Cassazione 6

Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 13 novembre 2015, n. 45453

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 22 gennaio 2014 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la pronunzia di primo grado del Tribunale di Napoli, con la quale C.M. era stato condannato per il delitto di cui all’art. 612 bis cod. pen. in danno della vicina di casa L.P.. 2. L’imputato ha proposto ricorso articolato come segue.
2.1. Viene denunziata violazione di legge in ordine all’affermazione di responsabilità, perché non sarebbero sussistenti nel caso in esame gli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 612 bis cod. pen. Le condotte poste in essere dal M. si sarebbero sostanziate solo in un “corteggiamento”, che non avrebbe provocato stato d’ansia alla persona offesa.
2.2. Viene, altresì, dedotta violazione di legge processuale in relazione alla mancata assoluzione dell’imputato ai sensi dell’art. 530, comma secondo, cod. proc. pen.
2.3. Con il terzo motivo viene denunziato il vizio di motivazione, che sarebbe illogica, carente e affetta anche da travisamento della prova.

Considerato in diritto

Il ricorso non può essere accolto.
1. Con tutte le doglianze proposte il ricorrente contesta la sussistenza degli elementi costitutivi dell’art. 612 bis cod. pen., lamentando in proposito anche vizi di motivazione mediante travisamento della prova e la violazione dei principio dell’oltre ragionevole dubbio.
2. Giova in proposito premettere, in via generale, che con l’introduzione della fattispecie di cui all’art. 612 bis cod. pen. il legislatore ha voluto, prendendo spunto dalla disciplina di altri ordinamenti, colmare un vuoto dì tutela ritenuto inaccettabile rispetto a condotte che, ancorché non violente, recano un apprezzabile turbamento nella vittima.
Il legislatore ha preso atto però che la violenza (declinata nelle diverse forme delle percosse, della violenza privata, delle lesioni personali, della violenza sessuale) spesso è l’esito di una pregressa condotta persecutoria; pertanto, mediante l’incriminazione degli atti persecutori si è inteso in qualche modo anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisio­psichica attraverso l’incriminazione dì condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o in fattispecie per così dire minori, quali la minaccia o la molestia alle persone. È peraltro utile ricordare come, per il consolidato insegnamento di questa Corte, integrano il delitto di atti persecutori anche due sole condotte tra quelle descritte dall’art. 612 bis cod.pen., come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 46331 del 5 giugno 2013, D. V., Rv. 257560). Invece, un solo episodio, per quanto grave e da solo anche capace, in linea teorica, di determinare il grave e persistente stato d’ansia e di paura che è indicato come l’evento naturalistico del reato, non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dalla norma in esame, potendolo essere, invece, alla stregua di precetti diversi: e ciò in aderenza alla volontà del legislatore il quale, infatti, non ha lasciato spazio alla configurazione di una fattispecie solo “eventualmente” abituale (Sez. 5, n. 48391 del 24/09/2014, C, Rv. 261024).
Il delitto, inoltre, è configurabile anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 33563 del 16/06/2015, B, Rv. 264356)
Trattandosi di reato abituale è la condotta nel suo complesso ad assumere rilevanza ed in tal senso l’essenza dell’incriminazione di cui si tratta si coglie non già nello spettro degli atti considerati tipici, bensì nella loro reiterazione, elemento che li cementa, identificando un comportamento criminale affatto diverso da quelli che concorrono a definirlo sul piano oggettivo.
È dunque l’atteggiamento persecutorio ad assumere specifica autonoma offensività ed è per l’appunto alla condotta persecutoria nel suo complesso che deve guardarsi per valutarne la tipicità, anche sotto il profilo della produzione dell’evento richiesto per la sussistenza del reato. In tale ottica il fatto che tale evento si sia in ipotesi manifestato in più occasioni e a seguito della consumazione di singoli atti persecutori è non solo non discriminante, ma addirittura connaturato al fenomeno criminologico alla cui repressione la norma incriminatrice è finalizzata, giacché alla reiterazione degli atti corrisponde nella vittima un progressivo accumulo dei disagio che questi provocano, fino a che tale disagio degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi nelle forme descritte nell’art. 612 bis cod. pen.
Indubbiamente l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, in quanto dalla reiterazione degli atti deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, solo alla fine della sequenza, degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice. (Sez. 5, n. 51718 del 05/11/2014, T, Rv. 262636).
Va detto, peraltro, che, ai fini della individuazione dell’evento cambiamento delle abitudini di vita (che – come si dirà più avanti- si è verificato nel caso in esame), occorre considerare il significato e le conseguenze emotive della costrizione sulle abitudini di vita cui la vittima sente di essere costretta e non la valutazione, puramente quantitativa, delle variazioni apportate. (Sez. 5, n. 24021 del 29/04/2014, G, Rv. 260580).
3. Fatte le suesposte precisazioni in diritto, risultano non fondate le censure alle sentenze dei giudici di merito che hanno ritenuto integrata la fattispecie contestata.
Invero, è emerso che il M. (classe 1945) ha più volte molestato la vicina di casa L.P., giovane donna sposata e amica della figlia dell’imputato.
Le molestie erano iniziate con degli approcci durante incontri casuali nei pressi di casa e mentre entrambi si trovavano sui balconi delle rispettive abitazioni (posti l’uno di fronte all’altro): l’uomo aveva pronunziato frasi come “tu mi piaci”, aveva “mandato” baci, si era messo le mani sul cuore “a voler mimare il suo amore” e una notte aveva puntato la luce di una torcia verso l’abitazione della donna. In altre occasioni l’aveva aspettata fuori della palestra e fuori dal parrucchiere; l’aveva pure raggiunta ai giardinetti, dove si trovava con i figli, e le aveva detto sussurrando “ma lo vuoi capire che sono innamorato di te”; era accaduto pure che le avesse sussurrato le parole “ti amo” nell’androne di una chiesa, durante una processione.
La donna si era determinata a presentare la querela dopo che erano rimasti senza esito i tentativi di far desistere l’uomo dal suo comportamento e dopo un ennesimo episodio, cui aveva assistito pure il marito: in data 27 novembre 2010, mentre lei si trovava sul balcone, il M., seduto nella cucina della propria casa, spostata la tenda, si “toccava le parti intime”. 4. Tale ricostruzione dei fatti è stata operata dai giudici di merito sulla base delle risultanze dell’istruttoria dibattimentale, di cui si è dato conto in maniera congrua e logica sia nella sentenza di appello che in quella di primo grado, alla quale la prima ha fatto anche legittimamente rinvio.
Sia il Tribunale che la Corte territoriale hanno dato altresì conto delle risultanze in base alle quali hanno ritenuto provata la sussistenza dell’evento del reato contestato.
E’ infatti emerso che la persona offesa, in conseguenza delle reiterate molestie subite del M., aveva avvertito un forte senso di ansia e si era sentita perseguitata, tanto da dover modificare le proprie abitudini di vita: infatti si era vista costretta a causa delle morbose attenzioni del M. ad uscire di casa sempre accompagnata dal marito o dalle amiche, anche per espletare le normali attività quotidiane.
5. Alla luce di quanto sopra rappresentato, è del tutto evidente che i fatti posti in essere dal M. non si siano concretati solo in un pressante “corteggiamento”, come sostenuto dalla difesa dell’imputato nel ricorso in esame.
Il M. ha perpetrato una serie di atti di molestia, provocando stato d’ansia nella vittima e inducendola a mutare le proprie abitudini nella propria vita quotidiana, chiedendo aiuto al marito e alle sue amiche, tra cui la figlia dello stesso imputato.
Peraltro non ci sono dubbi anche sulla sussistenza dell’elemento psicologico del reato contestato.
In proposito, va detto che, trattandosi di reato abituale di evento, il dolo è da ritenersi senz’altro unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica; ma ciò non significa affatto che l’agente debba rappresentarsi e volere fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi, ben potendo il dolo realizzarsi in modo graduale e avere ad oggetto la continuità nel complesso delle singole parti della condotta.
Si tratta, peraltro, di dolo generico, che consiste nella volontà di porre in essere le condotte di minaccia e molestia nella consapevolezza della idoneità delle medesime alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice, e che, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, esprimendo un’intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l’agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C e altro, Rv. 260411).
I giudici di merito hanno evidenziato quanto emerso nell’istruttoria dibattimentale in ordine all’elemento soggettivo, sottolineando anche che il M. aveva continuato a molestare la vittima sebbene fosse stato invitato, sia da sua figlia che dal marito e dal fratello della P., a desistere dalla sua condotta persecutoria.
6. A fronte di tali risultanze le doglianze difensive si rivelano finalizzate solo ad una diversa ricostruzione dei fatti.
6.1. A questa Corte, però, non possono essere sottoposti giudizi di merito, non consentiti neppure alla luce del nuovo testo dell’art. 606, lettera e), cod. proc. pen.; la modifica normativa di cui alla legge 20 febbraio 2006 n. 46 lascia infatti inalterata la natura del controllo demandato alla Corte di cassazione, che può essere solo di legittimità e non può estendersi ad una valutazione di merito. Il nuovo vizio introdotto è quello che attiene alla motivazione, la cui mancanza, illogicità o contraddittorietà può essere desunta non solo dal testo dei provvedimento impugnato, ma anche da altri atti del processo specificamente indicati; è perciò possibile ora valutare il cosiddetto travisamento della prova, che si realizza allorché si introduce nella motivazione un’informazione rilevante che non esiste nel processo oppure quando si omette la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronunzia. Solo attraverso l’indicazione specifica di atti contenenti la prova travisata od omessa si consente nel giudizio di cassazione di verificare la correttezza della motivazione (Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567).
Nel caso in esame è stato genericamente dedotto il travisamento de//a prova, ma l’analisi del provvedimento impugnato consente di apprezzare come la motivazione sia congrua ed improntata a criteri di logicità e coerenza, proprio con riferimento alla valutazione sia delle risultanze processuali, dalle quali emerge la responsabilità dell’imputato, sia della conseguente infondatezza delle argomentazioni difensive.
La Corte territoriale, infatti, ha puntualmente riportato gli esiti dell’istruttoria dibattimentale di primo grado, dando atto in particolare delle dichiarazioni dei testi escussi e della attendibilità della persona offesa, il cui racconto risulta riscontrato dalle dichiarazioni del marito della P. e della stessa figlia dell’imputato.
Peraltro, la Corte di Appello ha assolto compiutamente all’obbligo di motivazione, in quanto non si è limitata al mero richiamo delle argomentazioni svolte nella sentenza di primo grado, ma ha specificamente valutato le doglianze contenute nell’atto di appello, in particolare in ordine alla valutazione delle prove e alla conseguente ricostruzione dei fatti (Sez. 6, n. 9752 del 29/01/2014, Ferrante, rv. 259111; Sez. 1, n. 43464 del 01/10/2004, Perazzolo, rv. 231022).
6.2. Queste stesse considerazioni servono anche a confutare l’altra doglianza mossa dal ricorrente, con la quale si è sostenuto che la valutazione delle prove fatta dalla Corte di appello sarebbe frutto di un ragionamento giustificativo dell’affermazione di colpevolezza errato in termini di “ragionevole dubbio”.
E’ opportuno evidenziare per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, presente nel testo dell’art. 533 cod.proc.pen., che ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione. Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (Sez. un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv. 222139), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (sez. 2, n. 19575 del 21 aprile 2006, Serino ed altro, Rv. 233785; sez. 2, n. 16357 del 2 aprile 2008, Crisiglione, Rv. 23979; sez. 2, n. 7035 del 9 novembre 2012, De Bartolomei ed altro, Rv. 254025).
Orbene, come si è già evidenziato, la valutazione delle prove da parte della Corte territoriale è espressione corretta dei suddetti principi, giacchè è approdata a un convincimento basato su più elementi, seguendo la regola metodologica dell’art. 192 cod. proc. pen., di cui ha dato ampiamente e logicamente conto.
7. Il rigetto del ricorso comporta la condanna dell’imputato al pagamento anche delle spese processuali sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, che liquida in euro 1800,00, oltre accessori come per legge.
In caso di diffusione del presente provvedimento, omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs 195/03 in quanto disposto d’ufficio.

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