 323 c.p.;
– nella parte in cui ha assolto Ca. e A. dal reato di concussione loro ascritto al capo Dbis) per insussistenza del fatto;
– nella parte in cui ha assolto per insussistenza dei fatti dal reato di riciclaggio B. e Ma. [capo H)], Ca. [capo O)] e S.F. [capo D2)], condannando quest’ultimo per il meno grave reato di ricettazione.
Per quanto riguarda le imputazioni di peculato [capi E), D1), B2) e A4)] il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione. In particolare, la sentenza impugnata sarebbe illogica e contraddittoria nella parte in cui ritiene non ravvisabile il delitto di peculato in capo agli imputati, i quali, pur avendo dato alle giacenze di cassa dei rispettivi enti strumentali ARST, ISOLA, IGEA e COOP.FIN una destinazione (investimenti in fondi comuni a rischio) totalmente arbitraria ed avulsa da quella istituzionale e pur avendo agito al fine di favorire R.M.G. , promotrice della Banca Fideuram, sotto il profilo psicologico non avrebbero manifestato una volontà di agire uti domini allo scopo di impossessarsi del denaro pubblico. Secondo il ricorrente, proprio la finalità di favorire la R. (introdotta e accreditata presso gli imputati e i loro Enti grazie ai buoni uffici del P. , suo fidanzato e potente uomo politico e assessore regionale) rappresenterebbe un elemento significativo che dimostrerebbe che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello, non si sarebbe semplicemente trattato di un investimento in titoli a rischio che, ancorché non consentito per fondi pubblici, tuttavia non presentava sostanziali differenze da altri investimenti consentiti (pronti contro termine; conto corrente), ma ci si troverebbe in presenza di una vera e propria appropriazione (distrazione appropriativa) delle giacenze dell’Ente per favorire l’abile promotrice, affidando a lei ed alla Banca la gestione di quei capitali, senza neppure indicare e spesso senza conoscere previamente le modalità ed i prodotti da acquistare, ma soltanto avallando le sue scelte interessate. Il trasferimento ad un terzo di quelle risorse vincolate, in violazione di leggi regionali e regolamenti, presupponeva, infatti, una volontà appropriativa di quelle giacenze. D’altra parte con quelle operazioni illegali, gli imputati avevano mirato unicamente a venire incontro alla R. ed al suo sponsor P. , presentando gli investimenti in fondi come vantaggiosi per l’Ente, ma mascherandone la natura aleatoria (attraverso i vari reati di falso contestati e ritenuti sussistenti, anche se dichiarati prescritti). Ci si troverebbe, pertanto, in presenza di soggetti che, utilizzando i capitali dell’Ente da loro gestito, avevano acquistato quote di un fondo comune per poi rivenderle nella speranza di un ricavo maggiore, e cioè di una situazione ben diversa da quella di un rendimento di conto corrente o conto deposito, dove non si acquistano quote o prodotti e le somme in deposito sono remunerate con un rendimento prefissato in base al decorso del tempo. Nel caso in esame si sarebbe verificata ad opera degli imputati una disponibilità delle somme uti domini, nel senso che alle stesse sarebbe stata data una destinazione discrezionale, senza vincoli o limiti, come avrebbe potuto fare il proprietario del bene. I pubblici ufficiali, con le operazioni in esame, avrebbero mutato il loro atteggiamento psichico, nel senso che sarebbero passati dalla amministrazione e gestione del denaro pubblico per conto dell’Ente alla rappresentazione di un possesso per conto proprio, come se fossero i domini, sicché l’abuso di ufficio sarebbe divenuto peculato.
Il Procuratore Generale di Cagliari deduce gli stessi vizi in riferimento alla assoluzione di Ca. e A. dal reato di concussione loro ascritto al capo Dbis) per insussistenza del fatto.
Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, le risultanze processuali (memoria illustrativa del direttore generale ARST D. al c.d.a. in data 27-5-99, contraria all’iniziativa; accesa discussione in c.d.a.; l’intenzione di contattare la sede centrale Fideuram, manifestata dal D. e contrastata dal Ca. ; le successive blandizie ad opera del consigliere Se. ; le testimonianze Se. e An. ) avrebbero dimostrato che Ca. ed A. avevano esercitato pressioni psicologiche sul D. , inducendolo a prestare il suo consenso all’investimento, temendo di essere sfiduciato dal suo incarico.
Infine il Procuratore Generale di Cagliari denuncia la violazione dell’art. 648 bis c.p. e il vizio di motivazione in riferimento alla assoluzione perché il fatto non sussiste dal reato di riciclaggio, pronunciata nei confronti di B. e di Ma. [capo H)], di Ca. [capo O)] e di S.F. [capo D2)], con condanna di quest’ultimo per il meno grave reato di ricettazione. In particolare a B.C. e Ma.Fr. (rispettivamente consigliere e presidente del consiglio di amministrazione dell’ARST) era contestato al capo H) di avere, in concorso con il promotore finanziario R.M.G. , indebitamente trasferito – in favore dell’ARST – ingenti somme investite da altre due società regionali (COOP.FIN e IGEA) al fine di coprire le ingenti perdite, ammontanti a circa dieci milioni di Euro, di un investimento in fondi comuni effettuato, in violazione dello Statuto e della normativa di riferimento, negli anni precedenti dall’ARST per un importo pari a 17.043.077,67 Euro. Per ripianare il deficit si era ricorsi a capitali sottratti fraudolentemente ai suindicati altri investitori. A Ca.Ma. era contestato al capo O) di avere, al fine di disperderne le tracce e di ostacolare la ricostruzione della provenienza, versato in data 18-12-2001 sul proprio conto corrente acceso presso Monte Paschi Siena un assegno di trecento milioni di lire, tratto sul suo conto acceso presso Banca Fideuram, per la cui parziale copertura aveva utilizzato altro assegno pari a circa centotre milioni di lire, tratto fraudolentemente su conto corrente acceso presso la Banca Fideuram intestato a S.M.M. , e quindi provento del delitto di truffa commesso ai danni di quest’ultima dalla R. , e per avere, infine, destinato, la somma così accreditata all’acquisto di titoli a brevissimo termine.
Infine S.F. era stato condannato in primo grado per il reato di cui all’art. 648 bis c.p., a lui ascritto al capo D2), per avere – una volta ricevuti dalla R. due assegni dell’importo di cinquantamila Euro ciascuno, tratti sul conto di Co.Ga. e provento del delitto di truffa perpetrato dalla R. a danno del medesimo Co. , e un assegno dell’importo di circa diciassettemila Euro tratto sul conto Fideuram acceso da s.m.m. e provento della truffa commessa nei confronti della medesima dalla R. – al fine di disperderne le tracce e di ostacolare la ricostruzione della loro provenienza, fatto indicare dalla R. quale beneficiario dei predetti assegni la SEFCO COSTRUZIONI S.R.L. e per averli poi depositati sul conto acceso presso il Credito Italiano a nome della predetta SRL.
Ad avviso del ricorrente, la Corte di merito – nell’affermare che nessuna attività di occultamento o di ostacolo poteva essere configurata nelle ipotesi in esame, avendo i bonifici e gli assegni mantenuto integra la loro materialità, individuabilità e tracciabilità – sarebbe giunta a conclusioni in contrasto con la norma incriminatrice e avrebbe tenuto conto solo parzialmente delle risultanze processuali, per altro con evidenti profili di illogicità e contraddittorietà.
Segnatamente il Procuratore Generale ricorda che, secondo la giurisprudenza di legittimità, il reato di riciclaggio resta integrato già dalla semplice condotta di sostituzione del denaro, cui si aggiunge la operazione intesa ad ostacolare la identificazione della sua provenienza illecita insita nel successivo passaggio da un conto corrente all’altro, poiché in tale forma della condotta del delitto di cui all’art. 648 bis c.p. non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni, bastando che essa sia anche solo ostacolata. In definitiva, anche nel caso in cui le operazioni bancarie siano “trasparenti”, il reato si realizza proprio a seguito della dispersione dei beni, come desumibile dalla circostanza che il denaro è stato ritirato dai conti in vario modo, una volta accreditato in banca.
Questi principi sarebbero stati disattesi nella sentenza impugnata, nella quale, nel mentre si riconosce la sussistenza dei reati di falso e truffa (ormai prescritti) commessi dagli imputati per giustificare la legittima provenienza e iscrizione nelle scritture delle somme illecitamente ottenute [ad es. la falsa rivalutazione di investimento iscritta in contabilità per gli accrediti IGEA e COOP.FIN o i vari passaggi dell’assegno da duecento milioni di cui al capo O)], si afferma contraddittoriamente la correttezza e trasparenza di dette operazioni, non essendo stata compromessa la tracciabilità dei titoli.
Passando all’esame dettagliato di questi capi di imputazione, il ricorrente individua per ciascuno di essi i reati presupposti e gli elementi indiziari in ordine alla consapevolezza della provenienza illecita del denaro in capo agli imputati.
5.-. La parte civile, Banca Fideuram s.p.a., ha proposto, tramite il suo legale, ricorso per cassazione avverso la suindicata sentenza del 9-3-2012, nella parte in cui, in riforma della decisione di primo grado:
– ha derubricato il delitto di peculato ascritto al capo E) a P.A. , B.C. , Ca.Ma. e A.G. (per l’ARST), al capo D1) a B.C. e P.A. e per il responsabile civile ISOLA, al capo B2) a G.G. , Me.An.Lu. e C.A. (per Coop.Fin s.p.a.), al capo A4) a Ma.Fr. e P.A. per IGEA, nel reato di abuso di ufficio, dichiarato prescritto sin dal primo grado, con revoca delle relative statuizione civili, derivanti dalla sentenza di condanna del Tribunale di Cagliari, per essere le prescrizioni maturate anteriormente alla sentenza di primo grado;
– ha assolto Ma.Fr. e B.C. dal reato di riciclaggio di cui al capo H) per insussistenza del fatto, con revoca delle statuizioni civili della sentenza appellata relativamente a detto capo di imputazione.
Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 314 c.p. e vizio di motivazione sul punto.
La premessa è che le sentenze di primo grado e di appello presentano una assoluta coincidenza nella ricostruzione dei fatti e nel giudizio sulla prova specifica, ritenendo accertato che gli imputati avevano commesso i comportamenti illeciti loro ascritti, con le modalità delineate nei capi di imputazione.
Tuttavia la Corte di Appello di Cagliari è pervenuta ad una diversa soluzione giuridica in riferimento alla qualificazione della condotta posta in essere dai prevenuti, riconducendola alla fattispecie dell’abuso di ufficio e non a quella del peculato, originariamente contestato.
La Corte di Appello, per giungere a tali conclusioni, aveva rilevato sostanzialmente che nel caso in esame difettava una condotta appropriativa che si fosse tradotta in un comportamento che manifestasse la volontà di agire uti dominus in relazione ai fondi dell’Ente, e quindi di appropriazione definitiva del denaro pubblico, nel caso specifico in favore di un terzo. Infatti, secondo la Corte di merito, era contestato agli imputati non tanto di essersi appropriati dei fondi dell’Ente o della società, aventi una destinazione pubblica, ma di avere fatto un utilizzo non consentito dalle norme di legge o di regolamento o da quelle in generale di contabilità pubblica, realizzando un investimento comunque a rischio, ciò facendo al fine di favorire la R. , In definitiva, nella fattispecie in esame con il suo comportamento l’agente non aveva negato che il bene appartenesse al proprietario (l’Ente pubblico per cui veniva fatto l’investimento), ma aveva agito violando norme di legge sul modo con cui disporre del bene posseduto (il pubblico denaro), non appropriandosene direttamente ma distraendo in favore di un terzo col dare al bene in violazione di legge una destinazione diversa o ulteriore rispetto a quella di matrice istituzionale, attuando un investimento a rischio, anziché completamente garantito e senza componenti di alea (come quello ad esempio in pronti contro termine), senza negare tuttavia l’appartenenza del bene al dominus.
Queste conclusioni, ad avviso della ricorrente, sarebbero in contrasto con l’orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità (sentenze Ba. , Pr. , D.M. ), che individuano l’agire uti dominus nel travalicare i confini di quanto stabilito dal titolo in base al quale si possiede la cosa. In buona sostanza, contrariamente alle conclusioni della Corte di merito, si sarebbe in presenza di una distrazione appropriativa, poiché gli imputati, in spregio a precise disposizioni in materia di investimenti pubblici, avrebbero impegnato il denaro dell’Ente in operazioni a rischio, idonee dunque a consumarlo, ed al fine di recare profitto ad un terzo, senza perseguire ed anzi negando ogni finalità pubblica dell’operazione. Tra l’altro vi sarebbe un precedente specifico (sez. 6, 22-1-2007, n. 11633), nel quale si sarebbe ravvisato il peculato in una condotta identica a quella oggetto dell’attuale giudizio, essendosi riconosciuta la interversione del titolo del possesso da parte del pubblico ufficiale che, avendo la disponibilità giuridica di somme di denaro in qualità di segretario generale di una fondazione pubblica, aveva cominciato a comportarsi uti dominus dando alle suddette somme una destinazione diversa da quella istituzionale [fattispecie in cui, in violazione di norme di legge e di delibera del Consiglio di Amministrazione, l’imputato aveva sottoscritto quote di un fondo comune di investimento (Ducato fix monetario) per la somma di Euro 1.710.000 “oggettivamente non utilizzabile in quanto destinata esclusivamente alla costituzione ed al funzionamento del CISL”].
Il non avere agito secondo le indicazioni fissate (tali possono essere considerate quelle imposte dalla normativa nel caso di specie), esponendo il denaro ad un rischio non consentito con la mancata restituzione parziale dello stesso, deve essere qualificato come inadempimento alla obbligazione di restituzione discendente da un impiego diverso da quello pattuito, comportamento integrante la condotta di disposizione uti dominus di denaro altrui (sez. 2, 20-6-2012, n. 24530).
Nel caso in esame, per altro, era evidente che gli imputati avevano disposto dei fondi andando ben oltre le facoltà di disposizione dei beni consentite loro dal titolo in virtù del quale li possedevano; si era verificata cioè una profonda scissura nella permanenza della connessione funzionale e quindi della legittimità del possesso: doveva quindi ritenersi sussistente il reato di peculato.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 648 bis c.p. ed il vizio di motivazione sul punto in riferimento alla assoluzione di Ma.Fr. e B.C. dal reato di riciclaggio loro ascritto al capo H) per insussistenza del fatto.
La ricorrente ricorda che il Tribunale aveva correttamente individuato prove della conoscenza della reale provenienza della somme da parte degli imputati nelle risultanze oggettive dei verbali del c.d.a., nelle dichiarazioni testimoniali c. ed At. , nella missiva predisposta dalla At. , nelle dichiarazioni della R. e nella documentazione sequestrata inerente i bonifici delle somme provenienti dagli altri due Enti regionali. Nel ricorso si sottolinea altresì la chiara sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di riciclaggio, consistente nell’avere compiuto operazioni volte ad ostacolare la provenienza delittuosa con riferimento alla iscrizione a bilancio, attraverso cui gli imputati avrebbero voluto far apparire che i capitali fossero frutto di un proficuo investimento invece che di una vera e propria truffa ai danni di altre società regionali.
Queste risultanze sarebbero state del tutto ignorate dalla Corte di Appello di Cagliari, che per altro, avrebbe trattato il presente capo di imputazione [H)] cumulativamente agli altri riciclaggi, relativi a fatti ed imputati integralmente diversi e per nulla accomunabili. Inoltre, nessuna argomentazione risulta spesa dai Giudici di merito per motivare la mancata condanna per ricettazione, reato comunque ipotizzabile, una volta escluso quello di riciclaggio per la asserita assenza di attività finalizzate ad ostacolare la identificazione della provenienza illecita dei bonifici.
6.-. G.G. ha presentato, tramite i suoi legali, due distinti ricorsi per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, nella parte in cui, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere in ordine al reato a lui ascritto al capo B2), qualificato come abuso di ufficio, perché estinto per prescrizione. Con il primo ricorso (a firma dell’avv. Gianuario Carta) si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della responsabilità del G. . Dopo un’ampia premessa (nella quale si ricordano le tappe della vicenda e il ruolo della R. grazie alle frequentazioni garantite dal suo compagno P. e si illustrano le caratteristiche della COOP.FIN, società finanziaria realizzata dall’Unione delle Cooperative di diversa provenienza, costituita al fine di sostenere il movimento cooperativo in Sardegna), si delinea il ruolo defilato del G. e si sottolinea che dalla decisione assunta all’unanimità dal C.d.a. il medesimo G. non aveva tratto alcun vantaggio, sicché si chiede l’annullamento della sentenza impugnata per le inevitabili ombre che ne possono derivare sulla figura del ricorrente.
Con il secondo ricorso (a firma dell’avv. Alberto Spanu), dopo un lungo ed accurato riassunto della vicenda processuale, si rappresenta che la Corte di Appello, nell’esaminare gli altri delitti già dichiarati estinti per prescrizione dal Tribunale, concludendo che per nessuno di tali reati si ravvisava una situazione probatoria tale da richiedere l’applicazione dell’art. 129 c.p.p., non avrebbe in alcun modo vagliato la posizione del G. riferibile al capo A2) (reato di cui agli artt. 110, 81 e 353 c.p.), che pure aveva formato oggetto di specifico motivo di gravame, così incorrendo nel vizio di mancata motivazione per omesso esame dei motivi di gravame relativi a tale contestazione, involgenti la espressa richiesta di pronuncia di assoluzione ex art. 530, cpv. c.p.p..
Nella seconda articolata censura si denuncia in primo luogo in riferimento al capo B2) l’omesso esame dei motivi di appello, là dove si era evidenziato che nel prospetto riepilogativo del Fonditalia si definiva il comparto Euro Currency (ossia lo specifico prodotto finanziario in cui erano stati investiti i denari della COOP.FIN) come un fondo obbligazionario in area Euro a breve termine, con vita residua inferiore 18 mesi, composto da titoli obbligazionari indicizzati e strumenti del mercato monetario, e quindi costituito da attività a basso rischio e pronta liquidabilità, quali titoli di Stato, obbligazioni di categoria ordinaria emesse da entità non sovrane e strumenti del mercato monetario. La natura non azionaria dello strumento finanziario prescelto, se presa in considerazione, avrebbe certamente condotto ad approdi diversi. In secondo luogo si passano in rassegna tutti gli elementi che la Corte di Appello aveva ritenuto idonei per dimostrare che la prova dell’innocenza del G. non era evidente. Tali elementi vengono dettagliatamente contestati, indicandone la valenza contraria rispetto a quanto ritenuto dalla Corte Distrettuale. Infine si rappresenta che il G. si sarebbe limitato a rispettare le previsioni statutarie e la delibera del c.d.a., essendo pienamente legittimo l’investimento in titoli non a rischio per di più espressamente garantito dalla R. e, per essa, dalla Banca Fideuram.
7.-. B.C. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, limitatamente al capo I) della rubrica (reato di cui all’art. 479 c.p., per avere, quale dirigente amministrativo dell’ARST, predisposto la documentazione necessaria alla redazione dei bilanci consuntivi dell’ARST relativi agli anni 2001 e 2002), deducendo mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Di tale reato la Corte territoriale aveva dichiarato la estinzione per prescrizione, con conferma delle statuizioni civili a carico degli imputati Ma. e B. , in quanto l’estinzione del reato per prescrizione era successiva alla sentenza di primo grado. La Corte di merito però avrebbe omesso di esaminare gli ampi e circostanziati motivi di gravame e ciò in violazione dell’art. 578 c.p.p. Inoltre la Corte di Appello in riferimento al reato commesso in occasione del bilancio ARST relativo all’anno 2001, indicato come prescritto (tenuto conto della sospensione per mesi 5 e giorni 8) alla data del 30 maggio 2010, avrebbe errato nell’affermare che l’estinzione del reato era successiva alla sentenza di primo grado, atteso che detta sentenza risultava pronunciata in data 1 giugno 2010, cioè due giorni dopo la prescrizione del reato.
8.-. S.M. ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza indicata in epigrafe, nella parte in cui, qualificato il reato a lui ascritto al capo D2) come ricettazione, è stata ridotta la pena a lui inflitta, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, a anni due di reclusione e Euro quattromila di multa (interamente condonati), con rifusione delle spese di parte civile.
Deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto, ribadendo che la condotta da lui posta in essere al più avrebbe assunto rilevanza penale sotto il profilo concorsuale rispetto ai reati di truffa ascritti alla R. ai capi A6) e D6) della rubrica. Rappresenta altresì che in ogni caso il termine di prescrizione per il reato di ricettazione a lui ascritto sarebbe decorso nel periodo intercorrente tra la pronuncia della sentenza impugnata e la scadenza del termine per proporre impugnazione, ragione per cui chiede, in via subordinata, dichiarasi estinto il reato per prescrizione.
9.-. In prossimità della odierna pubblica udienza sono state depositate nell’interesse di P.A. due memorie difensive, con le quali si insiste per la inammissibilità o per il rigetto dei ricorsi proposti dal Procuratore Generale e dalla parte civile.
Nella prima memoria (a firma degli avv.ti Luca Pirastu e Michele Loy) si sostiene che i ricorrenti si sarebbero limitati a proporre una diversa ricostruzione dei fatti e si ribadisce che la condotta degli imputati che secondo i ricorrenti avrebbe integrato una distrazione appropriativa era consistita nella decisione e deliberazione (con successiva esecuzione) con le quali si era data una destinazione alle liquidità aziendali in contrasto con i fini istituzionali delle stesse oltre che in contrasto con leggi e regolamenti, che sovrintendono alla amministrazione degli enti regionali. Si era cioè trattato non di una appropriazione ma della attribuzione ai fondi degli Enti di una destinazione differente da quella istituzionale. Gli imputati non si erano in realtà appropriati di un solo Euro e i proventi percepiti dalla R. non erano parte della liquidità degli enti regionali asseritamene distratta, ma costituivano le provvigioni a lei riconosciute dalla Banca Fideuram. In definitiva, ci si troverebbe in presenza di una distrazione non appropriativa, in quanto gli imputati avrebbero dato al bene una finalità pubblicistica diversa da quella prevista dalla legge. Nel caso in esame la condotta ascrivibile agli imputati, pur connotata da profili di illiceità, non poteva ritenersi appropriativa in quanto gli stessi non hanno mai disconosciuto la titolarità dei rispettivi enti né con riferimento alle somme di denaro investite né, successivamente, con riferimento alle quote del Fondo di Investimento sottoscritto con Banca Fideuram. Mai, infatti, era stato posto in discussione che le somme impiegate per l’acquisto delle quote dei fondi di investimento e, conseguentemente, il diritto al disinvestimento delle stesse ed alla corresponsione del relativo valore, fossero di titolarità dell’Ente. Correttamente, pertanto, l’ipotesi in esame è stata inquadrata nel reato di abuso di ufficio e non in quello di peculato.
Nella seconda memoria (a firma dei medesimi avvocati), dopo una ampia disamina della vicenda processuale, si arriva alle medesime conclusioni (riconducibilità dei fatti di reato alla fattispecie dell’abuso di ufficio e non a quella di peculato), non senza avere sottolineato le gravi responsabilità che negli accadimenti del processo avrebbe avuto anche la Banca Fideuram, come sarebbe emerso da alcune recenti pronunce della Corte di Appello e del Tribunale di Cagliari in sede civile.
10.-. Anche nell’interesse di G.G. è stata depositata memoria difensiva, con la quale si insiste per l’accoglimento del ricorso e si chiede l’annullamento della sentenza impugnata con il riconoscimento della piena innocenza del ricorrente.
Infine è stata presentata una memoria difensiva nell’interesse di Ca.Ma. , con la quale si conclude per la inammissibilità o per il rigetto dei ricorsi proposti dal P.G. e dalla parte civile.
Diritto
11.-. La prima questione da affrontare concerne la qualificazione giuridica da attribuire ai fatti rubricati ai capi E), D1, B2) e A4).
Come si è visto, le sentenze di primo grado e di appello presentano una assoluta coincidenza nella ricostruzione di tali fatti e nel giudizio sulla prova specifica, giungendo alla conclusione che doveva ritenersi dimostrato che gli imputati avevano commesso i comportamenti illeciti loro ascritti nelle suindicate contestazioni con le modalità in esse delineate. Né, d’altra parte, queste conclusioni risultano contraddette dai ricorsi proposti dalle odierne parti private, essendo la impugnazione del G. sostanzialmente incentrata sul ruolo defilato da lui avuto nella vicenda e sulla natura non a rischio degli investimenti posti in essere, ed essendo le impugnazioni di B. e S. necessariamente impostate su diverse tematiche. Anche le memorie depositate nell’interesse del P. e le conclusioni dei difensori in pubblica udienza sono state, in realtà, tutte dedicate alla problematica relativa alla qualificazione giuridica dei fatti rubricati nei predetti capi di imputazione. Ne deriva che tali fatti, così come riassunti nelle imputazioni, e concordemente ricostruiti nelle sentenze di primo e di secondo grado, devono ritenersi incontestabilmente accertati nella loro realtà storica. Deve di conseguenza ritenersi dimostrato che gli imputati utilizzarono i capitali degli Enti da loro gestiti per acquistare quote di fondi comuni di investimento (spesso di composizione in gran parte azionaria) collocati, quale soggetto intermediario, da Banca Fideuram s.p.a., per conto di altro soggetto di diritto lussemburghese. Si trattava in tutti i casi di prodotti finanziari proposti dalla promotrice r.m.g. , legata da un rapporto di agenzia senza rappresentanza alla Banca Fideuram. Tali investimenti erano stati attuati mediante complesse operazioni che avevano comportato la perpetrazione di numerosi reati di falso e di altrettante irregolarità, in evidente violazione della normativa sugli investimenti degli enti pubblici e degli enti regionali. Era stato così possibile attuare, in spregio di tutte le regole, ingenti investimenti aleatori, che non garantivano rendimenti certi, essendo soggetti all’andamento di Borsa senza che vi fosse per l’investitore alcuna garanzia di salvaguardia del capitale investito.
Il Tribunale ha ritenuto che tali comportamenti integravano il reato di peculato. La Corte di Appello di Cagliari è, invece, pervenuta ad una diversa soluzione giuridica in riferimento alla qualificazione della condotta posta in essere dai prevenuti, riconducendola alla fattispecie dell’abuso di ufficio.
12.-. A seguito della riforma del 1990 l’unica condotta rilevante nell’ambito dell’art. 314 c.p. è quella che consiste nell’appropriarsi del denaro o della cosa, nel possesso del soggetto agente. È stata, pertanto, esclusa la rilevanza, nel quadro del peculato, delle condotte riconducibili alla c.d. distrazione, che in precedenza rappresentava la condotta alternativa all’appropriazione contemplata dall’art. 314 c.p. nella versione originaria.
Il problema più delicato posto dalla riforma è costituito, tuttavia, proprio dalla esatta delimitazione della condotta di appropriazione. Prima della modifica dell’art. 314 c.p. l’esigenza di puntualizzare la distinzione tra appropriazione e distrazione era meno avvertita, trattandosi di condotte equivalenti ai fini della configurazione del peculato; dopo la riforma la necessità di un chiarimento si è fatta impellente al fine di comprendere quali condotte diano luogo al delitto in esame e quali siano invece eventualmente riconducibili all’abuso di ufficio o siano penalmente irrilevanti. In realtà alcune tipologie di condotte, in precedenza qualificate di “distrazione” senza particolari approfondimenti per le ragioni anzidette, danno luogo ad una vera “appropriazione” in quanto espressione di un comportamento uti dominus da parte del soggetto qualificato nei confronti del denaro o della res oggetto del reato.
La nozione di “appropriazione” accolta nell’art. 314 c.p. ha, infatti, un significato più ampio di quello che aveva prima della riforma del ’90 e più ampio anche di quello che lo stesso termine possiede, secondo l’orientamento tradizionale, nel delitto di appropriazione indebita, dove l’appropriazione, ad esempio, non abbraccia qualsiasi forma di uso delle cose possedute. Nel delitto di peculato l’appropriazione può, invece, essere integrata anche dall’uso della cosa che avvenga con modalità e intensità tali da sottrarla alla disponibilità del legittimo proprietario o della p.a.; in tali casi, verificandosi la “impropriazione” del bene, il pubblico funzionario finisce per abusare del possesso, impedendo alla p.a. di poter utilizzare la cosa per il perseguimento dei suoi fini. Una conferma sistematica del fondamento di questa interpretazione si trae dal secondo comma dell’art. 314 c.p.: il legislatore ha espressamente represso, con una sanzione più lieve, una meno grave forma di peculato di “uso”, ossia la condotta del pubblico agente che agisce “al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa”, restituendola immediatamente dopo averla usata. Ne segue che il peculato sarà integrato nella forma più grave di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., quando la cosa venga usata non momentaneamente – e quindi definitivamente – o anche momentaneamente ma senza restituirla dopo l’uso. In ogni caso la previsione in seno all’art. 314 c.p. del peculato d’uso rende evidente che l’appropriazione, che costituisce l’azione tipica del peculato, consiste in una condotta che realizza l’inversione del titolo del possesso, senza che ne debba necessariamente conseguire la perdita totale e definitiva della cosa ai danni della pubblica amministrazione. Commette, pertanto, peculato, il pubblico agente che, esercitando arbitrariamente i poteri di disponibilità della cosa di cui per ragioni di ufficio ha il possesso, la sottrae, anche solo temporaneamente, alla destinazione istituzionalmente assegnatale.
In definitiva, sul piano letterale, non v’è dubbio che l’art. 314 c.p., nel testo complessivo risultante dopo la riforma, quando parla di “appropriazione” intende riferirsi non soltanto alla condotta di colui che, in qualsiasi modo, fa “sua” la cosa, ma anche, come si è visto, all’azione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che usa non momentaneamente (e quindi definitivamente) o anche momentaneamente senza restituirla dopo l’uso, la cosa mobile o il denaro altrui di cui ha il possesso o comunque la disponibilità per ragioni del suo ufficio o servizio. Si tratta di ipotesi in cui, pur mancando nel pubblico agente la volontà di “appropriarsi”, la condotta (e cioè il semplice uso non momentaneo o anche momentaneo, ma non seguito dalla restituzione della cosa) non può non ricondursi all’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., visto che l’uso momentaneo seguito dalla immediata restituzione della cosa integra gli estremi del reato di cui al secondo comma dello stesso articolo.
Ne deriva che nel testo attuale dell’art. 314 c.p. “appropriarsi” non vuoi dire soltanto far propria la cosa, ma anche usare illecitamente in modo non momentaneo, o anche momentaneo, ma senza restituirla immediatamente dopo l’uso, la cosa e/o il denaro di cui si ha la disponibilità per ragioni di ufficio o di servizio.
E d’altra parte queste conclusioni risultano confermate se si pone attenzione agli interessi tutelati dalla norma incriminatrice del peculato, in quanto in essa la cosa mobile e/o il denaro oggetto materiale del reato acquista rilevanza non soltanto di per sé ma anche e soprattutto in ragione della particolare funzione che le è stata assegnata all’interno della pubblica amministrazione, con la conseguenza che sul piano dell’offesa non può non considerarsi rilevante anche l’uso penalmente illecito della cosa, e cioè il togliere alla pubblica amministrazione la possibilità di disporre della cosa per il perseguimento di pubbliche finalità. Anche in ragione degli interessi tutelati, quindi, deve concludersi che sussiste “appropriazione” non soltanto quando il pubblico agente fa “sua” la cosa, ma anche quando lo stesso abusa dell’uso della cosa e/o del denaro di cui ha il possesso per ragioni di ufficio o di servizio, togliendo così alla pubblica amministrazione la possibilità di utilizzare la stessa per il perseguimento di pubbliche finalità.
Appare quindi necessario, in tema di peculato, formulare una nozione ampia di “appropriazione”, la quale comprenda anche l’uso. D’altra parte, anche volendo fare riferimento, per intendere il significato del termine “appropriarsi” di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., all’istituto della appropriazione indebita (ari. 646 c.p.), non può non rilevarsi che in riferimento a tale reato la distrazione è stata considerata, in dottrina e in giurisprudenza, come una species dell’appropriazione (della quale comprende quelle forme che non sono ritenzione né alienazione né consumazione): si tratta di altri modi di comportarsi, sia pure per un momento, come proprietari nei confronti della cosa, senza che abbia importanza che l’appropriazione sia commessa a vantaggio proprio o altrui. E su questa via si è posta la giurisprudenza di questa Corte nel punire come appropriazione indebita quei fatti di distrazione che, a seguito del venir meno delle qualifiche soggettive (di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio) negli operatori bancari, non potevano, già prima della riforma, essere inquadrati nel peculato o nella malversazione (S.U., sentenza n. 1 del 28-2-1989, RV 181792, Cresti)). Ne discende che, poiché il soggetto che devia la cosa da una finalità ad un’altra si comporta, per un momento, sulla cosa stessa come se ne fosse il proprietario, molte di quelle forme di peculato che prima erano considerate peculato per distrazione sono ora divenute peculato per appropriazione. In buona sostanza, con la riforma del ’90, la condotta distrattiva risulta declassata da componente tipizzata ed autonoma del delitto di peculato a semplice modalità di condotta riscontrabile in una pluralità di reati contro la pubblica amministrazione, sicché non sussiste alcuna incompatibilità normativa e neppure logica tra condotta distrattiva e reato di peculato, ben potendo, a date condizioni, la condotta in esame integrare anche il delitto previsto dalla nuova formulazione dell’art. 314 c.p. Con la soppressione del riferimento alla condotta distrattiva, il legislatore non ha, quindi, inteso togliere rilevanza a tale condotta rispetto alla configurabilità del peculato, ma ha semplicemente eliminato l’unico dato testuale che qualificava la condotta distrattiva come diversa ed alternativa rispetto a quella appropriativa, dovendosi invece il rapporto tra appropriazione e distrazione inquadrare come legame tra genus e species (Sez. 6, sentenza n. 40148 del 24-10-2002, Gennari, su DeG n. 5 del 2003).
Ne deriva che la distrazione altro non è che una particolare forma di appropriazione, dal momento che chi imprime alla cosa una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, non fa altro che appropriarsi della stessa.
Conseguentemente il pubblico amministratore che, invece di investire per le finalità cui erano destinate le risorse finanziarie di cui ha la disponibilità, le impiega per acquistare, in violazione di norme di legge e di statuto, quote di fondi speculativi, attua quell’inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, esercita una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini. Si impadronisce – e, quindi, si appropria – del denaro posseduto, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione (Sez. 6, Sentenza n. 11633 del 22/01/2007, Rv. 236146, Guida; Sez. 6, Sentenza n. 23066 del 14/05/2009, Rv. 244061, Provenzano; Sez. 6, Sentenza n. 7492 del 18/10/2012, Rv. 255529, Bartolotta; Sez. 6, Sentenza n. 16381 del 21/03/2013, Rv. 254709, Abruzzese).
D’altra parte deve rilevarsi come argomento aggiuntivo che il peculato d’uso è configurabile solo in relazione a cose di specie e non al denaro, menzionato in modo alternativo solo nel primo comma dell’art. 314 c.p. (Sez. 6, Sentenza n. 12368 del 17/10/2012, Rv. 255997, Medugno). Ne deriva che la disposizione uti dominus del denaro pubblico da parte dell’agente realizza di per sé la consumazione del reato istantaneo di peculato, dal momento che l’eventuale restituzione di una cosa non di specie come il denaro, subito dopo l’avvenuto momentaneo uso dello stesso, non è idonea a degradare la condotta appropriativa del pubblico agente nella meno grave ipotesi del peculato d’uso di cui all’art. 314 c.p., comma secondo, che è applicabile soltanto a cose mobili e non anche al denaro (secondo quanto previsto dal comma primo della disposizione), in relazione al quale la riconsegna del tantundem alla P.A. non muta la rilevanza penale della condotta nei termini di cui all’art. 314 c.p., comma primo (ex plurimis: Cass. Sez. 6, 21.5.2009 n. 27528, Severi, rv. 244531).
13.-. In applicazione dei principi sopra esposti, la sentenza impugnata deve essere annullata, legata com’è ad una nozione di “appropriazione” assai ristretta e non recepita dalla norma incriminatrice.
Non è assolutamente vero che gli imputati, con le condotte poste in essere, non hanno negato che i beni appartenessero al proprietario (l’ente pubblico per il quale era stato fatto l’investimento), ma si sono limitati a violare norme di legge sul modo con cui disporre del bene posseduto (il pubblico denaro), non appropriandosene direttamente, ma distraendolo a favore di un terzo col dare al bene, in violazione di legge, una destinazione diversa o ulteriore rispetto a quella di matrice istituzionale (l’investimento a rischio).
In realtà il meccanismo dell’investimento in fondi comuni comporta il trasferimento del denaro al proprietario del fondo e l’acquisto da parte dell’investitore di quote dello stesso: ne deriva che gli imputati, invece di utilizzare per le finalità cui erano destinate le risorse finanziarie di cui avevano la disponibilità, le hanno impiegate per acquistare (in violazione di precise norme di legge e di statuto e mediante disinvolte e complesse operazioni che si sono articolate in reati di falso e in irregolarità contabili) quote di fondi speculativi, agendo uti domini e imprimendo alle risorse dell’Ente una destinazione diversa da quella consentita dal titolo del possesso, e così “appropriandosi” di tali beni, attuando proprio quell’inversione del titolo del possesso che caratterizza la illecita appropriazione. Violando i limiti tassativi insiti nel titolo del possesso, gli imputati hanno esercitato una facoltà tipica del proprietario, agendo animo domini: si sono impadroniti – e, quindi, si sono appropriati – dei capitali posseduti, esercitando poteri tipicamente proprietari, senza però averne la titolarità, sottraendo il denaro stesso alla sua destinazione istituzionale e recando danno al buon andamento della pubblica amministrazione. Dalla lettura delle sentenze di primo e di secondo grado emerge con chiarezza che gli imputati erano pienamente consapevoli della rischiosità degli investimenti e della natura fittizia della assicurazioni e delle garanzie, verbali e scritte, rilasciate dalla R. . Ne discende che nei fatti contestati ai capi E), D1), B2), e A4), deve ravvisarsi il reato di peculato, essendosi trattato di condotte distrattive attuate mediante sottrazione delle risorse pubbliche alla loro destinazione pubblicistica ed indirizzate al soddisfacimento di interessi privati, propri dello stesso agente e di terzi, o comunque impiegate per finalità diverse da quelle specificamente previste e non riconducibili alle attribuzioni proprie del ruolo istituzionale svolto dagli enti interessati.
A parte il fatto che nei casi in esame, gli investimenti attuati mediante acquisto di quote in fondi comuni di investimento, gestiti da Fonditalia, hanno comportato non solo la perdita della disponibilità delle somme investite, ma anche il trasferimento della proprietà delle stesse, in quanto l’investitore, acquistando quote del fondo, ha acquisito un diritto di comproprietà sul fondo medesimo e non un diritto di credito, così acquisendo quote del fondo soggette alle fluttuazioni del mercato, con nessuna garanzia, all’atto del disinvestimento, sul fatto che la somma così ottenuta fosse pari o superiore a quella a suo tempo impiegata per l’acquisto della quota.
Per i motivi svolti al punto che precede sono riscontrabili, pertanto, nelle fattispecie in esame dei fatti di vera e propria appropriazione delle giacenze dell’Ente posti in essere dagli imputati per favorire l’abile promotrice R. , affidando a lei ed alla Banca la gestione di quei capitali, senza neppure indicare e spesso senza conoscere previamente le modalità ed i prodotti da acquistare, ma soltanto avallando le sue scelte interessate. Il trasferimento ad un terzo di quelle risorse vincolate, in violazione di leggi regionali e regolamenti, comporta, infatti, una volontà appropriativa di quelle giacenze. D’altra parte con quelle operazioni illegali, gli imputati hanno mirato unicamente a venire incontro alla R. ed al suo sponsor P. , presentando gli investimenti in fondi come vantaggiosi per l’Ente, ma mascherandone la natura aleatoria (attraverso i vari reati di falso contestati e ritenuti sussistenti, anche se dichiarati prescritti). Gli imputati hanno conseguentemente disposto delle somme uti domini, nel senso che alle stesse é stata data una destinazione discrezionale, senza vincoli o limiti, come avrebbe potuto fare il proprietario del bene.
In buona sostanza, gli imputati, in spregio a precise disposizioni in materia di investimenti pubblici, hanno impegnato il denaro dell’Ente in operazioni a rischio, idonee a consumarlo, ed al fine di recare profitto ad un terzo, senza perseguire ed anzi negando ogni finalità pubblica dell’operazione. Il non avere agito secondo le indicazioni fissate (tali possono essere considerate quelle imposte dalla normativa nel caso di specie), esponendo le risorse dell’Ente ad un rischio non consentito con la mancata restituzione parziale dello stesso, va qualificato come inadempimento alla obbligazione di restituzione discendente da un impiego diverso da quello pattuito, comportamento integrante la condotta di disposizione uti dominus di denaro altrui (sez. 2, sentenza 11-4-2012, n. 24530, Piasente). Nel caso in esame, per altro, avendo gli imputati disposto dei fondi andando ben oltre le facoltà di disposizione dei beni consentite loro dal titolo in virtù del quale li possedevano, si é verificata una profonda scissura nella permanenza della connessione funzionale e quindi della legittimità del possesso.
I fatti di cui ai capi E), D1), B2) e A4) devono, pertanto, essere qualificati come delitti di peculato.
Ciò posto, i fatti di cui ai capi E) e D1), riqualificati come peculato, pur tenendo conto delle intervenute sospensioni (pari a giorni 159), risultano estinti per prescrizione [intervenuta per il capo E) in data 27-1-13 e per il capo D1) in data 23-3-13]. Ne deriva che la sentenza impugnata [che aveva ravvisato in tali fatti degli abusi di ufficio, dichiarandoli estinti per prescrizione, maturata anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado, con la conseguente esclusione delle statuizioni civili pronunciate dal Tribunale in riferimento agli originari reati di peculato contestati] deve essere annullata nei confronti degli imputati P.A. , B.C. , Ca.Ma. e A.G. in riferimento ai predetti capi E) e D1) limitatamente alle statuizioni civili, con rinvio per nuovo giudizio al Giudice civile competente in grado di appello.
Quanto, invece, ai reati di cui ai capi B2) e A4), deve rilevarsi che, una volta riqualificati come peculati, tenendo conto delle intervenute sospensioni (pari a giorni 159), non risultano decorsi i relativi termini di prescrizione [10-7-15 per il capo B2) e 8-3-16 per il capo A4)]. Si impone, pertanto, per questi ultimi reati di cui ai capi B2) e A4), l’annullamento della sentenza impugnata nei confronti di G.A. , G.G. , Me.An. , P.A. e M.F. con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Cagliari.
14.-. Al capo H) è contestato a B.C. e Ma.Fr. (rispettivamente consigliere e presidente del consiglio di amministrazione di ARST) il reato di riciclaggio, per avere realizzato, in concorso con la R. , indebiti trasferimenti in favore di ARST di ingenti somme di denaro investite da altre due società regionali (COOP.FIN s.p.a e IGEA s.p.a.), al fine di coprire le rilevanti perdite, ammontanti a circa 10 milioni di Euro, di un investimento in fondi comuni effettuato, in violazione dello Statuto e della normativa di riferimento, negli anni precedenti da ARST per un importo pari a Euro 17.043.077,67.
La Corte di Appello di Cagliari, come si è visto, capovolgendo la decisione di primo grado, ha assolto B. e Ma. dalla predetta imputazione, ritenendo che nessuna attività di occultamento o di ostacolo poteva nel caso di specie essere configurata, in quanto i bonifici e gli assegni una volta acquisiti, avevano mantenuto la loro materialità, individuabilità e tracciabilità.
Si tratta di argomentazioni errate in diritto e non rispondenti alle risultanze processuali.
Questa Corte ha, infatti, già chiarito che integra il delitto di riciclaggio la condotta di chi deposita in banca danaro di provenienza illecita, atteso che, stante la natura fungibile del bene, in tal modo lo stesso viene automaticamente sostituito, essendo l’istituto di credito obbligato a restituire al depositante la stessa somma depositata (Sez. 6, Sentenza n. 495 del 15/10/2008, Rv. 242372, Argiri Carruba; Sez. 6, Sentenza n. 43534 del 24/04/2012, Rv. 253795, Lubiana). È stato altresì precisato che il reato di riciclaggio è ravvisabile anche nella condotta di colui che, pur completamente estraneo alla compagine societaria, consenta che sul proprio conto corrente venga fatto defluire il danaro frutto dello svuotamento delle casse di una società ad opera dell’amministratore, e ciò indipendentemente dalla tracciabilità dell’operazione (Sez. 6, Sentenza n. 26746 del 06/04/2011, Rv. 250427, De Pierro).
Ne deriva che il reato di riciclaggio resta integrato già dalla semplice condotta di sostituzione del denaro, cui si aggiunge la operazione intesa ad ostacolare la identificazione della sua provenienza illecita insita nel successivo passaggio da un conto corrente all’altro, poiché in tale forma della condotta del delitto di cui all’art. 648 bis c.p. non è necessario che sia efficacemente impedita la tracciabilità del percorso dei beni, bastando che essa sia anche solo ostacolata. In definitiva, anche nel caso in cui le operazioni bancarie siano “trasparenti”, il reato si realizza proprio a seguito della dispersione dei beni, come desumibile dalla circostanza che il denaro è stato ritirato dai conti in vario modo, una volta accreditato in banca. A questi principi non è stata data applicazione nella sentenza impugnata, nella quale, come correttamente rilevato dal Procuratore Generale ricorrente, nel mentre si riconosce la sussistenza dei reati di falso e truffa (ormai prescritti) commessi dagli imputati per giustificare la legittima provenienza e iscrizione nelle scritture delle somme illecitamente ottenute [la falsa rivalutazione di investimento iscritta in contabilità per gli accrediti IGEA e COOP.FIN], si afferma contraddittoriamente la correttezza e trasparenza di dette operazioni, non essendo stata compromessa la tracciabilità dei titoli. In realtà nel caso in esame per ripianare il deficit si è fatto ricorso a capitali sottratti fraudolentemente ai suindicati altri investitori. E d’altra parte il Tribunale aveva correttamente individuato prove della conoscenza della reale provenienza della somme da parte degli imputati nelle risultanze oggettive dei verbali del c.d.a., nelle dichiarazioni testimoniali c. ed At. , nella missiva predisposta dalla At. , nelle dichiarazioni della R. , nella documentazione sequestrata inerente i bonifici delle somme provenienti dagli altri due Enti regionali, nelle evidenti anomalie delle operazioni poste in essere per introitare nelle casse ARST disponibilità finanziarie per 10 milioni di Euro.
Ne discende, contrariamente a quanto affermato dalla Corte Distrettuale, la chiara sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di riciclaggio, confermato altresì dalle operazioni compiute volte ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa delle somme mediante la iscrizione in bilancio, attraverso cui era stato fatto apparire che i capitali erano frutto di un proficuo investimento invece che di una vera e propria truffa ai danni di altre società regionali. Ne deriva altresì la dimostrazione della ricorrenza nella fattispecie in esame dell’elemento soggettivo del delitto di riciclaggio, integrato dal dolo generico (Sez. 2, Sentenza n. 546 del 07/01/2011, Rv. 249445, Berruti).
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata nei confronti di B. e Ma. limitatamente al reato di cui al capo H) con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Cagliari.
15.-. A S.F. è stato contestato il delitto di riciclaggio [capo D2)], per avere ricevuto dalla R. due assegni dell’importo di 50 milioni ciascuno tratti sul conto di Co.Ga. e un assegno dell’importo di Euro 17.233,32 tratto sul conto di s.m.m. , provento di truffa ai danni di questi ultimi, nonché per avere, al fine di disperderne le tracce e ostacolarne la ricostruzione della provenienza, fatto indicare dalla R. come beneficiaria dei predetti titoli la SEFCO COSTRUZIONI s.r.l. e per avere poi depositato tali assegni sul conto di detta società. Condannato in primo grado per tale delitto, il S. è stato, invece, ritenuto responsabile dalla Corte di Appello di Cagliari di ricettazione, con riduzione della pena a lui inflitta, previo riconoscimento delle attenuanti generiche, a anni due di reclusione e Euro quattromila di multa (interamente condonati) e con rifusione delle spese di parte civile.
Nel suo ricorso il S. deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto, ribadendo che la condotta da lui posta in essere al più avrebbe assunto rilevanza penale sotto il profilo concorsuale rispetto ai reati di truffa ascritti alla R. ai capi A6) e D6) della rubrica. Rappresenta altresì che in ogni caso il termine di prescrizione per il reato di ricettazione a lui ascritto sarebbe decorso nel periodo intercorrente tra la pronuncia della sentenza impugnata e la scadenza del termine per proporre impugnazione.
Per contro il Procuratore Generale chiede l’annullamento della sentenza impugnata in parte qua, sostenendo che le risultanze acquisite avrebbero dimostrato la responsabilità del S. per il delitto di riciclaggio, a lui originariamente ascritto.
Il primo motivo del ricorso del S. è fondato.
Nelle imputazioni di truffa ai danni del Co. e della s. ascritte alla R. ai capi A6) e D6) risulta indicato come uno degli artifici e raggiri posti in essere l’avere riempito gli assegni in originale rimasti in bianco, indicando come beneficiario la SefCo Costruzioni [capo A6)] e risulta individuata la condotta truffaldina posta in essere nel ritirare e compilare gli assegni del secondo carnet, ottenuto fraudolentemente a favore proprio o di terzi. Nelle medesime imputazioni risulta che il S. avrebbe ricevuto dalla R. due assegni, avrebbe indicato alla R. il beneficiario di tali titoli e avrebbe ricevuto un terzo assegno con la medesima intestazione della SefCo Costruzioni quale beneficiaria.
Poiché la truffa è reato istantaneo e di danno, che si perfeziona nel momento in cui alla realizzazione della condotta tipica da parte dell’autore abbia fatto seguito la deminutio patrimonii del soggetto passivo, nell’ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifici o raggiri, l’obbligazione della dado di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato. Ne consegue che, qualora l’oggetto materiale del reato sia costituito da titoli di credito, il momento della sua consumazione è quello dell’acquisizione da parte dell’autore del reato, della relativa valuta, attraverso la loro riscossione o utilizzazione, poiché solo per mezzo di queste si concreta il vantaggio patrimoniale dell’agente e nel contempo diviene definitiva la potenziale lesione del patrimonio della parte offesa (Sez. U, Sentenza n. 18 del 21/06/2000, Rv. 216429, Franzo e altri).
Ne deriva che nel caso di specie (in cui l’incasso dei titoli è stata la conseguenza di una duplice condotta [quella del soggetto che ha materialmente ottenuto e compilato gli assegni (la R. ) e quella del soggetto che ha fatto compilare gli assegni e li ha personalmente versati in un conto corrente (il S. )] deve concludersi per il concorso del S. nelle truffe commesse dalla R. .
Conseguentemente, qualificato il fatto ascritto al S. al capo D2) come concorso nei reati di truffa aggravata di cui ai capi A6) e D6), la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché detti reati risultano estinti per prescrizione.
16.-. Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di B.C. è parzialmente fondato.
Come si è visto, detto ricorso verte unicamente sul reato di cui all’art. 479 c.p. di cui al capo I), ascritto al B. per avere, quale dirigente dell’Ufficio Amministrativo dell’ARST, predisposto la documentazione necessaria alla redazione dei bilanci consuntivi dell’ARST relativi agli anni 2001 e 2002, recanti false attestazioni. Il ricorrente rileva che di tale reato la Corte territoriale aveva dichiarato la estinzione per prescrizione, con conferma delle statuizioni civili a carico degli imputati Ma. e B. , in quanto l’estinzione del reato per prescrizione era successiva alla sentenza di primo grado, resa in data 1-6-2010.
In effetti, la Corte di merito, dopo avere indicato il reato commesso in occasione del bilancio ARST relativo all’anno 2001 come prescritto (tenuto conto della sospensione per mesi 5 e giorni 8) alla data del 30-5-2010, ha errato nell’affermare che l’estinzione di tale reato era successiva alla sentenza di primo grado, atteso che detta sentenza risulta pronunciata in data 1-6-2010, cioè due giorni dopo la prescrizione del reato. Conseguentemente la Corte di Appello ha errato nel confermare le statuizioni civili nei confronti del B. anche in riferimento ai danni derivati dal reato di falso in bilancio relativo all’anno 2001 sull’erroneo presupposto che l’estinzione del reato per prescrizione fosse successiva alla sentenza di primo grado.
Ne discende che la sentenza impugnata va annullata senza rinvio nei confronti di B. , limitatamente alle statuizioni civili concernenti i danni derivati dal reato di falso in bilancio relativo all’anno 2001 di cui al capo I).
I residui motivi di ricorso sono formulati in termini generici a fronte della motivazione stringata, ma congrua, della sentenza impugnata, e devono essere, conseguentemente, rigettati.
17.-. Restano da esaminare le censure prospettate dal Procuratore Generale di Cagliari in riferimento alle assoluzioni per insussistenza dei fatti pronunciate dalla Corte di Appello nei confronti di Ca.Ma. in ordine al reato di riciclaggio a lui ascritto al capo O) e nei confronti dello stesso Ca. e di A.G. in ordine al delitto di concussione loro ascritto al capo Dbis).
Prendendo le mosse da quest’ultima imputazione, va ricordato che, come si è visto, il Tribunale di Cagliari aveva affermato la colpevolezza di A.G. e Ca.Ma. in relazione alla concussione ai danni di D. loro contestata sub Dbis), avendo ritenuto provato che, nella fase delle trattative relative alla decisione di ARST di investire in fondi comuni su proposta della R. , i predetti imputati avevano esercitato nei confronti del D. pressioni tali da indurlo, contro la sua volontà, a dare il prescritto parere favorevole, in qualità di direttore generale del predetto ente pubblico. Anche in questo caso la Corte di Appello ha capovolto la decisione, assolvendo per insussistenza del fatto gli imputati, ritenendo dimostrato che il D. si era determinato a dare il parere favorevole all’investimento, modificando la sua iniziale contrarietà, non perché angosciato da un metus pubblicae potestatis proveniente dal Ca. e dall’A. , ma piuttosto per un proprio volere, influenzato, se mai, dall’unanime conforme indicazione proveniente da tutto il c.d.a. di ARST, essendo una mera illazione del medesimo D. quella di poter subire, altrimenti, ripercussioni negative in qualità di direttore generale dell’ente ed essendo, d’altra parte, inadeguati i riscontri individuati dal primo Giudice (deposizioni Se. , Po. e An. ).
Il Procuratore Generale di Cagliari si limita a sostenere che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, le risultanze processuali avrebbero dimostrato che Ca. ed A. avevano esercitato pressioni psicologiche sul D. , inducendolo a prestare il suo consenso all’investimento, temendo di essere sfiduciato dal suo incarico.
In realtà il ricorrente non fa che prospettare una diversa lettura delle risultanze processuali e una ricostruzione alternativa dei fatti rispetto a quella alla quale è pervenuta, con argomenti senza dubbio non macroscopicamente illogici né carenti, la Corte Distrettuale. Ne deriva la infondatezza in riferimento a tale imputazione del ricorso del Procuratore Generale. Le censure del ricorrente attengono invero alla valutazione della prova, che rientra nella facoltà esclusiva del giudice di merito e non può essere posta in questione in sede di giudizio di legittimità quando fondata su motivazione congrua e non manifestamente illogica. Nel caso di specie, i giudici di appello hanno vagliato gli elementi (ri)prospettati dal P.M. e sono pervenuti alla decisione attraverso un esame completo ed approfondito delle risultanze processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della congruità e della correttezza logica.
Quanto al reato di riciclaggio ascritto al Ca. al capo O) [per avere, al fine di disperderne le tracce e di ostacolarne la ricostruzione della provenienza, versato su un proprio conto presso Monte dei Paschi di Siena un assegno di Lire 300 milioni tratto sul proprio conto Fideuram, per la cui parziale copertura aveva utilizzato un assegno per Lire 103 milioni tratto su un conto intestato a s.m.m. e quindi provento del delitto di truffa perpetrato ai danni di quest’ultima dalla R. , e per avere destinato la somma così accreditata per l’acquisto di titoli a brevissimo termine], deve rilevarsi che l’assegno incriminato per Lire 103 milioni risulta indicato nel capo N), pure ascritto al C. , come prezzo della corruzione dal predetto realizzata. In definitiva, il Ca. è stato ritenuto responsabile di avere ricevuto detto assegno dalla R. come prezzo della sua corruzione e di averlo poi versato su un suo conto. Ma questa Corte ha già chiarito che non è punibile a titolo di riciclaggio il soggetto responsabile del reato presupposto che abbia in qualunque modo sostituito o trasferito il provento di esso, anche nel caso in cui abbia fatto ricorso ad un terzo inconsapevole, traendolo in inganno (Sez. 2, Sentenza n. 9226 del 23/01/2013, Rv. 255245, Del Buono). Ne discende con tutta evidenza la infondatezza anche di questa censura.
18.-. I ricorsi presentati nell’interesse di G.G. prospettano sostanzialmente questioni di fatto e risultano superati dalle considerazioni svolte ai precedenti punti 12 e 13.
Quanto alla specifica censura relativa al mancato vaglio ad opera della Corte di Appello della posizione di esso Gianoglio in riferimento al capo A2) (reato di cui agli artt. 110, 81 e 353 c.p.), basta rilevare per affermarne la totale infondatezza che si tratta di reato dichiarato estinto per prescrizione già nella sentenza di primo grado e che il ricorso non contiene alcuna doglianza in riferimento alle statuizioni civili (v. Sez. 6, Sentenza n. 23594 del 19/03/2013, Rv. 256625, Luongo, nella quale si é chiarito che nel giudizio di cassazione, relativo a sentenza che ha dichiarato la prescrizione anche se questa abbia pronunciato condanna agli effetti civili, qualora il ricorso non contenga alcun riferimento ai capi concernenti gli interessi civili). A parte il fatto che in presenza di una causa di estinzione del reato (nella specie, prescrizione), non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata dal momento che il rinvio, da un lato, determinerebbe comunque per il giudice l’obbligo di dichiarare immediatamente la prescrizione, dall’altro, sarebbe incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento (Sez. 4, Sentenza n. 14450 del 19/03/2009, Rv. 244001, Stafissi).
P.Q.M.
Qualificati i fatti di cui ai capi, E), D1), B2) e A4) come delitti di peculato:
– annulla la sentenza impugnata nei confronti di P. , B. , Ca. e A. in ordine ai capi E) e D1), limitatamente alle statuizioni civili, e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente in grado di appello;
– annulla la stessa sentenza nei confronti di C. , G. , Me. , P. e M. in ordine ai reati di cui ai capi B2) e A4) e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Cagliari.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di B. e Ma. limitatamente al reato di cui al capo H) e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Cagliari.
Qualificato il fatto ascritto al S. al capo D2) come concorso nei reati di truffa aggravata di cui ai capi A6) e D6) annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché detti reati sono estinti per prescrizione.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di B. , limitatamente alle statuizioni civili concernenti i danni derivati dal reato di falso in bilancio relativo all’anno 2001 di cui al capo I); rigetta nel resto il ricorso del B. .
Rigetta nel resto il ricorso del Procuratore Generale.
Rigetta il ricorso di G. e lo condanna al pagamento delle spese processuali.
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