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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE VI
ordinanza 1 luglio 2014, n. 14887
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –
Dott. BERNABAI Renato – rel. Consigliere –
Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –
Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ordinanza
sul ricorso 20008/2011 proposto da:
B.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato MACRO RENATO, rappresentato e difeso dagli avvocati DE ZIO GIUSEPPE, FRANZESE GIOVANNI, giusta mandato speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
CREDITO EMILIANO SPA – società incorporante la BANCA POPOLARE ANDRIESE SOC. COOP. A R.L. (OMISSIS);
– intimato –
avverso la sentenza n. 664/2010 della CORTE D’APPELLO di BARI del 7.5.2010, depositata il 16/06/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/04/2014 dal Consigliere Relatore Dott. RENATO BERNABAI.
Svolgimento del processo
– che è stata depositata in cancelleria la seguente relazione, in applicazione dell’art. 380-bis cod. proc. civile:
Con atto di citazione notificato il 5/06/96, il sig. B.G. proponeva opposizione a decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Trani in favore della Banca Popolare Andriese S.C.A.R.L. per il recupero di L. 52.367.965 (pari a Euro 27.045,80), quale scoperto rinvenuto nel conto corrente intestato all’attore, instando per la revoca del decreto ingiuntivo opposto per difetto di condizioni di una legittima emissione e per il rigetto della domanda creditoria della banca.
Si costituiva la Banca Popolare Andriese deducendo la fondatezza del provvedimento monitorio sulla base dell’estratto saldaconto, e asserendo che controparte non aveva mai contestato gli estratti conti trasmessigli in costanza di rapporto.
Il giudice di primo grado accoglieva parzialmente l’opposizione con sentenza del 2/10/2003 rideterminando l’ammontare dovuto dall’opponente in un importo residuo pari a Euro 16.481,86, in conseguenza della dichiarazione di nullità delle clausole anatocistiche trimestrali rinvenute come applicate nel rapporto bancario, in violazione dell’art. 1283 c.c..
Avverso la sentenza di primo grado che lo vedeva parzialmente soccombente proponeva appello il sig. B., tornando a censurare diversi profili della decisione:
– la legittimità formale del provvedimento emesso in sede monitoria;
– l’addebito, tra le poste passive del conto, di somme da lui già pagate alla banca quale fideiussore della fallita LENZA D’ORO s.r.l., – il diritto di credito riconosciuto alla banca, anche se nella minor somma rideterminata dal giudice di prime cure;
– l’omessa pronuncia del giudice di prime cure sull’eccezione di mancanza di procura alle liti del difensore della Banca Popolare Andriese, per incorporazione avvenuta dal Credito Emiliano s.p.a..
La Corte d’appello di Bari con sentenza del 16/06/2010 rigettava il gravame riportandosi alle motivazioni del primo giudice e confermando per l’intero la decisione.
L’appellante, odierno ricorrente per cassazione, notificava ricorso in data 29/07/2011 deducendo cinque motivi.
Motivi della decisione
Così riassunti i fatti di causa, il ricorso sembra, prima facie, infondato.
Occorre rilevare preliminarmente che controparte non si difende sulle censure mosse dal ricorrente.
Con il primo motivo di ricorso il B. deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., e artt. 116, 117, 167, 633 c.p.c. e ss., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Il motivo sembra essere fondato solo per quel che concerne la violazione dell’art. 2697 c.c., disciplinante il principio dell’onere della prova, secondo cui spetti a chi vuole far valere un diritto in giudizio l’onere di provarne i fatti costitutivi. Ebbene tale principio opera anche nel giudizio di cognizione ordinario eventualmente introdotto a seguito di opposizione a decreto ingiuntivo, comportando, per la parte opposta, l’onere di individuare in giudizio i fatti costitutivi della propria pretesa.
Nel caso in oggetto si osserva in atti che nella fase monitoria la banca Andriese avesse prodotto l’estratto saldaconto, documentazione avente una valenza probatoria sufficiente, in quella sede, per l’ottenimento del decreto ingiuntivo.
Nel giudizio di opposizione successivo, invece, il giudice valutava la produzione del contratto di conto corrente e di tutti gli estratti conto emessi durante il rapporto, documenti contabili, questi ultimi, che costituiscono un elemento più analitico per verificare l’esistenza del credito vantato, poichè certificano in dettaglio le movimentazioni debitorie e creditorie intervenute dall’ultimo saldo contabile con le condizioni attive e passive praticate dalla banca al cliente. La valenza probatoria degli estratti conto è indubbiamente più forte rispetto a quella del saldaconto che esprime, invece, il saldo riassuntivo dei rapporti di conto intercorsi tra la banca e il correntista.
Ebbene, ai fini della prova costitutiva del diritto di credito, oltre alla produzione dei singoli estratti conto analitici la banca avrebbe dovuto fornire prova anche dell’avvenuta comunicazione, preventivamente al giudizio, dei medesimi all’odierno ricorrente, per porlo nelle condizioni di effettuare, se del caso, le contestazioni.
Al contrario, sembra evincersi dagli atti che il ricorrente abbia potuto contestare le voci della documentazione contabile solo in sede di giudizio; la Corte d’appello di Bari ha ritenuto si trattasse di attività tardiva (pag. 5 della sentenza d’appello) e, pertanto, nel respingere la relativa eccezione di parte, ha dichiarato fondata nel merito la domanda creditoria.
L’errore in cui è incorsa la corte territoriale, tradottosi nella violazione dell’art. 2697 c.c., è stato quello di pronunciarsi in accoglimento della domanda senza disporre di tutti gli elementi costitutivi del credito, che avrebbero dovuto ricomprendere anche la prova della comunicazione degli estratti conto che spettava alla banca fornire.
Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 1224 c.c., e artt. 61, 112 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
Il motivo è infondato.
Al tempo dei fatti in giudizio (1996) il tema della legittimità della capitalizzazione di interessi anatocistici bancari non era ancora oggetto di discussione, e pertanto pare plausibile la mancanta eccezione di parte volta a far dichiarare la nullità della clausola anatocistica dinanzi al giudice di primo grado.
Con la pronuncia del 16/03/’99 (Cass. sent. n. 2374/1999) questa Corte esprimeva un orientamento giurisprudenziale, che avrebbe trovato consolidamento in seguito, teso a ritenere nulle tali clausole (Cass. N. 24418/10 e Cass. N. 798/13).
Si evince dagli atti che la nullità delle clausole anatocistiche veniva tuttavia rilevata d’ufficio dal giudice di prime cure che, conseguentemente, rideterminava in concreto la somma spettante alla banca depurata dall’ammontare di quanto dovuto a titolo di interessi anatocistici trimestrali.
Alla luce di tale operazione di rideterminazione non si comprende la ratio giustificativa che abbia indotto l’odierno ricorrente alla proposizione di una nuova domanda restitutoria fondata sulla nullità della clausola anatocistica, domanda in ogni caso inammissibile in appello, come correttamente rilevato dalla corte territoriale, in quanto nuova.
Con il terzo motivo parte ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 196 c.p.c., in relazione sia all’art. 116, che all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
Il motivo è manifestamente infondato poichè tende ad una richiesta di rideterminazione degli interessi nei rapporti dare-avere tra la banca e il ricorrente.
Il quarto motivo censura la violazione o falsa applicazione dell’art. 183 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
Il motivo è infondato.
Correttamente la corte territoriale ha omesso di esaminare, ai fini della decisione, le eccezioni di parte ricorrente. Dagli atti di causa (pagg. 8-9 sent. appello) ne risulta, infatti, la formulazione per la prima volta solo nell’udienza di precisazione delle conclusioni di primo grado, cioè in una fase processuale in cui ciò è precluso.
Con l’ultima motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.
Anche quest’ultimo motivo è infondato.
L’art. 300 c.p.c., stabilisce l’interruzione del processo a seguito di fatto estintivo di una parte costituita. Tuttavia l’interruzione non avrebbe potuto operare poichè trattavasi di fatto estintivo (incorporazione della Banca popolare Andriese nel Credito emiliano s.p.a.) che, se anche non ritualmente notificato dal difensore della parte, si verificava quando il giudizio era già riservato a decisione.
Per quanto concerne il profilo della procura alle liti, ritenendo la corte territoriale che in quel caso operasse il fenomeno dell’ultrattività della procura in base al quale il difensore di controparte può legittimamente presentare le proprie conclusioni ancora a nome della parte estinta senza doversi munire di nuova procura, non si ritiene integrata una violazione dell’art. 83 c.p.c..
– che la relazione è stata notificata ai difensori delle parti, che non hanno depositato memorie.
– che il collegio, discussi gli atti delle parti, ha condiviso la soluzione prospettata nella relazione e gli argomenti che l’accompagnano;
– che il ricorso dev’essere dunque rigettato con la conseguente condanna alla rifusione delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, sulla base del valore della causa e del numero e complessità delle questioni svolte.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, nulle le spese.
Così deciso in Roma, il 23 aprile 2014.
Depositato in Cancelleria il 1° luglio 2014.