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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI CIVILE

Ordinanza 17 settembre 2013, n. 21148

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 12803/2011 proposto da:

S.L. (OMISSIS), S.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliate in ROMA, VIA TARANTO 44, presso lo studio dell’avvocato CORSO MICAELA, rappresentate e difese dall’avvocato PALAZZOLO OTTAVIO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

S.C. (OMISSIS), S.M. (OMISSIS), SQ.LU. (OMISSIS), S. B. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 180, presso lo studio dell’avvocato DI CESARE CATIA, rappresentati e difesi dagli avvocati ROMANO PIETRO, REALE SANTO giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

GIESSE COSTRUZIONI SRL, SQ.LE. (OMISSIS);

– intimate –

avverso la sentenza n. 675/2010 della CORTE D’APPELLO di CATANIA del 9/06/2010, depositata il 15/06/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/03/2013 dal Consigliere Relatore Dott. FELICE MANNA;

udito l’Avvocato Padovani Aurelio (delega avvocato Palazzolo Ottavio) difensore delle ricorrenti che si riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. COSTANTINO FUCCI che aderisce alla relazione.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

I – Il consigliere relatore nominato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la seguente relazione ex artt. 380 bis e 375 c.p.c..:

“1. – Con sentenza n. 675 del 15.6.2010 la Corte d’appello di Catania, in riforma della pronuncia di primo grado, rigettava la domanda di annullamento, per incapacità naturale, della donazione per atto notaio Grasso, di Siracusa, del 9.7.1990, domanda proposta dalla donante S.T.R., e proseguita dalle eredi di lei, S.L. ed E., nei confronti dei donatari C., S.M., Lu. e B.. In tale giudizio aveva spiegato intervento volontario la Giesse Costruzioni s.r.l., terza acquirente dei beni già oggetto di donazione.

1.1. – Per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, la Corte territoriale riteneva che non essendo la donante interdetta, la dimostrazione dell’incapacità naturale di lei gravava sulla parte attrice, non essendo sufficiente ad invertire l’onere probatorio il solo certificato della Commissione medica, rilasciato un anno e mezzo prima della donazione ai fini della domanda di pensione per invalidità e/o di indennità d’accompagnamento, poichè tale atto aveva attestato esclusivamente un’invalidità ostativa al lavoro e uno stato di non autosufficienza, ma non anche un’incapacità naturale. Osservava, altresì, che la dimostrazione del fatto che la malattia di S.T.R. non avesse quegli effetti permanenti ritenuti dal giudice di primo grado, si traeva proprio dalla successiva cronologia degli atti, non avendo gli appellanti manifestato alcun dubbio circa la piena validità della procura ad litem rilasciata dalla donante, che aveva sostenuto di alternare momenti di lucidità a momenti d’incapacità.

2. – Per la cassazione di tale sentenza ricorrono S.L. ed E., formulando due mezzi d’annullamento.

2.1. – Resistono con controricorso S.C., M., Lu. e B..

2.2. – La Giesse Costruzioni s.r.l. è rimasta intimata.

3. – Col primo motivo le ricorrenti deducono l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione circa il carattere irreversibile e permanente della malattia da cui era affetta la donante al momento dell’atto. La Corte territoriale, si afferma, ha riconosciuto che l’anamnesi di S.T.R. riferiva di un’arteriosclerosi cerebrale con turbe della memoria e del comportamento, e che la diagnosi della Commissione medica aveva rilevato una vascolopatia cerebrale senile, che rendevano la donna invalida con totale e permanente inabilità lavorativa al 100% e con necessità di assistenza continua, non essendo ella in grado di compiere gli atti quotidiani della vita. Ma poi la stessa Corte, prosegue parte ricorrente, ha concluso che il certificato medico era stato rilasciato alfine dell’attribuzione della pensione d’invalidità e/o dell’indennità di accompagnamento, e non già per accertare l’incapacità naturale, e che stessi appellanti non avevano manifestato alcun dubbio circa la piena validità della procura ad litem conferita da S.T.R. al proprio avvocato.

3.1. – Il secondo motivo denuncia la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.. Si sostiene, al riguardo, che secondo l’indirizzo di questa Corte, in tema d’incapacità d’intendere e di volere, costituente causa d’annullamento del negozio, quando esiste una situazione di malattia mentale di carattere tendenzialmente permanente o protraentesi per un rilevante periodo, è onere del soggetto che sostiene la validità dell’atto dare prova che esso fu posto in essere, in quel periodo, durante una fase di remissione della patologia. Sulla scorta dell’errata ricostruzione della gravità e permanenza dello stato di degenerazione cerebrale della donante, i giudici d’appello hanno manifestamente invertito l’applicazione del ridetto principio, così violando, con esso, uno dei principi regolatori del giusto processo.

4. – Quest’ultimo motivo, che va esaminato con priorità rispetto al primo, in quanto concerne il tema, per sua natura preliminare, del riparto dell’onere della prova, è infondato.

Contrariamente a quanto mostra di opinare parte ricorrente, non è l’erronea ricostruzione e valutazione dei fatti storici a determinare la falsa applicazione di legge. Quest’ultima, infatti, consiste o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Pertanto, è estranea ad essa la censura di vizio di motivazione, che concerne l’erronea ricognizione da parte del giudice del merito della fattispecie concreta attraverso le risultanze di causa (cfr. Cass. n. 18782/05).

4.1. – Nel caso in esame, la Corte etnea ha valutato esclusivamente il fatto, e solo tramite un diverso apprezzamento di questo è pervenuta ad una soluzione diametralmente opposta a quella cui era giunto il Tribunale, che a sua volta aveva interpretato ed applicato l’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 428 c.c., in maniera conforme alla giurisprudenza di questa Corte Suprema, secondo cui, provata l’infermità mentale permanente, è onere di chi affermi la validità dell’atto dimostrare che esso sia stato posto in essere in occasione di una temporanea regressione della patologia (cfr. Cass. nn. 17130/11, 9662/03, 4539/02 e 11833/97). In altri termini, la Corte d’appello non ha ritenuto sic et simpliciter che incombesse sulla parte attrice dimostrare l’incapacità naturale della donante al momento dell’atto, ma al contrario ha escluso il presupposto di fatto – ossia l’accertata esistenza di una patologia permanente – che avrebbe determinato l’inversione dell’onere probatorio.

5. – E’ fondato, invece, il primo motivo, che critica la sentenza impugnata in ordine al predetto accertamento di fatto, lamentando insufficienza e contraddittorietà della sottostante motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

L’insufficienza della motivazione consiste (o nella totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero) nell’obiettiva deficienza del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento (cfr. Cass. nn. 15264/07, 14084/07, 2272/07, 9223/06, 1014/06 e 15355/04). Il vizio di contraddittorietà della motivazione, invece, presuppone un’insanabile inconciliabilità tra le varie ragioni ed argomentazioni poste dal giudice a giustificazione della soluzione adottata, si da elidersi a vicenda e da rendere impossibile l’individuazione del procedimento logico- giuridico seguito per giungere alla decisione (cfr. Cass. nn. 7476/01, 914/96, 3286/79 e 2549/77).

5.1. – Nella specie, la sentenza d’appello ha affermato che la Commissione di prima istanza, sulla scorta dell’anamnesi (da cui era emerso che la paziente era affetta da arteriosclerosi cerebrale con turbe della memoria e del comportamento) e della visita aveva diagnosticato una vasculopatia cerebrale senile e certificato ai sensi di legge che S.T. era “invalida con totale e permanente inabilità lavorativa 100% e con necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita (v. pag. 14).

Contrariamente a quanto sostiene parte controricorrente, tanto l’analisi letterale, quanto la comprensione complessiva del testo della sentenza impugnata, non lasciano adito a dubbi di sorta sul fatto che tale accertamento sulle premesse e sull’esito della visita medica, dapprima compiuto dal Tribunale, sia stato fatto proprio dalla Corte d’appello. Divergenti expressis verbis soli rilievi critici, i giudizi di verità non possono che essere comuni.

5.1.1. – Orbene, tale essendo la ricostruzione di fatto desumibile dalla sentenza impugnata, la successiva valutazione operata dalla Corte territoriale, secondo cui il certificato della Commissione medica, essendo finalizzato all’ottenimento della pensione d’invalidità e/o alla corresponsione dell’indennità d’accompagnamento, non attestava una malattia mentale permanente ma una semplice inabilità al lavoro, è incongrua, e dunque fondatamente criticabile sotto entrambi i profili dedotti. Essa, infatti, a) fa dipendere, illogicamente, il significato medico della diagnosi dallo scopo legale della visita sanitaria; b) non è coerente con l’osservazione preliminare per cui la diagnosi stessa era stata formulata anche sulla base di un’anamnesi che riferiva di turbe della memoria e del comportamento, di guisa che non si comprende se e per quali ragioni queste ultime, sebbene presupposte dalla Commissione medica, siano state ritenute inesistenti ovvero irrilevanti dai giudici d’appello; e infine c) non approfondisce – nè per converso da atto dell’impossibilità di approfondire – il senso del predetto certificato, poichè non chiarisce quale o quali aree encefaliche risultavano compromesse dalla vascolopatia cerebrale, se cioè solo quelle motorie o anche quelle che presiedono alla comprensione, al linguaggio e ai processi di memorizzazione.

6. – Per le considerazioni svolte, si propone la decisione del ricorso con ordinanza, nei sensi di cui sopra, ex art. 375 c.p.c., n. 5″.

II – La Corte condivide la relaziona, in ordine alla quale il Procuratore generale nulla ha osservato, mentre le considerazioni svolte dalla parte controricorrente nella propria memoria non sono condivisibili, per le ragioni che seguono.

La motivazione della Corte territoriale circa il significato da attribuire al certificato della Commissione medica rilasciato ai fini del riconoscimento della pensione d’invalidità è oggettivamente incongrua. Ed infatti: a) la Corte territoriale ha accolto, al riguardo, proprio una considerazione svolta dagli appellanti S.C., M., Lu. e B., i quali, per l’appunto, avevano sostenuto che detto certificato della Commissione medica aveva riferito l’invalidità all’inabilità lavorativa e non alla capacità d’intendere (v. pag. 15 della sentenza impugnata);

sicchè è fuor di luogo che l’inciso “finalizzato all’ottenimento della pensione”, riferito al suddetto certificato, nell’economia del discorso svolto dalla Corte territoriale non è “solo una precisazione d’ordine storico” (così parte controricorrente afferma a pag. 5 della memoria), ma è la ragione stessa su cui i giudici d’appello hanno basato il proprio convincimento, in perfetta adesione a quanto proposto dagli appellanti; inoltre, b) la motivazione della Corte d’appello è fin troppo chiara, nel senso ritenuto nella relazione, lì dove (v. pag. 16 sentenza impugnata) si afferma che “Quel certificato, finalizzato – com’è noto – all’ottenimento della pensione d’invalidità e/o all’indennità di accompagnamento, non attesta affatto che la S. fosse affetta da una malattia mentale permanente che la rendeva altrettanto permanentemente incapace di intendere o di volere, tant’è che la Commissione medica, a fronte dell’accertata malattia, ha certificato esclusivamente una invalidità ostativa al lavoro e la necessità di assistenza continua per non essere il soggetto autosufficiente; ma non anche una incapacità naturale”. E’ dunque palese l’illogicità del ragionamento svolto dal giudice di merito, che invece di valutare direttamente se la malattia così come diagnosticata avesse o non incidenza sulle facoltà cognitive della S., ha tratto indirettamente proprio e solo dalla certificata inabilità al lavoro la conclusione negativa circa l’incapacità naturale, come se questa non potesse coesistere con quella.

Ancora, è davvero singolare che per confutare quanto osservato nella relazione si sostenga (v. pag. 5 memoria controricorrente) che nella sentenza impugnata non vi sarebbe alcun accenno “riferibile alla Corte d’appello” circa l’esistenza di turbe della memoria e del comportamento della S.; come se l’assenza di giudizi al riguardo, quand’anche riscontrabile, potesse giovare alla motivazione della sentenza impugnata. Ivi richiamato (v. pag. 13 della sentenza di secondo grado) quanto detto in merito dal Tribunale, il giudice d’appello non poteva ignorare la relativa problematica. Anche se si volesse sostenere che la Corte territoriale non abbia inteso far proprio il suddetto accertamento medico-legale, e che si sia limitata a riferirne senza nè condividerlo, nè confutarlo, il vizio motivazionale individuato nella relazione non potrebbe essere più evidente, che in un provvedimento giurisdizionale la riluttanza a prendere posizione sui fatti decisivi esprime in maniera paradigmatica il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Infine, quanto al mancato approfondimento dell’incidenza della malattia sulle aree cerebrali della S., così come rilevato alla lett. c), del paragrafo 5.1.1. della relazione, la parte controricorrente suppone sia possibile eludere ogni confronto limitandosi a ribadire l’opinione finale espressa dalla Corte etnea, per poi concludere che “il documento in questione non poteva assurgere a prova dell’incapacità di intendere e di volere della S.” (pag. 6 memoria). Anche qui errando, visto che il giudizio di cassazione non consiste nella valutazione ultima del materiale probatorio acquisito nelle fasi di merito, ma si esaurisce nel verificare che la sentenza impugnata sia immune dai vizi di cui all’art. 360 c.p.c..

III – In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catania, che ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 3, provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catania, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 19 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2013.

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