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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 22 ottobre 2014, n. 44026

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 18/12/2012, a conferma di quella emessa dal Tribunale di Como, ha condannato G.A. a pena di giustizia per lesioni volontarie in danno di F.A. (capo a), per minaccia continuata in danno di F.A. e L.R.M. (capo b), per ingiuria e lesioni in danno di L.R.M. e ingiuria in danno di F.A. (capo c), oltre al risarcimento dei danni in favore delle persone suddette, costituitesi parti civili.
La ricostruzione dell’episodio è stata effettuata sulla base delle dichiarazioni delle persone offese e di altri testi.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell’interesse dell’imputato, l’avv. A.S., con due motivi.
2.1. Col primo lamenta la errata interpretazione degli artt. 582 e 581 cod. pen. Deduce che la “malattia”, rilevante per la configurabilità delle lesioni, non è costituita da una “mera alterazione” anatomica, ma da una alterazione suscettibile di essere fonte e causa di limitazioni funzionali. Su tale presupposto contesta che la “contusione escoriata del gluteo destro e la contusione del braccio destro”, denunciate dalla F., costituiscano malattia rilevante ai sensi dell’art. 582 cod. pen.
Lamenta in ogni caso, in relazione al reato di lesioni contestato al capo a), l’assenza della prova del nesso causale e dell’elemento soggettivo. Deduce che l’assenza di animus nocendi avrebbe dovuto portare a qualificare come colpose le lesioni procurate alla F. e che “tanto è da dire anche per ciò che riguarda la pseudo aggressione nei confronti del sig. L.R., che non è stato più che spintonato”.
2.2. Col secondo si duole della illogicità della motivazione resa in punto di responsabilità, in relazione a tutti i reati a lui contestati. Quanto al reato di minaccia, di cui al capo b), lamenta che i giudici abbiano dato credito a M. L.R. (la sola che ha parlato di minaccia rivolta ai propri genitori) sebbene nessuna delle persone offese abbia udito espressioni minatorie che le riguardassero e sebbene di minacce non abbia parlato nemmeno il teste S.
Lamenta che i giudici di primo e secondo grado abbiano attribuito credibilità alle persone offese senza un’attenta verifica della loro credibilità e in assenza di riscontri; anzi in presenza di smentita proveniente dal teste S. su un dato fondamentale (il luogo dello scontro, che per le parti offese è il cortile dell’abitazione, mentre il teste suddetto ha parlato di lite avvenuta nell’appartamento sottostante al suo).

Considerato in diritto

Il ricorso è manifestamente infondato.
1. La nozione di “malattia”, giuridicamente rilevante, comprende qualsiasi alterazione anatomica o funzionale che innesti un significativo processo patologico, anche non definitivo; vale a dire, qualsiasi alterazione anatomica che importi un processo di reintegrazione, pur se di breve durata. Pertanto, la contusione costituisce malattia ai sensi dell’art. 582 cod. pen. (Cass., n. 22781 del 26/4/2010. Conformi: N. 7254 del 1977 Rv. 136118, N. 7422 del 2010 Rv. 246097). Nella specie, alla F. è stata procurata una contusione escoriata al gluteo e al braccio che ha richiesto un notevole lasso di tempo per assorbirsi, mentre a L.R. è stata provocata addirittura, con un pugno, la perdita di coscienza: la malattia giuridicamente rilevante sussiste, all’evidenza, in entrambi i casi.
2. La responsabilità del G. per tutti i reati a lui contestati è stata desunta dalle inequivocabili dichiarazioni delle persone offese, della figlia delle stesse (che è – o è stata – anche compagna dell’imputato) e del teste S., i quali hanno concordemente riferito della lite intercorsa tra i coniugi F.-L.R. e l’odierno imputato, determinata dallo scioglimento del rapporto sentimentale tra quest’ultimo e L.R.M.. Tutti hanno confermato l’atteggiamento aggressivo tenuto, nell’occasione, dall’imputato, che colpì variamente i genitori della ragazza, li ingiuriò e minacciò pesantemente. Circostanze nemmeno negate dall’imputato, salvo ridimensionarle (ha parlato di “spinta” data alla F., di “caduta occasionale” della stessa, di “imprudenza” e dei fatto che “non avrebbe potuto pensare nemmeno che la stessa a seguito della spinta potesse cadere”; mentre, per quanto riguarda L., “che non è stato più che spintonato, e anche qui non v’è mai stata alcuna volontà di provocare lesioni personali, ma l’atteggiamento aggressivo del G. fu provocato da provocazioni del sig. L….da qui l’alterco senza alcuna volontà di provocare lesioni”). Affermazioni che sottintendono, chiaramente, l’esistenza di un conflitto tra le parti e di un “atteggiamento aggressivo” del G. nei confronti delle controparti, poi incoerentemente e maldestramente negato. E senza considerare che la tesi del ricorrente s’infrange in un consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui “anche una spinta, idonea per la sua violenza, a far cadere una persona (sia pure, eventualmente, con il concorso di particolari condizioni ambientali, come la scarsa vigoria fisica della persona offesa, il terreno bagnato) costituisce una violenza fisica che aggredisce la incolumità personale e, pertanto, una volta provata la consapevolezza e la volontà dell’agente di dare tale spinta, si rende configurabile il dolo del delitto di lesioni personali volontarie, avente quale evento le conseguenze lesive in concreto causate dalla condotta costitutiva di violenza fisica esercitata sulla persona offesa” (così, sez. 1, n. 7739 del 27/3/1973; Rv 125395; Sez. 5, n. 104 del 4/11/1982; Rv 156810; Sez. 5, n. 12867 del 24/9/1986, Rv 174302).
Non hanno alcuna base fattuale, quindi, le critiche rivolte ai testimoni, i quali hanno descritto uno scenario nemmeno troppo diverso rispetto a quello immaginato dall’imputato, mentre l’esistenza delle lesioni è confermata dalla ricca documentazione medica prodotta, che il ricorrente non contesta nemmeno (salvo fornire una personale interpretazione del concetto di “malattia”, costantemente e unanimamente rifiutato da questa Corte di legittimità). Né vale, per lo stesso motivo, appellarsi ad una diversa collocazione del locus commissi delicti da parte del teste S., posto che anche quest’ultimo ha parlato di un diverbio tra imputato e persone offese e di un L. disteso per terra: prova ulteriore che la ricostruzione operata dai giudici di merito è ancorata ai risultati dell’istruttoria dibattimentale, compiutamente e rettamente interpretati.
3. Conseguono la declaratoria della inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché – valutato il contenuto dei motivi e in difetto della ipotesi di esclusione di colpa nella proposizione della impugnazione – al pagamento in favore della Cassa delle ammende di una somma che la Corte determina, nella misura congrua ed equa, di euro 1.000

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000 a favore della Cassa delle ammende.

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