cassazione 9

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 2 luglio 2015, n. 28181

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza del 10 novembre 2014 il Tribunale di Napoli, sezione riesame, ha confermato l’ordinanza emessa in data 21 ottobre 2014 dal G.I.P. dello stesso Tribunale, con la quale era stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di C.P., indagato per il reato di cui agli artt. 110, 624 bis, 625 n. 5 cod. pen.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, deducendo con il primo motivo la violazione di legge, in relazione agli artt. 624 bis e 640 cod. pen., nonché il vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lettera e), cod. proc. pen.
Ha sostenuto il ricorrente che il fatto ascrittogli deve essere più correttamente ricondotto nella fattispecie di cui all’art. 640, comma secondo n. 2, cod. pen., piuttosto che in quella di furto aggravato in abitazione.
Con il secondo motivo sono stati dedotti violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle integrazioni di produzione documentale effettuate dal P.M. all’udienza del 10 novembre 2014.
Il ricorrente si è lamentato del fatto che il Tribunale, pur richiamando gli atti depositati dal P.M., non ha tenuto conto di un atto a lui favorevole ovvero quello che documenta il mancato suo riconoscimento da parte della persona offesa. Tale circostanza mina -secondo il deducente- la correttezza della ricostruzione del fatto e del suo ruolo come indagato, tenuto conto che tale ruolo viene definito “apicale”, pur non essendo contestato alcun vincolo associativo ex art. 416 cod. pen., ed è stato ritenuto ostativo dal Tribunale alla applicazione di una misura meno afflittiva.

Considerato in diritto

Il ricorso merita il rigetto.
1. Si evince dagli atti che al ricorrente è stato contestato il fatto di essersi introdotto con altri soggetti, camuffati da carabinieri, nell’abitazione di Giuseppe Pica e, dopo aver giustificato la presenza per finalità di giustizia (l’esecuzione di un ordine di perquisizione) di essersi impossessato di una consistente somma di denaro (27.000 euro) e di gioielli, custoditi dalla persona offesa in una cassaforte, che era stata aperta in seguito all’ordine intimato dai falsi pubblici ufficiali.
2. Infondata è la tesi sostenuta dal ricorrente in relazione alla qualificazione giuridica del suddetto fatto come truffa c.d. vessatoria (art. 640, comma secondo n. 2, cod. pen.
2.1. Va premesso che, come si dirà qui di seguito, nel caso di specie deve ritenersi configurabile il reato di estorsione aggravata e non quello di furto in abitazione, come contestato; di tale diversa qualificazione giuridica si dovrà tener conto da parte dei giudici di merito e tuttavia ad essa non consegue l’annullamento dell’ordinanza impugnata, non incidendo certamente sul fatto come contestato (e sul relativo quadro indiziario) e sulla legittimità (rectius, adottabilità) della misura cautelare in atto.
2.2. Nella materia qui di interesse si registrano due diversi indirizzi interpretativi.
Secondo un primo orientamento, «il criterio differenziale tra il delitto di truffa aggravato dall’ingenerato timore di un pericolo immaginario e quello di estorsione, risiede solo ed esclusivamente nell’elemento oggettivo: si ha truffa aggravata quando il danno immaginario viene indotto nella persona offesa tramite raggiri o artifizi; si ha estorsione, invece, quando il danno è certo e sicuro ad opera del reo o di altri ove la vittima non ceda alla richiesta minatoria. Ne consegue che la valutazione circa la sussistenza del danno immaginario (e, quindi, del reato di truffa aggravata) o del danno reale (e, quindi, del reato di estorsione) va effettuata “ex ante” essendo irrilevante ogni valutazione in ordine alla provenienza del danno prospettato ovvero allo stato soggettivo della persona offesa. (Fattispecie, nella quale la Corte ha qualificato come truffa aggravata la condotta dell’imputato, che, presentandosi come agente di polizia in borghese ed esibendo un falso distintivo, induceva la persona offesa a farsi consegnare la somma di 500,00 euro, minacciando di elevare verbale di contravvenzione per infrazioni al codice della strada per il superiore importo di 1300,00 euro)» (cosi, tra le più recenti, Sez. 2, n. 52121 del 25/11/2014, Danzi, Rv. 261328). Secondo altro orientamento, al quale questo collegio intende aderire, uno dei criteri distintivi tra l’estorsione e la truffa per ingenerato timore è da ravvisare nella particolare posizione dell’agente nei rapporti con lo stato d’animo del soggetto passivo. Nella estorsione, infatti, l’agente incute direttamente od indirettamente il timore di un danno che fa apparire certo in caso di rifiuto e proveniente da lui (o da persona a lui legata da un rapporto qualsiasi), di guisa che l’adesione della vittima è il frutto di una determinazione per volontà coartata; l’attuazione del male minacciato deve presentarsi in forma di possibilità concreta dipendente dalla volontà dell’agente o di persona legata allo stesso. Nella truffa vessatoria, invece, il danno è prospettato solo in termini di eventualità obiettiva e giammai derivante in modo diretto od indiretto dalla volontà dell’agente, di guisa che l’offeso agisce non perché coartato, ma tratto in inganno, anche se il timore contribuisce ad ingenerare l’errore nel processo formativo della volontà (tra le tante Sez. 2, n. 36906 del 27/09/2011, Traverso, Rv. 251149; si vedano anche Rv. 133309; 156497; 174914; 201333; 215705; 226057; 248402; 251149).
Quindi, tra le due fattispecie vengono in rilievo due criteri distintivi:
1) lo stato d’animo del soggetto passivo, che nell’estorsione agisce con la volontà coartata, mentre nella truffa vessatoria si determina perché tratto in inganno, sia pure attraverso la prospettazione di un timore (Sez. 2, n. 5244 del 19/11/1975, Rv. 133309);
2) la realizzazione del danno minacciato, che nella estorsione viene prospettato come possibilità concreta, che dipende direttamente o indirettamente dallo stesso agente; nella truffa, invece, il male rappresentato non dipende, neppure in parte, dall’agente, il quale resta del tutto estraneo all’evento, sì che il soggetto passivo si determina all’azione versando in stato di errore (tra le tante, Sez. 2, n. 7889 del 27/03/1996, P.M. in proc. Spinelli, Rv. 205606). In una recentissima pronunzia si è ribadito che « il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, va ravvisato essenzialmente nel diverso modo di atteggiarsi della condotta lesiva e della sua incidenza nella sfera soggettiva della vittima: ricorre la prima ipotesi delittuosa se il male viene ventilato come possibile ed eventuale e comunque non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non è coartata, ma si determina alla prestazione, costituente l’ingiusto profitto dell’agente, perché tratta in errore dalla esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l’estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri, in tal caso la persona offesa è posta nella ineluttabile alternativa di far conseguire all’agente il preteso profitto o di subire il male minacciato. (Fattispecie in cui la Corte ha qualificato come estorsione la condotta dell’imputato che costringeva la vittima a farsi consegnare degli orecchini, minacciandola che avrebbe potuto rivelare al marito l’esistenza di un amante)» (Sez. 2, n. 7662 del 27/01/2015 – dep. 19/02/2015, Lanza, Rv. 262574).
Insomma, il reato di truffa aggravata dall’essere stato ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario (art. 640 cpv. n. 2 cod. pen.) si configura solo allorché venga prospettata al soggetto passivo una situazione di pericolo che non sia riconducibile alla condotta dell’agente, ma che anzi da questa prescinda perché dipendente dalla volontà di un terzo o da accadimenti non controllabili dall’uomo; in tal caso la vittima viene infatti indotta ad agire per l’ipotetico pericolo di subire un danno il cui verificarsi, tuttavia, viene avvertito come dipendente da fattori esterni estranei all’agente, che si limita pertanto a condizionare la volontà dell’offeso, senza peraltro conculcarla, con una falsa rappresentazione della realtà. Al contrario, se il verificarsi del male minacciato, pur immaginario, viene prospettato come dipendente dalla volontà dell’agente, il soggetto passivo è comunque posto davanti all’alternativa di aderire all’ingiusta e pregiudizievole richiesta del primo o subire il danno: in tali ipotesi pertanto si configura il delitto di estorsione, ed a nulla rileva che la minaccia, se credibile, non sia concretamente attuabile (Sez. 2, n. 7889 del 27/03/1996 – dep. 10/08/1996, P.M. in proc. Spinelli, Rv. 205606).
E, sempre in altra recente pronunzia di questa corte, si è rilevato che «integra il reato di estorsione, e non di truffa aggravata, la minaccia di un male, indifferentemente reale o immaginario, dal momento che identico è l’effetto coercitivo esercitato sul soggetto passivo, tanto che la sua concretizzazione dipenda effettivamente dalla volontà dell’agente, quanto che questa sia la rappresentazione della vittima, ancorché in contrasto con la realtà effettiva, a lei ignota. (Nella specie, la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di estorsione nella condotta dell’imputato il quale, presentandosi come dipendente di Equitalia, pur non rivestendo più tale qualifica, aveva prospettato il pignoramento ed il sequestro dei beni di proprietà del soggetto passivo, per costringerlo a versargli una somma di denaro non dovuta)» (Sez. 6, n. 27996 del 28/05/2014, Stasi e altro, Rv. 261479).
2.3. Come si è detto, nel caso in esame la vittima è stata indotta ad aprire la cassaforte della sua abitazione perché i soggetti agenti (tra cui l’indagato ricorrente) hanno ingenerato direttamente il timore di un danno come derivante dall’essere destinataria di un ordine di perquisizione finalizzata alla ricerca di armi o droga, sicché l’adesione della stessa vittima (che ha consentito l’illecito impossessamento dei valori custoditi nella suddetta cassaforte) è stata certamente il frutto di una determinazione per volontà coartata.
3. Manifestamente infondato è il secondo motivo, con il quale viene genericamente rappresentato che il tribunale non avrebbe tenuto conto, nella valutazione dei quadro indiziario, dei mancato riconoscimento dell’indagato da parte della vittima durante le operazioni di individuazione di persona effettuate presso il carcere.
Nulla viene specificato in ordine alla incidenza di tale attività sulla solidità dei quadro indiziario delineato a carico dell’indagato sia nell’ordinanza genetica sia in quella del Tribunale del riesame.
Il motivo, quindi, risulta del tutto generico, mancando ogni indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento del ricorso, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato senza cadere nel vizio di aspecificità. Del tutto inconferente, poi, è il riferimento critico fatto alla parte della ordinanza impugnata che delinea il ruolo “apicale” dell’indagato, onde giustificare l’idoneità della misura cautelare applicata. Il Tribunale, con motivazione esente da vizi logici e di metodo, indica specificamente gli elementi a sostegno della decisione assunta, facendo riferimento ad atti di indagine che evidenziano la pericolosità sociale dell’indagato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1 ter disp. att., cod. proc. pen.

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