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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza 13 giugno 2014, n. 25450

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FERRUA Giuliana – Presidente
Dott. FUMO Maurizio – Consigliere
Dott. BRUNO Paolo A. – Consigliere
Dott. VESSICHELLI Maria – rel. Consigliere
Dott. CAPUTO Angelo – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI TORINO;
nei confronti di:
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) N. IL (OMISSIS);
(OMISSIS) S.P.A.;
avverso l’ordinanza n. 121/2013 TRIB. LIBERTA’ di TORINO, del 25/09/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARIA VESSICHELLI;
lette/sentite le conclusioni del PG Dott. VOLPE Giuseppe: inammissibilita’ o rigetto del ricorso.
uditi i difensori: (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS)

FATTO E DIRITTO

Propone ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, avverso l’ordinanza in data 1 ottobre 2013, con la quale il Tribunale del riesame locale ha annullato il decreto di sequestro preventivo, per equivalente, disposto dal Gip della stessa citta’, nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), nonche’ di (OMISSIS) S.p.A..

Tale misura cautelare reale era stata disposta, secondo quanto si desume dal provvedimento impugnato, relativamente a beni mobili e immobili, fino alla concorrenza della somma di 251.600.000 euro, con riferimento – in applicazione del principio solidaristico – a ciascuno dei destinatari del provvedimento.

La somma menzionata era pari a quello che il Gip aveva ritenuto essere il profitto del reato di manipolazione del mercato, ai sensi dell’articolo 185 TUF (contestato, al capo 2), agli odierni ricorrenti) e della ipotesi di responsabilita’ amministrativa formulata a carico di (OMISSIS) al capo 3), ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articoli 5 e 25 sexies. Piu’ in particolare, nel procedimento in esame, oltre alla contestazione di cui al capo 1) per il reato di cui all’articolo 2622 c.c., comma 4, (contestazione che, nel provvedimento impugnato, si ritiene esclusa dal novero dei reati in relazione ai quali e’ stato concesso il sequestro), risulta elevata provvisoriamente, nei confronti dei citati indagati, ai fini cautelari:

– al capo 2: l’imputazione di manipolazione del mercato, per avere, nelle rispettive qualita’ di amministratore di fatto di (OMISSIS) S.p.A. e (OMISSIS) S.p.A. – (OMISSIS) – nonche’ di titolari di deleghe esecutive nell’ambito delle stesse societa’ – gli altri – e di azionisti di riferimento per quanto concerne la posizione dei componenti della famiglia (OMISSIS), concorso a diffondere i dati relativi al bilancio consolidato 2010 di (OMISSIS) S.p.A., non conformi al vero. E cioe’ a diffondere notizie che, consistendo nell’occultamento di una perdita non inferiore a 538 milioni di euro (pari al 37% del conto economico consolidato per quanto concerne la posizione di (OMISSIS) e al 22% per quanto concerne la posizione della partecipata (OMISSIS)) erano idonee a provocare una sensibile alterazione del prezzo del titolo (OMISSIS) S.p.A. e (OMISSIS);

– al capo 3, nei confronti di (OMISSIS), e’ stata invece contestata la responsabilita’ per il reato sopraindicato, commesso dai soggetti menzionati che avevano svolto funzioni di rappresentanza o di amministrazione della societa’ stessa e che, con la condotta sopra descritta, avevano diffuso notizie sul bilancio, false per l’occultamento della forte perdita indicata, cosi’ impedendo che il titolo (OMISSIS) registrasse, con la naturale immediatezza, pesanti contrazioni nel valore di mercato. Tali contrazioni erano state, in seguito, quantificate esattamente nel valore della riduzione dei titoli emessi, pari a complessivi euro 251.600.000, riduzione verificatasi in concreto ad un anno circa dalla commissione del reato sub 2) e precisamente tra ottobre e dicembre 2011, quando la notizia della falsita’ dei dati di bilancio era divenuta ufficiale.

Con riferimento a tale ultima ipotesi, il profitto del reato era stato indicato dal PM e calcolato dal Gip, appunto, in 251.600.000 euro, ossia nella mancata perdita di valore che, invece, le azioni (OMISSIS) erano destinate a subire ed effettivamente, poi, avevano subito quando la falsita’ era emersa.

Il sequestro era stato disposto per equivalente, e con riferimento a ciascun indagato per intero, con riferimento al profitto cosi’ calcolato.

Ha ritenuto, il Tribunale del riesame, errato il ragionamento di fondo secondo cui poteva individuarsi un profitto sia della societa’ (OMISSIS) che degli indagati, correlato all’andamento artificioso del valore del titolo. Infatti qualunque vicenda inerente il valore delle azioni (OMISSIS), una volta immesse nel mercato, deve ritenersi a vantaggio o a danno degli azionisti e non del patrimonio della societa’ sicche’ e’ da escludere che, nei fatti in esame, cosi’ come valorizzati dal Gip in aderenza alla domanda cautelare, sia individuabile, quale conseguenza immediata della condotta descritta nei capi d’imputazione, un vantaggio patrimoniale – comunque calcolato e determinato – che abbia riguardato la societa’ e che possa essere considerato profitto della stessa.

In altri termini, attesa la formulazione dei capi d’imputazione e la individuazione del profitto, ad opera del richiedente la misura, con riferimento esclusivo a quello che sarebbe derivato dalla mancata perdita di valore delle azioni, il Tribunale ha sostenuto di non essere stato investito anche della esistenza di eventuali altre forme di profitto, correlagli alle condotte descritte al capo 2), tenuto conto pure del fatto che la iniziale richiesta di sequestro del PM, riferita anche al profitto degli azionisti, doveva ritenersi esautorata dalla successiva integrazione di richiesta del 7 agosto che aveva fatto riferimento, appunto, alla somma di euro 251.600.000 accertata, secondo le coordinate di cui sopra, dal consulente tecnico del PM medesimo.

In via subordinata, il Tribunale ha osservato che, anche a ritenere tale istanza integrativa e non sostitutiva della prima, non era individuabile comunque un autonomo profitto degli azionisti, poiche’ nessuno degli indagati aveva posto in essere, in conseguenza della condotta manipolativa, atti di negoziazione del titolo, tali da conseguire un concreto vantaggio patrimoniale. Con riferimento alle loro posizioni, il guadagno era rimasto allo stato potenziale e tale evenienza non e’ stata ritenuta sufficiente, dal Tribunale, per individuare un profitto. Anche gli emolumenti degli indagati non avevano registrato alcuna variazione in crescita o in decrescita, con riferimento alla condotta manipolativa in questione.

Deduce il Procuratore della Repubblica impugnante che sarebbe erronea l’affermazione del Tribunale del riesame secondo cui, posto che il reato di manipolazione del mercato “non ha provocato una plusvalenza delle azioni”, non vi sarebbe, per gli azionisti, un profitto. E cio’ in quanto, secondo quanto ritenuto dall’impugnante, la tesi in diritto accolta dal Tribunale era quella, sostenuta dalle difese, in base alla quale solo l’incremento di valore delle azioni, quale conseguenza del comportamento delittuoso, poteva dare luogo al profitto da reato.

Nessun profitto poteva invece individuarsi in caso di perdita di valore delle azioni. L’impugnante ritiene che tale tesi, peraltro mutuata dalla sentenza della Corte d’appello di Milano sulla vicenda (OMISSIS), non potesse adattarsi al caso di specie, nel quale non si era verificata alcuna vendita dei titoli (come invece in quella fattispecie) ma il danno doveva parametrarsi agli effetti, sul mercato borsistico, della falsa informazione: effetti che, nel caso di specie, erano consistiti nell’impedimento di un crollo maggiore del titolo, gia’ in difficolta’. In altri termini, comunicare dati di bilancio che nascondevano una consistente perdita della societa’, aveva avuto l’effetto di impedire che fosse depresso, per qualche tempo, in maniera importante, il valore delle azioni (OMISSIS).

La quantificazione di tale effetto economico era dato dal valore di 251.600.000 euro che era, appunto, l’entita’ della perdita di valore delle azioni, registrata quando il dato di bilancio vero era finalmente emerso.

Non poteva viceversa accreditarsi il criterio, affermato da altra sentenza della stessa Corte d’appello di Milano, secondo cui il profitto del reato di manipolazione del mercato si misura soltanto sulla plusvalenza delle azioni.

L’impugnante si preoccupa anche di contestare la tesi difensiva, che egli ritiene accolta dal Tribunale del riesame, secondo cui non dovrebbe essere individuabile un profitto in relazione al reato di manipolazione del mercato perche’ tale reato non prevede il profitto o il danno come elementi costitutivi.

Al contrario, ritiene il Pubblico ministero che la manipolazione del mercato, nel caso concreto, ha prodotto come conseguenza un artificioso valore dell’azione (OMISSIS), che altrimenti, se fosse stato indicato in bilancio l’effettivo passivo, sarebbe crollato.

Dunque, il profitto del reato ben poteva individuarsi, nel caso concreto, nei vantaggi patrimoniali che erano conseguiti alla mancata perdita di valore delle azioni.

In tale prospettiva, l’impugnante cita la sentenza delle Sezioni unite della Cassazione n. 2665/2008, nella quale si indica come profitto, confiscabile ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 19, il “complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti”.

Siffatti vantaggi economici vanno intesi in senso lato (vedi sentenza Cass. n. 44032 del 2008) e sono non solo quelli che possono derivare all’azionista ma anche quelli che derivano all’emittente, come, ad esempio, la miglior valutazione da parte delle agenzie di rating e il consolidamento della propria posizione sul mercato.

La sentenza delle Sezioni unite, in altri termini, ha riferito la confisca alla nozione di profitto come beneficio aggiunto derivante dal reato, diverso e – in ipotesi – anche maggiore rispetto al solo incremento del patrimonio conseguito da colui che ha posto in essere l’attivita’ delittuosa.

Riportando i principi al caso di specie, non puo’ non notarsi che la societa’ (OMISSIS) aveva certamente un interesse proprio alla diffusione del bilancio contenente false informazioni che rappresentavano una situazione patrimoniale meno compromessa di quella reale: e tale interesse e’ stato riconosciuto dallo stesso Tribunale.

L’impugnante lamenta pero’ che il Tribunale non abbia anche condiviso i criteri del calcolo del profitto, ad esempio trascurando i vantaggi patrimoniali in capo a (OMISSIS) spa, che sarebbero “in corso di calcolo ad opera di un consulente appositamente incaricato”: essendo (OMISSIS) la proprietaria del 38,5% delle azioni di (OMISSIS), e, a sua volta, (OMISSIS), posseduta in maggioranza (circa al 50%) dai membri della famiglia (OMISSIS). In tale ottica era evidente il vantaggio che costoro, nella qualita’ di azionisti di maggioranza, avevano tratto dall’illecito, inteso come causativo di una mancata perdita. Tali percentuali consentivano di calcolare il profitto della societa’ (OMISSIS) in 96.866.000 euro e, quello degli azionisti menzionati, in 48 milioni di euro.

A cio’ aggiunge l’impugnante che le azioni (OMISSIS) possedute da (OMISSIS) sono state, da questa ultima societa’, utilizzate a titolo di garanzia, in relazione ad un contratto di finanziamento prorogato nel 2010: una garanzia, con riferimento alla quale e’ prevista la liberazione delle azioni dal pegno, in relazione all’andamento dei corsi di borsa del titolo (OMISSIS).

Si tratta di una evenienza capace di costituire un esempio concreto del diretto vantaggio che (OMISSIS) ha conseguito dall’andamento non negativo del titolo.

Ulteriore vantaggio per gli azionisti era da individuare nel fatto che la mancata perdita di valore del titolo aveva consentito di procrastinare gli effetti del deficit che aveva poi portato (OMISSIS) e i suoi dirigenti a dovere affrontare la necessaria integrazione con (OMISSIS).

In data 25 marzo 2014, i difensori di (OMISSIS) (avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS)) hanno presentato una memoria di replica con la quale hanno richiesto, in via primaria, la declaratoria di inammissibilita’ del ricorso del Pm, in un caso nel quale e’ previsto il ricorso soltanto per violazione di legge.

Nella specie il Pubblico ministero – che non aveva neppure indicato la violazione di legge che era tenuto a dedurre – aveva allegato anche circostanze di fatto, per giunta in corso di accertamento e comunque aveva formulato censure attinenti alla motivazione, per tale motivo non consentiti nella materia de qua.

Quanto alla nozione di profitto, che era rimasta ai margini della decisione e degli argomenti del Tribunale del riesame, questa discendeva direttamente dagli approdi giurisprudenziali citati anche nel ricorso e non poteva comprendere vantaggi patrimoniali indiretti o mediati.

Con riferimento alla specifica posizione del (OMISSIS), poi, valeva l’affermazione del Tribunale a proposito della indipendenza degli emolumenti, rispetto alla condotta illecita contestata.

In conclusione la difesa ritiene che il Pubblico ministero non abbia colto il punto della motivazione del Tribunale secondo cui il profitto della societa’ non puo’ essere confuso con il danno degli azionisti.

A proposito della nozione di profitto confiscabile, la difesa cita i principi, in tema di profitto, affermati nella sentenza della Cassazione n. 3075 del 2013 (rectius, n. 10265 del 2014), emessa in riferimento ad un’ipotesi di illecito amministrativo dell’ente, ai sensi del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articoli 25 ter e 25 sexies.

La Cassazione ha, anche in tale sede, riaffermato che la nozione di profitto confiscabile, di interesse nel caso in questione, deve ritenersi riferita al vantaggio di natura economica che si risolve, per colui che ne beneficia, in un effettivo incremento patrimoniale e che possa ritenersi di diretta ed immediata derivazione del reato. Si e’ aggiunto, nella stessa sentenza, che, la necessaria individuazione di un vincolo pestilenziale del bene assoggettabile a confisca per i reati in discussione, impone di ritenere il profitto come evento in senso tecnico, ancorche’ esterno al tipo di illecito.

Cita, poi, la difesa, le sentenza delle Sezioni unite n. 41936 del 2005 e n. 9149 del 1996, entrambe convergenti nel ritenere il profitto come lucro e cioe’ vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; anche nella sentenza delle stesse Sezioni unite n. 29952 del 2004 e’ indicato il profitto quale vantaggio economico che deriva dall’illecito, peraltro non riducibile all’utile netto conseguito da chi ha posto in essere l’attivita’ delittuosa. In conclusione, il difensori ritengono che il complesso delle sentenze fin qui citate stia a’ sostenere una nozione di profitto che non puo’ discostarsi da quella di guadagno netto realizzato in ragione ed in diretta ed immediata connessione con la commissione del reato. Ragionare diversamente, come ha fatto il Pubblico ministero impugnante, e sostenere una nozione dei vantaggi conseguibili dal reato, piu’ vicina a quella di “prodotto” che a quella – assai piu’ ristretta – di “profitto”, significa fare riferimento a conclusioni prive di fondamento sia logico che giuridico.

La verita’ e’ che il Tribunale ha ritenuto che il provvedimento oblativo sia caduto su valori non costituenti l’equivalente del profitto del reato in contestazione, posto che le circostanze valorizzate non sono idonee ad integrare, appunto, il profitto del reato mentre sono mancate le indagini del titolare dell’azione penale, utili a dimostrare eventuali effetti positivi, sul patrimonio degli indagati, a seguito della contestata manipolazione di mercato. Non e’ profitto per la societa’, d’altra parte, la ritardata perdita di valore delle azioni e tantomeno puo’ esserlo l’entita’ degli stipendi e degli emolumenti percepiti dagli indagati in relazione all’attivita’ svolta come manager del gruppo: stipendi percepiti da anni sulla base dell’attivita’ lavorativa svolta.

Il 26 marzo 2014 anche i difensori di (OMISSIS) (avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS)) hanno depositato una memoria nella quale hanno insistito per la declaratoria di inammissibilita’ del ricorso, perche’ sviluppato con censure di merito, e per la impossibilita’ d configurare, nel caso di specie, un profitto sequestrabile ai sensi degli articoli 185 e 187 TUF.

Lo stesso 26 marzo, l’avv. (OMISSIS), per (OMISSIS) spa, gia’ (OMISSIS) spa, ha depositato una memoria ugualmente finalizzata a sostenere la inammissibilita’ o quantomeno la infondatezza del ricorso del PM sia per la violazione dell’articolo 325 c.p.p. che per la non ricorrenza, nel caso concreto, della nozione di profitto di cui al Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 19.

Il 27 marzo l’avv. (OMISSIS) ha depositato propria memoria nell’interesse di (OMISSIS), con argomenti in tutto analoghi a quelli sopra ricordati.

In precedenza, il 25 marzo, anche il Procuratore Generale della Cassazione aveva inoltrato, facendola propria, una memoria del Procuratore della Repubblica di Torino riguardante la competenza territoriale: memoria di cui i difensori degli indagati hanno chiesto la espunzione dal fascicolo o comunque la omessa valutazione perche’ attinente a tema non sollevato nel ricorso.

Il ricorso e’ infondato e deve essere rigettato.

Preliminarmente deve evidenziarsi che il tema della competenza territoriale, come affrontato nel provvedimento impugnato, non forma oggetto dei rilievi del PM impugnante ne’ si apprezzano elementi che rendano necessaria la trattazione ex officio di tale materia, finalizzata alla rilevazione della incompetenza, sicche’ la memoria trasmessa dal Procuratore generale non diviene oggetto di apposita disamina.

Occorre, piuttosto, dare conto, in primo luogo, di profili di inammissibilita’ dell’atto d’impugnazione che, pure sussistenti nei termini evidenziati nelle memorie difensive di replica, tuttavia non sono assorbenti rispetto ad ulteriori censure che, in ragione della loro infondatezza, giustificano il rigetto e non la declaratoria di inammissibilita’ dell’atto di impugnazione.

E’ ineccepibile il rilievo delle difese secondo cui il ricorso per cassazione in tema di misure cautelari reali, e’ ammesso, dall’articolo 325 c.p.p., soltanto per violazione di legge. Ed e’ noto, altresi’, che proprio per tale ragione, non e’ deducibile, ai sensi dell’articolo 325 cit., il vizio di motivazione nella forma della sua manifesta illogicita’ ovvero della sua contraddittorieta’, ovvero ancora della sua semplice mancanza, posto che, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite della Cassazione (Sez. U, Sentenza n. 5876 del 28/01/2004 Cc. (dep. 13/02/2004) Rv. 226710) nella nozione di “violazione di legge”, per cui soltanto puo’ essere proposto ricorso per cassazione a norma dell’articolo 325 c.p.p., comma 1, rientrano solo la mancanza assoluta di motivazione o la presenza di motivazione meramente apparente, in quanto correlate all’inosservanza di precise norme processuali.

Discende da tale preliminare rilievo che risultano inammissibili le osservazioni e le critiche, contenute nel ricorso in esame, con le quali si e’ tentato di introdurre, nel procedimento incidentale, supporti fattuali e quindi argomentativi che, nell’ottica dell’impugnante stesso, dovrebbero servire a dimostrare l’insufficienza della motivazione esibita dal Tribunale: e cio’, oltretutto, non soltanto per la gia’ affermata impossibilita’, per il Pubblico ministero impugnante, di dedurre, ex articolo 325 c.p.p., l’incompletezza della motivazione del provvedimento impugnato, ma, anche, perche’ si tratta di argomenti e fatti che, essendo sottoposti per la prima volta al giudice della legittimita’, sarebbero comunque, come tali, non apprezzabili e inammissibili. Infatti, per i principi generali che regolano il giudizio dinanzi alla Corte di cassazione, non e’ consentito sottoporre ad essa ragioni e circostanze diverse da quelle indicate dall’articolo 606 c.p.p., dovendosi considerare che, anche soltanto nell’ottica di apprezzare un eventuale vizio radicale della motivazione su un punto decisivo – rilevante, per quanto si e’ detto, come violazione di legge – possono essere dedotte questioni solo nel rispetto della regola della preclusione e quindi temi, in fatto o in diritto, previamente sottoposti al giudice del merito: con l’effetto di far, cosi’, divenire rilevante ed apprezzabile, in Cassazione, il detto vizio di radicale motivazione su questione gia’ sollevata.

Consegue da tali premesse che l’intera ultima parte del ricorso del Pubblico ministero, volta ad illustrare il vantaggio economico che la capogruppo (OMISSIS) avrebbe tratto dall’artificioso andamento del titolo, stipulando vantaggiosi contratti bancari che altrimenti le sarebbero stati rifiutati, oppure il vantaggio che sarebbe derivato agli indagati dal procrastinare la fusione della societa’ (OMISSIS) con (OMISSIS), introduce argomenti fattuali che – pur in linea di principio rilevanti nella sede del merito – non sono tuttavia conoscibili e tantomeno valutabili da questa Corte di legittimita’, nel presente procedimento.

Per quanto, invece, concerne le ulteriori critiche, deve evidenziarsi che, pur non avendo, il Pubblico ministero impugnante, enunciato formalmente la violazione di legge che intendeva dedurre, questa puo’ agevolmente individuarsi nella nozione di “profitto” che e’ compatibile e consente la confisca ai sensi delle norme che si assumono violate nei capi d’imputazione provvisori.

Puo’, per tate ragione, ritenersi non inammissibile tale parte del ricorso, cosi’ come, del resto, implicitamente ammesso anche nelle memorie difensive di replica che hanno contemplato la possibilita’ del rigetto.

Tuttavia, anche tale censura non puo’ portare all’accoglimento del ricorso perche’ appare infondata.

Deve infatti darsi atto, come si ricava, del resto, sia dalla lettura del provvedimento impugnato che da quella del ricorso e da quella delle memorie di replica, che non risulta illustrata, da parte del Tribunale del riesame, una nozione di profitto confiscabile sostanzialmente diversa da quella che il Pubblico ministero chiede che venga affermata e, specularmente, sostiene che sarebbe stata – implicitamente – disattesa dai giudici del merito.

Infatti, la decisione del Tribunale del riesame si basa essenzialmente a) sul preliminare rilievo che e’ innegabile che possa ipotizzarsi, in linea astratta, un “interesse della societa’ (OMISSIS) alla diffusione del bilancio contenente false informazioni, che rappresentano una situazione patrimoniale meno compromessa di quella reale, per facilitare l’ingresso di nuovi investitori oppure la sottoscrizione dell’aumento di capitale”;

b) sull’ulteriore rilievo che, tuttavia, tale interesse non basta, da solo, a far configurare, in concreto, il profitto del reato da manipolazione del mercato, che resta, allo stato, non dimostrato;

c) sull’osservazione che il mancato deprezzamento del titolo azionario, per un certo tempo, dovuto all’operazione di manipolazione del mercato, ha inciso soltanto sul valore del titolo stesso e quindi sul patrimonio del suo proprietario – l’azionista – e non sul patrimonio dell’ente emittente, cioe’ della societa’ (OMISSIS);

d) sul rilievo che il vantaggio conseguito dagli indagati quali singoli azionisti non e’ stato ugualmente determinato in concreto posto che, quello genericamente indicato dal Pubblico ministero, e riferito al valore delle azioni possedute, sarebbe soltanto potenziale ed astratto, non essendo state compiute, degli stessi indagati, operazioni di compravendita delle azioni, mentre l’ulteriore vantaggio, riferibile al mantenimento degli emolumenti non poteva dirsi provato: infatti tali emolumenti erano stati percepiti sia prima che, in misura anche piu’ elevata, dopo il comportamento delittuoso.

Consegue da tale ricostruzione che la decisione del Tribunale del riesame non e’ stata raggiunta negando riconoscimento giuridico alla nozione di profitto evocata dal Pubblico ministero, ma soltanto sulla base del rilievo che il tipo di vantaggio economico in concreto indicato nella domanda cautelare, quale conseguenza diretta ed immediata dell’illecito, o non e’ stato dimostrato (il riferimento e’ al consolidamento dell’immagine della societa’ nel mercato azionario e nelle relazioni bancarie) o e’ stato riferito a fatti non dimostrativi di una utilita’ economica concreta per la societa’ o per gli indagati.

E tale punto di vista del Tribunale del riesame sembrerebbe addirittura fatto proprio e condiviso dal Pubblico ministero il quale, infatti, nel provvedimento impugnato ha dato atto delle iniziative assunte dal proprio Ufficio per quantificare, in modo diverso e secondo le indicazioni del Tribunale del riesame, il profitto del reato: una attestazione, pero’, che, lungi dal consentire a questa Corte di accreditare la tesi dell’esistenza di un profitto – sul presupposto che non sarebbe contestabile nell'”an” ma solo da determinare nel “quantum” – non coglie l’essenza della conclusione del giudice del merito. Che e’ stata quella, del tutto corretta, di sostenere che la misura cautelare reale puo’ essere confermata soltanto sul presupposto della gia’ avvenuta dimostrazione, ad opera del PM, di un nesso pertinenziale fra l’ipotesi di reato e il presunto profitto e non anche quando non sia stata ancora data la dimostrazione della configurabilita’ in concreto del profitto stesso.

Il calcolo del “quantum”, cioe’, non puo’ tenere luogo della necessita’ della previa dimostrazione dell'”an”, nella specie non data. Anche perche’ il calcolo del “quantum” richiede che sia prima chiarito il criterio giuridico utilizzato per individuare il perimetro del profitto che, poi, si va a quantificare.

In sostanza il Tribunale ha sollevato una questione di dimostrazione del profitto piuttosto che una questione sulla nozione di profitto da accreditare.

Per tale ragione risulta anche del tutto inconferente – oltre che inammissibile per le ragioni sopra illustrate e cioe’ per la natura puramente fattuale del dato, sottoposto per la prima volta alla Cassazione – la parte del ricorso nella quale si abbozza, per grandi linee, una quantificazione del vantaggio che gli azionisti avrebbero tratto dalla manipolazione del mercato, quantificazione calcolata sulla base delle percentuale di azioni possedute dagli indagati (v. pag. 9 del ricorso) e quindi della entita’ della mancata perdita di cui avrebbero usufruito.

E’ anche utile chiarire perche’ la nozione di profitto di fatto utilizzata dal Tribunale non risulta sostanzialmente in contrasto con quella sostenuta dal PM impugnante che, sotto tale profilo, ha” formulato, nel ricorso, osservazioni in diritto, in linea di principio del tutto condivisibili.

E’ indubbio infatti che, sul tema, le Sezioni unite, nella sentenza n. 26654 del 2008, Fisia Impianti (seguita da Sez. 6, Sentenza n. 42300 del 26/06/2008 Cc. (dep. 13/11/2008) Rv. 241332 e da Sez. 2, Sentenza n. 20506 del 16/04/2009 Cc. (dep. 15/05/2009) Rv. 243198), hanno posto limiti sufficientemente indicativi, quantomeno in negativo, alla dilatazione del nesso pertinenziale, affermando il principio secondo cui il profitto del reato oggetto della confisca di cui all’articolo 19 del Decreto Legislativo n. 231 del 2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto.

Meno agevole e’ rintracciare una definizione in positivo del profitto confiscabile, ai fini che qui interessano, rinvenendosi, nella sentenza delle Sezioni unite sopra citata il solo riconoscimento che esso va inteso come “complesso dei vantaggi economici” tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti. Piu’ in generale, vi si afferma che all’espressione non va attribuito il significato, riduttivo, di “utile netto” o di “reddito”, ma quello di “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”.

Importante e’ anche l’affermazione, delle stesse Sezioni Unite secondo cui, invece, ” il profitto di rilevante entita’ richiamato nell’articolo 13 (ma anche nell’articolo 16, articolo 24, comma 2, articolo 25, comma 3, articolo 25 ter, comma 2 e articolo 25 sexies, comma 2), che ha tradotto il criterio di delega (“casi di particolare gravita’”) contenuto nella direttiva di cui alla Legge 29 settembre 2000, n. 300, articolo 11, lettera L), evoca un concetto di profitto “dinamico”, che e’ rapportato alla natura e al volume dell’attivita’ d’impresa e ricomprende vantaggi economici anche non immediati (cfr. Cass. sez. 6 23/6/2006 n. 32627, La Fiorita) ma, per cosi’ dire, di prospettiva in relazione alla posizione di privilegio che l’ente collettivo puo’ acquisire sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi.

Per quanto qui interessa, deve, invece, farsi riferimento al profitto collegato alle ipotesi di confisca di cui agli articoli 6, 15, 17 e 19, che si preoccupano di assicurare allo Stato quanto conseguito in concreto dall’ente, sia pure in situazioni diverse, per effetto della commissione dei reati-presupposto”.

In piu’, va ricordata la giurisprudenza a Sezioni semplici che si e’ espressa concordemente sulla effettivita’ del vantaggio economico, dipendente dal reato, che puo’ giustificare la confisca per equivalente: cosi’, Sez. 6, Sentenza n. 27746 del 18/02/2010 Cc. (dep. 16/07/2010) Rv. 247768, riferita, appunto, alla confisca per equivalente, del profitto di reato di pubbliche forniture: sentenza nella cui motivazione si ribadisce che il profitto e’ individuabile soltanto in un effettivo arricchimento patrimoniale acquisito e non, ad esempio, nella semplice esistenza di un credito, per cosi’ dire, “virtuale”, in quanto non riscosso e meno che mai nella cessione pro solvendo dello stesso credito, non ancora liquido ed esigibile, a garanzia di una linea di affidamento accordata alla cedente dalla banca.

Sulla stessa linea, Sez. 5, Sentenza n. 3238 del 14/12/2011 Cc. (dep. 26/01/2012) Rv. 251721, che ha rilevato come, qualora debbano imputarsi al profitto del reato presupposto dei crediti, ancorche’ liquidi ed esigibili, gli stessi non possono costituire oggetto di un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, trattandosi di utilita’ non ancora percepite dall’ente, ma soltanto attese.

In sostanza puo’ affermarsi che il profitto destinato alla confisca debba individuarsi in un vantaggio effettivamente conseguito (cosi’ anche Sez. 6, Sentenza n. 13061 del 19/03/2013 Cc. (dep. 21/03/2013) Rv. 254841).

In conclusione, va riconosciuto che la nozione di profitto dipendente dal reato di manipolazione del mercato e riferibile sia alla societa’ che agli azionisti indagati, deb presentare i connotati della immediata derivazione e della concreta effettivita’, ma non coincide necessariamente, quanto alla posizione dell’ente collettivo, con il solo profitto conseguito dall’autore del reato, potendo consistere anche in altri vantaggi di tipo economico che l’ente abbia consolidato e che siano dimostrati. Per l’azionista, d’altra parte, valgono ovviamente gli stessi criteri, con la precisazione che il vantaggio puo’ consistere nella acquisizione della plusvalenza delle azioni, come nella evitata perdita di valore, sempre che il vantaggio stesso possa individuarsi con le caratteristiche della effettiva realizzazione e non della sola “attesa”.

In tale prospettiva, la notazione della realizzata plusvalenza delle azioni, determinata dalla condotta di manipolazione del mercato, costituisce un criterio indicativo, sul piano indiziario,della esistenza di un profitto, ma non puo’ dirsi il contrario e cioe’ che la rilevazione della situazione opposta – evenienza verificatasi nel provvedimento impugnato – costituisca anche, di per se’, come erroneamente ritenuto dal PM, l’affermazione che e’ provata la assenza di profitto confiscabile.

Al contrario, va riconosciuto che il Tribunale, nel sostenere la insufficienza, ai fini che ci occupano, della rilevazione della mancata perdita, per qualche tempo, del valore delle azioni della (OMISSIS), quale effetto della manipolazione del mercato azionario, ha sottolineato che tale evento non era indifferente perche’ avrebbe potuto corrispondere ad un interesse anche di caratura economica della societa’ e ad un potenziale vantaggio patrimoniale per gli azionisti: e cioe’ avrebbe potuto rappresentare il presupposto di fatto, dal punto di vista storico, per la concreta realizzazione di un vantaggio economico per le persone fisiche e giuridica, idoneo a dare luogo al sequestro di valore equivalente, ma con la precisazione che la catena causale non si e’ completata, nel caso specifico, o non e’ stato dimostrato che lo sia stata, perche’ l’effettivo vantaggio economico non risulta, alla stregua delle emergenze rappresentate ai giudici del merito, concretizzato sul piano delle utilita’ computabili economicamente.

Certamente, poi, e’ da escludere – in opposizione a quanto sostenuto dalla difesa – che la natura del reato di manipolazione del mercato – reato di pericolo concreto e di mera condotta (v Sez 5, Sentenza n. 28932 del 04/05/2011 Ud. (dep. 20/07/2011) Rv. 253754), per la cui consumazione non e’ necessario che si verifichi una sensibile alterazione del prezzo degli strumenti finanziari – sia di ostacolo alla individuazione di un profitto confiscabile. Basta leggere proprio il testo del Decreto Legislativo n. 231 del 2001, articolo 25 sexies che, al cpv. regola espressamente la sanzione per l’illecito, in base all’entita’ del profitto che l’ente abbia conseguito in seguito alla commissione, nel suo interesse, del reato di manipolazione del mercato.

D’altra parte, la giurisprudenza e’ costante nell’individuare il profitto in relazione anche ai reati di pericolo, essendo, quello, il vantaggio patrimoniale,anche in termini di mancata perdita, che l’illecito puo’ produrre per l’agente ed essendo indifferente alla struttura del reato (v Sez. 3 Sentenza n. 33184 del 12/06/2013 Cc. (dep. 31/07/2013) Rv. 256850; Sez. 2, Sentenza n. 45786 del 16/10/2012 Ud. (dep. 23/11/2012) Rv. 254352). Questo infatti si consuma indipendentemente dalla realizzazione dell’evento, ma alla sua ricostruzione, ai fini ad esempio del trattamento sanzionatorio come della adozione della misura cautelare reale, non e’ estraneo l’accertamento del verificarsi dell’evento e dei correlati effetti economici.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso del Pubblico Ministero.

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