Suprema Corte di Cassazione

Sezione VI

sentenza del 21 febbraio 2012, n. 6903

1. Con il ministero dei difensori l’imputata B.O. impugna per cassazione la sentenza in data 2.5.2011 della Corte di Appello di Ancona, che ha confermato la sentenza del 19.11.2008 del Tribunale di Ancona, con la quale – all’esito di giudizio ordinario – è stata riconosciuta colpevole del reato di inadempimento di un ufficio legalmente dovuto punito dall’art. 366 c.p., comma 2, e per l’effetto è stata condannata, concesse le attenuanti generiche, alla pena di quindici giorni di reclusione ed Euro 500,00 di multa e all’interdizione dalla professione di geometra per tre mesi. Pene, principale ed accessoria, dichiarate sospese alle condizioni di legge.

1.1. Condotta criminosa integrata dall’avere la B., geometra nominata in tale qualità consulente tecnico di ufficio in una causa civile in corso davanti al Tribunale di Ancona, dopo aver accettato l’incarico all’udienza del 23.10.2003, ritirando i fascicoli delle parti e percependo la somma di Euro 500,00 come fondo spese, omesso di depositare la relazione di consulenza nè nel concesso termine di 90 giorni (dal 3.11.2003, data di inizio delle operazioni peritali) nè in epoca successiva, senza giustificare il mancato adempimento dell’incarico pur a seguito dei ripetuti solleciti rivoltile dal giudice istruttore della causa civile. Causa che subiva per tale ragione ripetuti rinvii (dal 28.4.2004 al 27.9.2004) sino a dar luogo alla revoca dell’incarico di consulente e al recupero dei fascicoli delle parti a cura della polizia giudiziaria.

1.2. Le due conformi decisioni di merito e segnatamente la sentenza di secondo grado, disattendendo le osservazioni critiche espresse con l’appello avverso la prima decisione, hanno considerato la condotta omissiva della B., oltre che penalmente rilevante sul piano soggettivo (in assenza di una qualsiasi ragionevole giustificazione dell’imputata per il mancato espletamento della consulenza), senz’altro sussumibile nella fattispecie criminosa sanzionata dall’art. 366 c.p., comma 2. Ciò in base al rilievo che la norma incriminatrice, descrivendo le modalità esecutive della condotta antigiuridica sotto forma di mancata assunzione ovvero di mancato adempimento delle funzioni giudiziali ausiliarie assegnate dall’A.G., investe – in progressiva successione temporale – non soltanto la fase iniziale di assunzione dell’incarico, ma anche quella della concreta esecuzione dell’incarico, come del resto affermato anche da una pur risalente sentenza della S.C. (Cass. Sez. 3^, 23.2.1982 n. 5676, Cenciarini, rv. 154136).

2. Con il ricorso proposto nell’interesse dell’imputata si deducono i seguenti vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione.

1. Violazione e falsa applicazione dell’art. 366 c.p., comma 2.

Il comportamento omissivo attribuito al geometra B. non rientra nella contestata fattispecie incriminatrice. Il remoto precedente di legittimità richiamato dalla Corte di Appello è ampiamente superato dalla successiva giurisprudenza della S.C., alla cui stregua la condotta prevista dall’art. 366 c.p., comma 2, riguarda i soli contegni iniziali o preparatori della assunzione di funzioni pubbliche conferite dall’autorità giudiziaria, con l’esclusione dei comportamenti che investano la fase, successiva all’assunzione dell’incarico, dello svolgimento del mandato. La condotta realizzata dalla ricorrente non è, dunque, prevista come reato e la sentenza di appello deve essere annullata senza rinvio.

2. Difetto di motivazione sulle critiche mosse con l’appello alla prima sentenza. In via subordinata la decisione della Corte dorica non ha in alcun modo esaminato le argomentazioni censorie sviluppate dall’appellante con riguardo ai profili ricostruttivi del suo contegno. In particolare il maresciallo dei carabinieri di (OMISSIS) R.R. non ha precisato alla B. le ragioni del ritiro dei fascicoli, non dandole modo di spiegare le cause del ritardo nell’adempimento dell’incarico. Profilo su cui entrambe le sentenze di merito si sono astenute da qualsiasi verifica, facendo leva sugli inevasi solleciti del giudice istruttore procedente e sui diversi rinvii subiti dalla causa civile.

3. Il ricorso di B.O. è parzialmente fondato e va accolto nei limiti di seguito chiariti.

3.1. Premesso che i giudici di merito hanno erroneamente applicato all’imputata una pena detentiva congiunta ad una pena pecuniaria, mentre l’art. 366 c.p., commi 1 e 2, prevede l’alternatività delle due specie di pena, le fattispecie criminose disciplinate dalla disposizione in parola sanzionano condotte afferenti all’assunzione temporanea di funzioni pubbliche di collaborazione con l’autorità giudiziaria (perito o consulente, interprete, custode di cose sottoposte a sequestro penale, testimone), che riguardano non i singoli atti o la specifica attività richiesta e per la quale è attribuita la funzione (munus publicum), ma la sola fase anteriore o contestuale all’assunzione della funzione pubblica transitoria, scandita da contegni di fraudolenta elusione dell’obbligo di prestare l’ufficio conferito con “nomina” dell’A.G. (art. 366 c.p., comma 1) ovvero di rifiuto del compimento degli atti preparatori all’assunzione del pubblico ufficio (art. 366 c.p., comma 2). Nel primo caso la condotta incriminata è strutturata in forma di reato commissivo di evento. Nel secondo caso, quello contestato alla ricorrente, la condotta assume i caratteri del reato omissivo puro (o commissivo mediante omissione). In entrambi i casi l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice è costituito dall’esigenza di garantire il normale e celere funzionamento dell’attività giudiziaria (penale e civile) e di prevenire gli intralci derivanti da contegni elusivi o dilatori dei soggetti chiamati, nell’ordinaria dinamica del processo, a svolgere funzioni ausiliarie dell’autorità giudiziaria.

La duplice fattispecie criminosa, integrata da un reato c.d. proprio (possono commetterlo i soli soggetti elencati nell’art. 366 c.p.), definisce in tutta evidenza un reato di pericolo concreto o ad anticipata tutela del protetto interesse al corretto adempimento di funzioni giudiziarie: evitare che privati chiamati a talune funzioni giudiziarie ausiliarie tentino, ancor prima di assumere l’incarico, di sottrarvisi indebitamente ovvero, “chiamati e comparsi davanti all’A.G.”, rifiutino di tenere contegni che sono i presupposti per l’investitura nel munus giudiziario, come dichiarare le generalità, prestare il giuramento richiesto, “assumere o adempiere” la funzione.

3.2, Non può condividersi la tesi sostenuta nella isolata e remota decisione di legittimità, richiamata dalla impugnata sentenza di appello, secondo cui il contegno di “rifiuto” di un ufficio pubblico obbligatorio previsto dall’art. 366 c.p., comma 2, riguarderebbe anche la condotta omissiva concernente la vera e propria esecuzione dell’incarico già assunto dall’ausiliare del giudice; tesi che sarebbe avvalorata dal dato testuale della disgiuntiva prospettazione di un rifiuto inerente alla assunzione “o” all’adempimento dell’incarico (Cass. Sez. 3^, 23.2.1982 n. 5676, Cenciarini, rv.

154136).

Tale interpretazione collide con l’analisi ricostruttiva della fattispecie criminosa omissiva, della sua funzione di tutela anticipata (reato di pericolo) e soprattutto della sua collocazione sistematica sviluppata da una successiva sentenza di questa S.C., alle cui conclusioni il collegio aderisce (Cass. Sez. 6^, 1.12.2004 n. 9048/05, Avato, rv. 231295, ripresa in termini conformi da Cass. Sez. 6^, 26.2.2008 n. 17000, Fedele, rv. 239727).

In vero la sola logica esegesi del disposto dell’art. 366 c.p., comma 2, (al pari della previsione di cui al comma 1) impone di considerare sanzionati i soli comportamenti prodromici all’assunzione di funzioni pubbliche prò tempore demandate dall’A.G. e non anche quelli attinenti alla fase di esecuzione dell’incarico. Le condotte illecite previste dall’art. 366 c.p., involgono i soggetti attivi del reato (nelle sue diverse manifestazioni commissive ed omissive) in momenti in cui essi ancora non hanno assunto, in fatto e in diritto, la qualità di pubblico ufficiale. Esito interpretativo discendente dai rapporti di interdipendenza dell’art. 366 c.p., con la diversa fattispecie della omissione di atti di ufficio sanzionata dall’art. 328 c.p., comma 1, che appunto considera come elemento ontologico del reato la preesistente e attuale qualità di pubblico ufficiale del soggetto agente. Qualità che l’ausiliario del giudice di cui all’art. 366 c.p., non acquista nè con la semplice “nomina” dell’A.G. (art. 366 c.p., comma 1), nè con la “chiamata dinanzi all’A.G.” (art. 366 c.p., comma 2), ma soltanto con la formale accettazione dell’incarico. Una diversa soluzione, che configurasse il disposto dell’art. 366 c.p., comma 2, come norma speciale rispetto alla generale previsione dell’art. 328 c.p., comma 1, condurrebbe al paradossale e incongruo risultato di sanzionare con una pena più lieve di quella stabilita dall’art. 328 c.p., comma 1, condotte di concreto svolgimento di funzioni pubbliche, ponendosi in palese contrasto con la peculiare rilevanza che il legislatore con l’art. 366 c.p., ha inteso attribuire alla funzione giudiziaria ausiliaria.

Sicchè, ad esempio, del tutto incongruamente il custode di beni sequestrati in sede penale che non adempia l’ufficio incorrerebbe in una sanzione più lieve di quella prevista dall’art. 388 c.p., comma 5, applicabile al custode di beni sequestrati in sede civile, non incluso tra i soggetti attivi del reato di cui all’art. 366 c.p..

Ne discende che la disgiuntiva impiegata per descrivere la condotta illecita sanzionata dall’art. 366 c.p., comma 2, (assumere “o” adempiere le funzioni) non può che essere letta come una semplice “clausola omnibus” (così la citata sentenza Avato), vale a dire come una endiadi rafforzativa del tipizzato rifiuto di acquisire la qualità di pubblico ufficiale, accettando il conferimento del relativo incarico. Del resto la stessa disposizione incriminatrice (prima parte del comma 2) impiega la nozione di adempimento (“chi, chiamato dinanzi all’A.G. per adempiere ad alcuna delle predette funzioni, rifiuta”) in senso atecnico o aspecifico, come sinonimo di assunzione del pubblico incarico.

3.3. Dalle enunciate osservazioni consegue, allora, che la condotta illecita contestata alla B. non integra la fattispecie criminosa prevista dall’art. 366 c.p., comma 2, nella quale è stata erroneamente inquadrata, poichè tale condotta attiene alla omessa attività di reale esecuzione dell’incarico tecnico da parte di una persona che già riveste la qualità di pubblico ufficiale, assunta e accettata secondo le regole disciplinanti il conferimento di un incarico peritale (giudizio penale) o di una consulenza tecnica di ufficio (giudizio civile).

Ciò non significa, come è intuitivo, che il contegno omissivo dell’imputata, privo di ogni pur doverosa giustificazione, come emerge dalle due sentenze di merito (nessuna richiesta di proroga del termine per il deposito della relazione di consulenza; nessuna risposta alle sollecitazioni del giudice civile procedente), possa andare esente da responsabilità penale. Per le ragioni appena illustrate siffatto comportamento integra senza incertezze il diverso reato omissivo di cui all’art. 328 c.p., comma 1, alla cui stregua deve giuridicamente definirsi il fatto ascritto alla ricorrente (art. 521 c.p.p.).

La concreta disamina delle evenienze processuali desumibili ex actis (le due decisioni di merito) inducono, tuttavia, a non adottare la soluzione che, in astratto, deriverebbe dalla configurabilità del reato punito dall’art. 328 c.p., vale a dire l’annullamento della sentenza di appello (se non anche della stessa sentenza di primo grado) con rinvio al giudice di merito per un nuovo giudizio sulla regiudicanda o al competente pubblico ministero (art. 521 c.p.p., comma 2). Rinvio che sarebbe imposto dall’indubbia diversità (afferente alla preesistente qualità di pubblico ufficiale già rivestita dall’imputato) e maggiore gravità della fattispecie di cui all’art. 328 c.p., comma 1, (tra l’altro rimesso alla cognizione del giudice collegiale e non monocratico di primo grado) rispetto a quella in origine ascritta alla B..

La contestazione inizialmente elevata nei confronti dell’imputata ex art. 366 c.p., comma 2, individua la consumazione del reato alla data del 14.10.2004, correlata alla avvenuta revoca dell’incarico consulenziale. Il reato di omissione di atti di ufficio ravvisabile nella condotta della B. è, però, un reato istantaneo con effetti permanenti. Di tal che la data di consumazione dello stesso deve essere ancorata: o all’inutile decorso del termine (in assenza di legittime proroghe richieste dal consulente e concesse dall’A.G.) per il deposito della relazione tecnica stabilito in novanta giorni e spirato il 3.2.2004; o alla data dell’udienza in cui il giudice e le parti processuali hanno constatato l’inadempimento dell’incarico da parte del consulente, ciò che nel caso della B. è avvenuto il 28.4.2004; o, in ultima analisi, alla data in cui giudice e parti hanno dovuto prendere atto della mancata risposta del consulente al formale sollecito della consegna della relazione tecnica inviato dal giudice, ciò che nel caso di specie si è verificato all’udienza del 9.6.2004.

L’ulteriore esito valutativo è dettato, allora, dal rilievo che il termine massimo di prescrizione (sette anni e sei mesi) previsto per il reato commesso dalla B., nella verificata mancanza di sospensioni ex lege o dichiarate dal giudice, è già spirato alla data, a tutto voler concedere, del 9.12.2011. Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per detta intervenuta causa estintiva del diverso reato ascrivibile alla ricorrente E’ superfluo osservare, infatti, che il giudice di merito dell’eventuale rinvio ex art. 623 c.p.p., o il pubblico ministero cui fossero trasmessi gli atti non avrebbero altra alternativa se non quella di promuovere l’immediata declaratoria della ridetta causa estintiva del reato in ossequio all’obbligo di cui all’art. 129 c.p.p., comma 1 (cfr. Cass. S.U. 28.5.2009 n. 35490, Tettamanti, rv.

244275).

P.Q.M.

Qualificato il fatto come reato previsto dall’art. 328 c.p., comma 1, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.

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