Cassazione 4

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza 8 febbraio 2016, n. 2468

Svolgimento del processo

La Scf – Società Consortile Fonografi (di seguito, solo SCF), che svolge attività di collecting, in Italia e all’estero, quale mandataria per la gestione, l’incasso e la ripartizione dei diritti dei produttori fonografi consorziati, con atto di citazione notificato il 25.7.2011 nei confronti di C.R. , medico odontoiatra, chiedeva di accertarsi che questi nel proprio studio privato effettuava la diffusione, in sottofondo, di fonogrammi oggetto di privativa e che tale attività, costituendo comunicazione al pubblico ai sensi della legge italiana sul diritto d’autore, nonché del diritto internazionale uniforme a quello comunitario, era soggetta alla corresponsione di un equo compenso, da liquidarsi in separato giudizio.
Il C. nel resistere in giudizio, chiedeva il rigetto della domanda.
Con sentenza 10901/2010, il Tribunale di Milano accoglieva la domanda proposta da SCF.
Avverso detta sentenza il C. proponeva appello dinanzi alla Corte territoriale di Milano.
Resisteva l’appellato.
La Corte d’Appello di Milano, con provvedimento depositato il 28.1.2014, rigettava l’appello proposto, confermando la pronuncia impugnata.
Avverso la predetta sentenza il C. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi illustrati con memoria.
Si è difesa con controricorso la SCF che ha depositato successiva memoria.
A seguito di relazione ex art. 380 bis cpc, che aveva prospettato la fondatezza del ricorso, la causa è stata trattata all’odierna adunanza.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’Appello si sia volutamente discostata dalla pronuncia resa dalla Corte di Giustizia, in data 15 marzo 2012 n. 162/12 Del Corso, su questione del tutto simile, in cui il giudice Europeo aveva escluso che, nel caso della clientela degli studi dentistici, si fosse in presenza di un “pubblico” che giustificasse l’applicazione degli artt. 73 o 73 bis l.d.a..
Il motivo appare fondato.
Va, innanzitutto, rammentato che il dictum della Corte di Giustizia costituisce una regula iuris applicabile dal giudice nazionale in ogni stato e grado di giudizio; con la conseguenza che la sentenza della Corte di Giustizia è fonte di diritto oggettivo (Cass. 17994/15; Cass. 1917/12; Cass. 4466/05; Cass. 857/95).
Da ciò discende che la Corte territoriale in alcun modo avrebbe dovuto disattendere l’interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia, che è l’unica deputata alla interpretazione delle norme comunitarie, stante il fatto che la vicenda oggetto di decisione da parte del giudice di Lussemburgo è del tutto simile a quella di cui si discute nel caso di specie né la Corte d’appello ha in via di fatto accertato una situazione dello studio dentistico tale da far escludere che potessero ricorrere nella specifica fattispecie le condizioni per l’applicazione dei principi stabiliti dalla Corte di Giustizia.
Al contrario, la sentenza impugnata ha espressamente affermato che la sentenza della Corte di Giustizia del 15.3.12 n. 612 “ancorché intervenuta in una vicenda del tutto simile a quella dedotta in questo giudizio, non può vincolare in alcun modo questa Corte che rimane libera di condividere oppure di criticare i criteri adottati, fermo ovviamente il vincolo della motivazione relativamente a questi ultimi”.
Tale assunto non è corretto alla luce della giurisprudenza di questa Corte dianzi citata.
Inoltre, va rammentato che l’interpretazione di una norma di diritto comunitario data dalla Corte di Giustizia può e deve essere applicata dal giudice anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa (CG C-231/96; C- 61/79; Cass. 17994/15 in fattispecie del tutto analoga alla presente).
Su tale questione questa Corte ha ripetutamente affermato che dalla natura dichiarativa delle sentenze della Corte di Giustizia discende l’efficacia retroattiva, sin dal momento dell’entrata in vigore delle norme interpretate. La retroattività significa che il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte suddetta, può essere applicato ad ogni rapporto giuridico già sorto, purché non esaurito.
Ciò vale non soltanto per le pronunce rese in sede di interpretazione, ma anche per quelle in sede di apprezzamento di validità. (Cass. 7105/98 – Cass. 8504/99). È stato altresì precisato che la pronuncia comunitaria, non può configurarsi come espressione di “overruling” e, come tale, inidonea ad operare retroattivamente (Cass. 13087/12).
Anche di recente le Sezioni Unite di questa Corte hanno ribadito che l’efficacia retroattiva di dette sentenze – come quella che assiste la declaratoria di illegittimità costituzionale – incontra solamente il limite dei rapporti esauriti, ipotizzabile allorché sia maturata una causa di prescrizione o decadenza, trattandosi di istituti posti a presidio del principio della certezza del diritto e delle situazioni giuridiche (circostanze queste che non ricorrono nel caso di specie) (Cass. 13676/14 sez un).
Da ultimo, va ricordato l’importante principio affermato da questa Corte, secondo cui, l’interpretazione del diritto comunitario, adottata dalla Corte di giustizia, ha efficacia “ultra partes”, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali e sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino “ex novo” norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia “erga omnes” nell’ambito della Comunità (Cass. 22577/2014).
Manifestamente infondata, a questo proposito, si rivela la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla contro ricorrente.
Questa Corte ha già affermato che in tema di efficacia del diritto comunitario, il fondamento della diretta applicazione e della prevalenza delle norme comunitarie su quelle statali si rinviene essenzialmente nell’art. 11 della Costituzione, laddove ristabilisce che l’Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. (Cass. 4466/05).
Il contrasto tra norme statali e disciplina comunitaria non da luogo ad invalidità o alla illegittimità delle prime, ma comporta la loro “non applicazione”, che consiste nell’impedire che la norma interna venga in rilievo per la definizione della controversia davanti al giudice nazionale (Cass. 4466/05).
L’interpretazione del diritto comunitario, con efficacia vincolante per tutte le autorità (giurisdizionali o amministrative) degli Stati membri, anche ultra partes compete alla Corte di Lussemburgo.
Spetta infatti alla Corte di Giustizia,ai sensi dell’art. 164 del Trattato, assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del medesimo trattato. Da ciò se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria/ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e, per tal via, ne determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative. (Cass. 4466/05).
È alla luce dei detti principi che va riconosciuto alle sentenze della Corte di Giustizia il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso – come già rilevato – che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità (Cass. 22577/12).
La Corte Costituzionale ha poi in particolare affermato che tale efficacia va riconosciuta a tutte le sentenze della Corte di Giustizia, sia pregiudiziali ai sensi dell’art. 177 del Trattato (Corte Cost. n. 113/85), sia che siano emesse in sede contenziosa ai sensi dell’art. 169 dello stesso Trattato (Corte Cost. n. 389/89, come la precedente richiamate da Corte Cost. n. 168/91).
Le valutazioni già espresse dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale e di questa Corte portano dunque a far ritenere la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata. Si osserva peraltro il carattere del tutto generico di quest’ultima, posto che la stessa è stata posta in riferimento agli articoli da 360 a 391 del cpc e quindi in relazione all’intera normativa che disciplina il giudizio di cassazione, senza indicazione specifica di quelle norme che in relazione alla fattispecie concreta potevano dar luogo a dubbi di costituzionalità secondo la prospettazione della contro ricorrente. La sentenza impugnata ha inoltre ritenuto che vi fosse un contrasto all’interno delle stesse sentenze della Corte di Giustizia alcune delle quali, come le sentenze n. 306/06 Sgae e n. 162/12 PPL, relative alla comunicazione al pubblico negli alberghi, avrebbero dato decisioni di segno opposto a quella adottata per gli studi dentistici. Tale contrasto invero non sussiste, dal momento che la Corte di Giustizia ha applicato il medesimo principio a fattispecie diverse per cui, in alcuni casi, ha ritenuto sussistere una comunicazione al pubblico ed in altri l’ha esclusa ritenendo che – come nel caso di specie – la limitatezza del numero di persone non costituisse pubblico. In aggiunta a tale argomentazione che riveste carattere decisivo,la Corte del Lussemburgo ha ritenuto che la mancanza di rilevanza economica della trasmissione, non facesse ricorrere gli estremi della comunicazione al pubblico.
È appena il caso di rammentare che la sentenza della Corte di Giustizia 2006 SGAE ha affermato ai punti 38 e 39 che “bisogna tener conto non solo dei clienti che si trovano nelle camere dell’albergo, ai quali unicamente si fa riferimento nelle questioni pregiudiziali, ma anche dei clienti che sono presenti in qualsiasi altro spazio del detto stabilimento e hanno a loro portata un apparecchio televisivo ivi installato e, dall’altro, occorre prendere in considerazione il fatto che, abitualmente, i clienti di un tale stabilimento si succedono rapidamente. Si tratta in generale di un numero di persone abbastanza rilevante, di modo che queste devono essere considerate come un pubblico in considerazione dell’obiettivo principale della direttiva 2001/29 (omissis). Tenendo conto, del resto, degli effetti cumulativi che derivano dal fatto di mettere a disposizione opere presso tali telespettatori potenziali, tale messa a disposizione può assumere in un tale contesto un’importanza rilevante”.
Ebbene, gli stessi principi sono stati applicati dalla sentenza della Corte di Giustizia n. 162/12 Del Corso a proposito degli studi dentistici.
La sentenza in questione ha richiamato i precedenti specifici in materia di definizione di pubblico osservando che “il pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, riguarda un numero indeterminato di destinatali potenziali e comprende, peraltro, un numero di persone piuttosto considerevole (v., in tal senso, sentenze del 2 giugno 2005, Mediakabel, C-89/04, Racc. pag. 1-4891, punto 30; del 14 luglio 2005, Lagardère Active Broadcast, C-192/04, Racc. pag. 1-7199, punto 31. e SGAE, cit., punti 37 e 38)”.
La sentenza in questione ha poi chiarito al punto 86 che “relativamente, poi, al criterio attinente ad un numero di persone piuttosto considerevole, quest’ultimo mira a porre in evidenza che la nozione di pubblico comporta una certa soglia de minimis, il che esclude da detta nozione una pluralità di interessati troppo esigua, se non addirittura insignificante”.
Ed ha ulteriormente specificato che (punto 87) “sotto questo profilo è rilevante non soltanto sapere quante persone abbiano accesso contemporaneamente alla medesima opera, ma altresì quante fra di esse abbiano accesso alla stessa in successione” per Concludere quindi (par 96) Che “riguardo all’importanza del numero delle persone per le quali il dentista rende udibile il fonogramma diffuso, si deve constatare che, trattandosi dei clienti di un dentista, tale pluralità di persone è scarsamente consistente, se non persino insignificante, dal momento che l’insieme di persone simultaneamente presenti nel suo studio è, in generale, alquanto ristretto. Inoltre, benché i clienti si succedano, ciò non toglie che, avvicendandosi, detti clienti, di norma, non sono destinatari dei medesimi fonogrammi, segnatamente di quelli radiodiffusi”.
I principii in questione sono stati espressamente richiamati dalla sentenza della Corte di Giustizia 162/12 PPL ove, dopo avere ribadito (punto 33) Che, il “pubblico” deve essere costituito di un numero indeterminato di destinatari potenziali e di un numero di persone piuttosto considerevole (v., in tal senso, sentenza SCF, cit., punto 84), la Corte ha nuovamente affermato (punto 35) Che riguardo, poi, al criterio attinente ad un “numero di persone piuttosto considerevole”, la Corte ha precisato, da un lato, che quest’ultimo mira a porre in evidenza che la nozione di pubblico comporta una certa soglia de minimis, il che esclude da detta nozione una pluralità di interessati troppo esigua, se non addirittura insignificante (v., necessario tenere conto degli effetti cumulativi che derivano dal fatto di mettere a disposizione opere presso destinatari potenziali. Sotto questo profilo è rilevante non soltanto sapere quante persone abbiano accesso contemporaneamente alla medesima opera, ma altresì quante fra di esse abbiano accesso alla stessa in successione (v. sentenza SCF, cit., punti 86 e 87)”.
Tali principi sono stati anche più recentemente confermati dalle sentenzei della Corte di Giustizia 607/13 ITV e n 351/14 Osa quest’ultima ha ancora una volta ribadito (punti 27 e 28) che “la nozione di pubblico cui fa riferimento l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 riguarda un numero indeterminato di destinatari potenziali e comprende, peraltro, un numero di persone piuttosto considerevole (sentenza ITV Broadcasting e a., cit., punto 32). Per quanto concerne, più in particolare, quest’ultimo criterio, occorre tener conto dell’effetto cumulativo che deriva dal fatto di mettere a disposizione opere presso destinatari potenziali. In proposito è rilevante, in particolare, sapere quante persone hanno accesso, contestualmente e in successione, alla medesima opera” (sentenze del 7 dicembre 2006, SGAE, C-306/05, Racc. pag. 1-11519, punto 39, nonché ITV Broadcasting e a., cit., punto 33).
Tutte le sentenze della Corte di Giustizia in questione hanno dunque fatto applicazione dei medesimi principi procedendo poi alla loro applicazione riguardo alle diverse fattispecie esaminate e, nel caso degli studi dentistici, la sentenza 162/12 è giunta alla conclusione che i clienti che si susseguono in uno studio dentistico non costituiscono un numero di persone particolarmente considerevole da costituire un pubblico.
La sentenza in questione non si pone dunque in alcun modo in contrasto con i principi elaborati dalle altre decisioni della Corte di Giustizia.
Le avverse deduzioni della controricorrente sono dunque prive di fondamento.
Da ciò discende altresì il rigetto della istanza di investire nuovamente la Corte di Giustizia perché si pronunci nuovamente sui principi applicabili in materia, stante la uniformità di orientamento delle sentenze esaminate.
Con il secondo ed il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c. per non essersi la Corte territoriale pronunciata sull’eccezione di prescrizione e su quella relativa ai criteri di determinazione dell’equo compenso.
Le suddette censure restano assorbite dall’accoglimento del primo motivo di ricorso.
Resta da ultimo da disporre la cancellazione della frase “apoteosi del non sense” contenuta a pagina 3 del ricorso per cassazione nel che non appare consona ai principi di fair play che devono informare gli scritti difensivi.
Alla luce di quanto detto, il primo motivo ricorso appare meritevole di accoglimento con conseguente cassazione della sentenza impugnata e ricorrendo i presupposti di cui all’art. 382 cpc, la causa può essere decisa nel merito con rigetto della domanda della SCF. Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese del presente giudizio mentre va confermata la compensazione delle spese del giudizio di appello.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo di ricorso assorbiti gli altri due, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito, rigetta la domanda della SCF che condanna al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 6000,00 oltre Euro 100 per esborsi oltre accessori di legge e spese forfettarie; conferma la compensazione delle spese del giudizio di appello; dispone la cancellazione della frase “apoteosi del non sense” contenuta a pagina 3 del ricorso per cassazione

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *