vigile

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza  8 aprile 2014, n. 15676

Ritenuto in fatto

1. L’11/07/2012, la Corte di appello di Trieste riformava parzialmente la sentenza emessa dal Tribunale di Tolmezzo il 23/09/2010, recante la condanna di P.I. alla pena di mesi 8 di reclusione per resistenza a p.u. e lesioni, in danno di G.F. (agente di Polizia Municipale di Venzone, che nell’occorso riportava la rottura della cuffia dei rotatori alla spalla sinistra); al contempo, il F. era stato condannato per violenza privata in danno dell’I., limitatamente ad una parte della condotta a lui addebitata (in ipotesi, aveva contestato all’I. una infrazione al Codice della Strada commessa nel territorio di Venzone, seguendolo fino a Gemona del Friuli per poi strappargli di mano la patente e strattonarlo per le braccia). I protagonisti della vicenda erano stati reciprocamente condannati al risarcimento dei danni subiti, essendosi entrambi costituiti parti civili.
All’esito del giudizio di appello, il F. era stato assolto per insussistenza del fatto, con revoca della condanna al risarcimento; l’I., nei cui riguardi la dichiarazione di penale responsabilità trovava invece conferma, si vedeva concedere la sospensione condizionale della pena.
La Corte territoriale riteneva inesistente una prova certa che l’I. avesse subito un comportamento violento ad opera della controparte, al di là di quanto affermato dall’odierno ricorrente, rilevando che «a fronte dell’intervento delle forze dell’ordine, e vista l’oggettiva gravità delle lesioni lamentate dal suo antagonista, l’I. aveva tutto l’interesse a dire che egli stesso era stato principalmente vittima di una condotta aggressiva da parte del F.»; al contrario, le lesioni riportate dal pubblico ufficiale erano documentate e certamente compatibili con i gesti che il F. aveva attributo al coimputato. Era poi da disattendere la tesi difensiva dell’I., secondo cui egli aveva reagito ad un atto arbitrario, atteso che l’esimente prevista dall’art. 4 del d.lgs. n. 288 del 1944 «non ricorre quando semplicemente il pubblico ufficiale abbia esorbitato dai limiti delle sue attribuzioni, ma è necessaria, da parte di questi, una condotta vessatoria improntata a malanimo, capriccio e prepotenza».
Parimenti da escludere, secondo i giudici di appello, era la scriminante ex art. 52 cod. pen., sia perché non risultavano provate condotte del F. cui l’I. sarebbe stato legittimato a reagire, sia perché «la violenza fisica non poteva essere lecitamente impiegata per evitare un danno costituito dall’eventuale ritiro della patente (così come prospetta la difesa)».
2. Il difensore dell’I. propone ricorso per cassazione, che – dopo una premessa ricostruttiva dei fatti e delle scansioni processuali già intervenute – affida a cinque motivi, l’ultimo dei quali viene presentato nell’interesse dell’I. quale parte civile già costituita.
2.1. Con il primo motivo, la difesa lamenta inosservanza dell’art. 192 cod. proc. pen. e manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, avendo i giudici di appello dato credito alla ricostruzione dei fatti offerta dal F., pur dando atto di ritenere sostanzialmente non attendibili le dichiarazioni di quest’ultimo; nel contempo, sarebbe apoditticamente affermata, solo sulla base del rapporto di parentela con il ricorrente, la non credibilità degli assunti dei testimoni S.I. e G.V.. Peraltro, il narrato delle due donne risulta in linea con quanto riferito dall’unico soggetto al quale i giudici di merito riconoscono senz’altro fede (perché indifferente), vale a dire tale C..
Il difensore dell’I. segnala quindi l’obiettiva incompatibilità delle lesioni riportate dal F., che avevano riguardato la spalla sinistra, rispetto alla ipotizzata azione lesiva dell’imputato, il quale mirava a rientrare in possesso della propria patente, trattenuta dalla controparte nella mano destra.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente torna a prospettare la tesi della configurabilità della scriminante della reazione all’atto arbitrario del pubblico ufficiale, atteso che risulta provato come il F. agì fuori dal territorio di propria competenza, in abiti borghesi, fermando scompostamente il mezzo condotto dall’I. con pericolose manovre di sorpasso e frenata, nonché utilizzando un «piglio inutilmente autoritario e vessatorio, col quale […] chiese ed ottenne i documenti di guida senza alcuna giustificazione, per poi manifestare con i documenti in mano la volontà di ritirare immediatamente la patente di guida».
2.3. Il terzo motivo concerne l’omesso riconoscimento della causa di giustificazione della difesa legittima, di cui il ricorrente parimenti ribadisce la ravvisabilità nella fattispecie concreta, mirando la condotta dell’I. a voler tornare in possesso della patente che il F. intendeva ingiustamente ritirare; a riguardo, la difesa evidenzia ancora una volta che l’imputato non aveva comunque alcun motivo di interessarsi del braccio sinistro dell’agente, ma piuttosto di quel che teneva nella mano destra, perciò le lesioni del F. derivarono semmai da una azione volontaria di costui, diretta ad evitare che il tentativo dell’I. di riprendersi la patente avesse successo.
2.4. Con il quarto motivo, in relazione a quanto appena esposto, la difesa deduce che in ogni caso la condotta addebitata all’imputato non avrebbe dovuto considerarsi dolosa, neppure in termini di accettazione del possibile verificarsi di lesioni in danno del F..
2.5. Con il quinto motivo, da riferire alla pronunciata assoluzione del coimputato dal reato di violenza privata, il difensore dell’I. lamenta che il delitto de quo era comunque da ritenere provato, pure ammettendo che il F. avesse affiancato il furgone condotto dell’imputato, facendogli segno di fermarsi con regolare paletta: ciò in quanto l’agente non poteva costringere il ricorrente a fermarsi (non avendo titolo ad esercitare le potestà di istituto in quel territorio), né conseguentemente afferrare il braccio dell’I. per impedirgli di riappropriarsi del documento.

Considerato in diritto

1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1. Non corrisponde al vero, infatti, che la Corte di appello abbia espresso sul conto del F. un giudizio di complessiva non credibilità: i giudici di secondo grado, con specifico riguardo alla ricostruzione dei momenti in cui l’I. arrestò il mezzo di cui era alla guida (a seguito di una condotta comunque riconducibile al F.), si limitano a evidenziare che le controparti avevano palesato animosità ed astio, e che dunque – “sul punto” – fosse necessario affidarsi alle indicazioni provenienti dall’unico testimone indifferente. Si trattava del C., il quale aveva visto il furgone dell’I. entrare in un piazzale, seguito dall’auto condotta dal F., senza sorpassi repentini o manovre pericolose: assunti non certo in linea con quelli delle testimoni invocate dalla difesa, della cui limitata attendibilità i giudici di merito offrono ragionevole spiegazione.
Priva di pregio è altresì la considerazione che l’I., mirando a tornare in possesso della patente che il F. aveva nella mano destra, avrebbe dovuto forzatamente usare una condotta violenta su quella sola mano: corrisponde a regole di comune esperienza che chi intenda allontanare qualcosa da un soggetto che punta ad impossessarsene, tenendola con una mano, cerca di fronteggiare il contendente frapponendogli proprio l’altro braccio, che rimane così esposto a più immediati gesti lesivi. L’osservazione fa intendere ictu oculi insostenibile il quarto motivo di ricorso, non risultando affatto che le lesioni riportate dal F. furono conseguenti ad una azione imputabile alla stessa persona offesa.
1.2. La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che «ai fini dell’applicazione della causa di giustificazione prevista dall’art. 4 del d.lgs. 14/09/1944, n. 288, è necessaria un’attività ingiustamente persecutoria del pubblico ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell’azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario» (Cass., Sez. VI, n. 23255 del 15/05/2012, Negro, Rv 253043). Per intendere ravvisabile l’esimente in parola, è pertanto necessario dimostrare che il comportamento del pubblico ufficiale, causa della reazione offensiva, si sia posto completamente al di fuori della sua funzionale attività e abbia manifestato, nel contempo, una pervicace intenzione di eccedere dalle proprie attribuzioni per perseguire mere finalità vessatorie: il che non è nel caso di specie, atteso che il F. ebbe a constatare una infrazione al codice della strada nel territorio del comune dove operava, e seguì il mezzo dell’I. senza soluzioni di continuità fino a procedere alla relativa contestazione non appena gli fu possibile. Né va dimenticato che, come rilevato nella motivazione della sentenza impugnata, lo stesso I. dichiarò illogicamente di essersi visto strappare di mano la patente, precisando al contempo che ciò accadde quando stava già consegnando il documento al F. sua sponte.
Un eventuale problema di competenza ad operare a Gemona del Friuli, piuttosto che a Venzone, non poteva certamente legittimare l’imputato a considerare gratuitamente vessatoria la condotta dell’agente: una pur risalente pronuncia di questa Corte, con riguardo a pubblici ufficiali preposti al controllo del pagamento di imposte di consumo, risulta avere già affermato che, se l’agente ferma un fuggitivo fuori dalla propria giurisdizione, il privato non può invocare – a giustificazione della resistenza opposta – l’esimente de qua (v. Cass., Sez. VI, n. 6515 del 22/05/1972, Dona).
1.3. La non arbitrarietà degli atti compiuti dal F. esclude pertanto che possa intendersi legittima la condotta dell’I., non avendo egli certamente il diritto di usare violenza nei confronti dell’agente per contrapporsi ad una offesa contra ius: del tutto pretestuosa, del resto, appare l’istanza che l’imputato mirava a soddisfare, consistente – secondo quanto si legge nel ricorso – nel garantirsi «la possibilità di continuare a valersi del titolo abilitativo alla guida fino a quando i fatti non fossero stati chiariti».
1.4. Il motivo di ricorso che riguarda l’I. quale parte civile è inammissibile, innanzi tutto perché la nomina dell’Avv. M. – proponente detto ricorso – versata in atti non contiene alcun riferimento alla prospettiva di impugnare dinanzi a questa Corte la sentenza emessa all’esito del giudizio di appello, quando invece sarebbe stata doverosa una procura speciale ad hoc. Si tratta peraltro di un motivo manifestamente infondato in diritto, per le stesse ragioni che escludono di poter considerare arbitraria la condotta dell’agente F..
2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell’I. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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