Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 14 novembre 2013, n. 45672
Fatto e diritto
1 Con sentenza pronunciata il 5.6.2012 la corte di appello di Palermo confermava la sentenza con cui il tribunale di Palermo, in data 26.5.201, aveva condannato M.G. alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 595, co. 1, 2 e 3, c.p., ascrittigli ai capi A) e B) dell’imputazione, commessi, rispettivamente, in danno di R.L. e T.M. .
2. Avverso tale decisione, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del suo difensore, l’imputato, articolando due motivi di impugnazione.
3. Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione di legge in relazione all’art. 595, c.p., in quanto la corte territoriale, non facendo buon governo dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di esercizio del diritto di cronaca, non ha considerato che la “verità” di un fatto non può essere assicurata dal giornalista, tenuto a garantire solo “un buon grado di veridicità della notizia”, per cui, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, l’avere affermato il M. , nel corso di una trasmissione televisiva andata in onda su di una emittente privata, che il R.L. avrebbe potuto trovarsi in una situazione di conflitto d’interessi tra la sua carica istituzionale di ragioniere capo del comune di Partinico e la sua attività di libero professionista, in quanto egli dovrà controllare la regolarità dei conti e delle fatture che ha redatto nell’interesse delle ditte fornitrici del comune, ricomprese tra i suoi clienti, non rende falsa la notizia fornita al pubblico, che appare, altresì, di rilevante interesse pubblico e priva di contenuto effettivamente lesivo dell’altrui reputazione, in quanto non attributiva di comportamenti illeciti in capo al R. , anche nella parte in cui si addebitava alla persona offesa un “inciampo tecnico”, costato alle casse del comune “qualche miliardo”.
Dalla stessa motivazione, infatti, si evince che il R. svolge comunque presso il comune di Partinico una funzione di pianificazione economica della spesa, per cui, sebbene egli non fosse competente a provvedere alla liquidazione dei pagamenti dovuti da parte del comune alle ditte fornitrici, rimane intatto il nucleo di verità della notizia, che consentirebbe, secondo il M. di porre quantomeno il dubbio sulla sussistenza di un conflitto di interessi in capo al R. .
3.1 Identici rilievi svolge il ricorrente per quel che riguarda la diffamazione consumata in danno di T.M.D. , di cui al capo B).
Anche in questo caso, infatti, pur avendo il M. attribuito erroneamente all’assessore T. il ruolo di presidente di un’associazione operante nel settore della cura dell’infanzia, è comunque emerso dall’istruttoria dibattimentale che la figlia della persona offesa, C.B. , presiede numerosi enti, alcuni dei quali effettivamente beneficiari di erogazioni pubbliche, per cui il M. si è mosso nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica, nel momento in cui, lungi dall’attribuire alla T. un comportamento illecito, ha posto il problema dell’opportunità che la C. abbia ricevuto ingenti finanziamenti pubblici in relazione alla propria attività, mentre la madre rivestiva una funzione pubblica.
Rileva, inoltre, il ricorrente, in relazione all’ulteriore dubbio sollevato nel servizio giornalistico relativamente all’assunzione da parte dell’associazione (omissis) di una parente della parte civile, che le risultanze processuali hanno comunque evidenziato come tra il personale della suddetta associazione risulti una persona di cognome T. , per cui, non avendo gli organi inquirenti effettuato alcun accertamento sull’esistenza di un legame di parentela tra quest’ultima e la persona offesa, tale legame allo stato non può escludersi.
4. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, avendo la corte territoriale fondato la propria decisione al riguardo esclusivamente sulla esistenza a carico del M. di plurimi precedenti penali per reati contro il patrimonio e per un’altra fattispecie di diffamazione a mezzo diffusione televisiva, omettendo di considerare elementi positivi di segno opposto, rappresentati dal particolare impegno sociale e professionale dimostrato dall’imputato nella sua attività e dalla circostanza che i suoi precedenti penali sono risalenti nel tempo.
5. Il ricorso del M. va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
6. Inammissibile appare innanzitutto il primo motivo di ricorso.
È inammissibile, infatti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 581, co. 1, lett. c), e 591, co. 1, lett. c), il ricorso per Cassazione fondato, come nel caso in esame, su motivi che ripropongono acriticamente le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dai giudici del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso.
La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell’art. 591, co. 1, lett. c), c.p.p., all’inammissibilità (cfr. Cass., sez. IV, 18.9.1997 – 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., sez. V, 27.1.2005 – 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Cass., sez. V, 12.12.1996, n. 3608, p.m. in proc. Tizzani e altri, rv. 207389).
6.1 Va, peraltro, ribadito un principio da tempo fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di diffamazione a mezzo stampa, condizioni indispensabili per il corretto esercizio del diritto di critica sono: a) la verità del fatto attribuito e assunto a presupposto delle espressioni di critica, in quanto – fermo restando che la realtà può essere percepita in modo differente e che due narrazioni dello stesso fatto possono perciò stesso rivelare divergenze anche marcate – non può essere consentito attribuire a un soggetto specifici comportamenti dallo stesso non tenuti o espressioni mai pronunciate, per poi esporlo a critica come se quei fatti o quelle espressioni fossero effettivamente a lui riferibili; mentre, qualora il fatto risulti obiettivamente falso, la possibilità di applicare la scriminante, sotto il profilo putativo ai sensi dell’art. 59 c.p., presuppone che il giornalista abbia assolto all’onere di controllare accuratamente la notizia risalendo alla fonte originaria e che l’errore circa la verità del fatto non costituisca espressione di negligenza, imperizia o, comunque, di colpa non scusabile, come nel caso in cui il fatto non sia stato sottoposto alle opportune verifiche e ai doverosi controlli; b) l’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti; c) la continenza, che deve ritenersi superata quando le espressioni adottate risultino pretestuosamente denigratorie e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica; la verifica circa l’adeguatezza del linguaggio alle esigenze del diritto del giornalista alla cronaca e alla critica impone l’accertamento della verità del fatto riportato e la proporzionalità dei termini adoperati in rapporto all’esigenza di evidenziare la gravità dell’accaduto, quando questo presenti oggettivi profili di interesse pubblico; con la precisazione che, pur essendo consentita una polemica anche intensa su temi di rilievo sociale e politico, esula comunque dalla critica il gratuito attacco morale alla persona (cfr. Cass., ex plurimis, sez. I, 04/07/2008, n. 35646, G. e altro).
Ciò implica a carico del giornalista, anche ai fini della eventuale sussistenza della scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca, l’obbligo di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio sulla verità della notizia, che va riportata in modo completo, in quanto l’intreccio del dovere del giornalista di informare e del diritto del cittadino di essere informato merita rilevanza e tutela costituzionale se ha come base e come finalità la verità e la sua diffusione (cfr. Cass., sez. V, 17/07/2009, n. 45051, V. e altro; Cass., sez. V, 26/09/2012, n. 41249, S.A.; Cass., sez. V, 04/11/2010, n. 44024, rv. 249126).
Nel caso in esame, come correttamente rilevato dalla corte territoriale con motivazione approfondita ed immune da vizi, l’imputato si è discostato da tali criteri, diffondendo, attraverso una trasmissione televisiva, notizie obiettivamente denigratorie della correttezza e della professionalità delle persone offese, in quanto rappresentative di una indebita commistione tra funzioni pubbliche ed interessi privati, risultate del tutto false.
7. Inammissibile deve ritenersi anche il secondo motivo di ricorso, perché da un lato attinente al merito, dall’altro manifestamente infondato.
Come è noto, infatti, secondo la giurisprudenza assolutamente dominante in sede di legittimità la concessione o il diniego delle circostanze generiche non esige l’esame da parte del giudice di tutti i parametri di cui all’art. 133 c.p., bastando che venga specificato a quale di essi si sia inteso fare riferimento. In questa prospettiva, la sussistenza delle circostanze suddette può essere esclusa dal giudice con motivazione, non censurabile in Cassazione, basata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, purché correttamente argomentate – come fatto dalla corte territoriale attraverso il richiamo ai plurimi precedenti penali del ricorrente, di cui uno specifico per diffamazione a mezzo diffusione televisiva – e senza che assuma rilevanza il fatto che in tale operazione valutativa il giudice non abbia effettuato specifici apprezzamenti sui pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (cfr. Cass., sez. III, 20/09/2012, n. 8056, T. e altro; Cass., sez. VI, 11/02/2013, n. 11793, A.).
8. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse del M. va, dunque, dichiarato inammissibile, con condanna di quest’ultimo, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, in favore della cassa delle ammende, di una somma a titolo di sanzione pecuniaria, che appare equo fissare in Euro 1000,00, tenuto conto della evidente inammissibilità del ricorso, facilmente evitabile, attraverso la conoscenza di orientamenti consolidati da tempo nella giurisprudenza di legittimità, dal difensore del ricorrente, che, quindi, non può ritenersi immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
9. Il M. va, altresì, condannato alla rifusione, in favore delle parti civili costituite, delle spese del presente giudizio di legittimità, che, ai sensi del decreto del Ministro della Giustizia 20 luglio 2012 n. 140, “Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, si fissano solidamente in complessivi Euro 2.200,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili che liquida solidamente in complessivi Euro 2.200,00, oltre accessori secondo legge.
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