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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza  2 ottobre 2013, n. 40782

Ritenuto in fatto

1. G..C. e L.V..C. ricorrono con unico atto, tramite il difensore, avverso la sentenza in data 1/3/2012 con la quale la Corte di Appello di Bari, confermando sul punto quella del 15/10/2010 del Tribunale della stessa sede, sez. dist. di Monopoli (invece riformata in punto di maltrattamenti in famiglia, reato dal quale G..C. veniva assolto), aveva riconosciuto responsabili il primo di tentata violenza privata (capo B) in danno della moglie Na..Ch. – minacciata affinché rinunciasse al ricorso per separazione personale -, entrambi dello stesso reato (capo C) in danno della predetta Ch. e di C.M.K. , quest’ultima rispettivamente figlia e sorella degli imputati, minacciate affinché non mettessero più piede nei locali dell’azienda di famiglia di cui la seconda era affittuaria.
2. I ricorrenti deducono con unico motivo violazione di legge e mancanza di motivazione (essendosi la corte limitata a richiamare acriticamente la sentenza di primo grado) in ordine alla portata limitativa dell’autodeterminazione delle persone offese delle minacce loro rivolte dagli imputati; minacce che la sentenza aveva omesso di contestualizzare nel pesante clima familiare descritto nella stessa decisione (assolutoria di G..C. dal reato di maltrattamenti per mancata prova dell’abitualità della condotta vessatoria), tale da determinare l’abitudine delle due donne all’atmosfera di ostilità e quindi la loro certezza del carattere astratto delle minacce. Comunque mancava l’elemento psicologico e il fatto era al più configurabile come minaccia, improcedibile per mancanza di querela.

Considerato in diritto

1. Il ricorso degli imputati merita rigetto.
2. La doglianza di violazione di legge e vizio di motivazione è infondata in primo luogo sotto il profilo dell’asseritamente acritico richiamo alla sentenza di primo grado, posto che detto richiamo risulta sostanzialmente limitato alla ricostruzione in fatto, effettuata dal primo giudice, dei due episodi alla base dei capi B) e C) d’imputazione.
3. Quanto poi al profilo della valenza limitativa dell’autodeterminazione delle persone offese delle minacce loro rivolte dagli imputati, i ricorrenti pretenderebbero, contro ogni logica, di sostenere che espressioni obiettivamente minacciose perdono la loro efficacia se calate in un clima familiare caratterizzato da atteggiamenti intimidatori di alcuni componenti nei confronti di altri più deboli (nella specie C.G. era imputato anche per maltrattamenti in famiglia in danno della moglie, reato dal quale era stato assolto per mancanza di prova dell’abitualità della condotta vessatoria), in quanto questi ultimi – nella specie rispettivamente moglie/madre e figlia/sorella degli imputati – acquisirebbero una sorta di assuefazione che li renderebbe meno sensibili alle intimidazioni.
4. Oltre a ciò il gravame fa ingiustificatamente leva sulla circostanza che, benché minacciate, le due donne non avevano desistito dalle condotte che si era loro tentato di inibire, trascurando che l’accusa è di tentativo e non di violenza privata consumata e che la giurisprudenza di questa corte è consolidata nel ritenere che la configurabilità del tentativo di violenza privata non esige che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, anche se improduttiva del risultato perseguito, essendo sufficiente che si tratti di minaccia idonea ad incutere timore e diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall’agente (Cass. 15977/2005).
5. Il che correttamente è stato ritenuto verificato nella specie laddove la corte, riportando le parti della sentenza di primo grado relative alla ricostruzione dei due fatti, ha concluso che le condotte degli imputati (in un caso G..C. aveva minacciato la moglie di prenderla a martellate e di spaccarle la faccia se non avesse rinunciato all’intenzione di separarsi da lui, nell’altro il predetto ed il figlio avevano minacciato le due donne di spaccare loro la faccia se avessero continuato a frequentare i locali dell’impresa individuale C. & C. nonostante C.M.K. ne fosse l’affittuaria) erano idonee e dirette in modo inequivoco a costringere l’una a non separarsi, entrambe a non entrare più nei locali dell’azienda. Il che, alla stregua del richiamato indirizzo giurisprudenziale, integra l’astratta potenzialità della minaccia ad indurre a fare o meno qualcosa, anche se poi la p.o. non cede all’intimidazione.
6. Né ricorre il reato di minaccia, contrariamente a quanto pure prospettato, in subordine, dai due impugnanti, che ancora una volta fanno leva sul fatto che le pp.oo. non avevano mostrato di essere rimaste Impaurite, trascurando che le intimidazioni erano finalizzate in entrambi gli episodi ad impedire alle pp.oo. i comportamenti sopra ricordati e che le stesse erano potenzialmente idonee ad incutere timore alle due destinatarie per costringerle a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dagli agenti.
7. Segue la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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