Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 12 febbraio 2014, n. 6664
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza dei 12 luglio 2012 la Corte d’appello di Caltanissetta confermava la condanna di L.O. per il reato di cui all’art. 485 c.p. in relazione all’alterazione di un tagliando di una lotteria nazionale ad estrazione istantanea del tipo “gratta e vinci” in modo da far risultare lo stesso come vincente, ma, in parziale riforma della pronunzia di primo grado, lo assolveva dal connesso reato di tentata truffa aggravata ai danni dell’ente gestore la lotteria, ritenendo trattarsi di reato impossibile per inidoneità dell’azione, giacchè la falsificazione aveva prodotto una combinazione numerica cui corrispondeva la vincita di un premio non contemplato tra quelli predisposti per il giuoco.
2. Avverso la sentenza ricorre l’imputato articolando due motivi.
2.1 Con il primo deduce vizi motivazionali del provvedimento impugnato, ritenendo ingiustificata ed apodittica la svalutazione operata dalla Corte territoriale della versione dei fatti offerta dall’imputato (il quale ha affermato di aver rinvenuto casualmente il tagliando sul tavolo di un bar) e soprattutto delle convergenti dichiarazioni rese dalla moglie del medesimo, ritenute inattendibili non in base ad un’analisi della loro intrinseca consistenza, bensì in forza del mero pregiudizio derivante dal rapporto di coniugio che lega la teste al L.
2.2 Con il secondo motivo il ricorrente lamenta l’errata applicazione della legge penale incriminatrice e correlati vizi motivazionali della sentenza, rilevando come proprio l’impossibilità originaria ed assoluta di conseguire la vincita risultante dal tagliando artefatto determinerebbe, prima ancora dell’impossibilità della truffa da cui i giudici d’appello hanno assolto l’imputato, la stessa consumazione del reato di falso, atteso che lo stesso deve essere supportato dal dolo specifico di conseguire un utile che, per l’appunto, nel caso di specie non sarebbe mai stato possibile conseguire e sulla cui sussistenza comunque la Corte distrettuale avrebbe omesso di argomentare. Non di meno e per le stesse ragioni il falso avrebbe dovuto essere qualificato come grossolano od innocuo, atteso che la vincita, quale risultato della combinazione della stringa di numeri contenuta nel tagliando, ne è un elemento indefettibile. Pertanto l’alterazione del tagliando in modo tale da non far risultare una vincita effettivamente riscuotibile, in quanto non corrispondente a nessuna di quelle previste nel montepremi, non poteva ritenersi idonea ad ingannare alcuno.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
1.1 Prendendo le mosse dal secondo motivo deve ritenersi corretta la qualificazione giuridica attribuita ai fatti dalla Corte territoriale. E’ infatti necessario ribadire che in tema di falso grossolano o inidoneo, è esclusa la configurabilità del reato impossibile qualora la difformità dell’atto dal vero non sia riconoscibile ictu oculi, in base alla sola disamina dell’atto stesso (Sez. 5, n. 36647 del 4 giugno 2008, Vena, Rv. 241302). Riconoscibilità che nel caso di specie è stata correttamente esclusa, attesa la natura degli adempimenti che si sono resi necessari per accertare l’alterazione del tagliando.
1.2 Né rileva il fatto che la sequenza “vincente” artatamente creata dall’imputato non trovasse effettiva corrispondenza nel montepremi.
Infatti, attesa la natura di pericolo del reato previsto dall’art. 485 c.p. (Sez. 5, n. 29026 del 30 aprile 2012, p.c. in proc. Giorgio, Rv. 254610), la grossolanità del falso deve essere valutata con riguardo esclusivo alle caratteristiche intrinseche del documento che ne costituisce l’oggetto e nella prospettiva della sua idoneità ad ingannare i terzi, senza che assuma rilievo il conseguimento del risultato cui la sua realizzazione risulta strumentale. In tal senso l’effettiva possibilità di riscuotere il premio individuato dalla sequenza artefatta non incide sulla configurabilità del reato, atteso che il documento era comunque in grado di trarre in inganno. In definitiva il ricorrente fa discendere la grossolanità del falso dalle specifiche modalità di utilizzazione del documento registrate nel caso di specie, così invertendo l’oggetto dell’accertamento e valorizzando una circostanza esterna al fatto di reato. Ed ancor meno fondata risulta l’obiezione relativa alla sussistenza in concreto del dolo specifico richiesto dall’art. 485 c.p. Ma proprio la configurazione dell’elemento soggettivo nei termini indicati evidenzia come sia irrilevante ai fini della consumazione del reato che il vantaggio venga conseguito e come il dolo sia integrato anche nel caso in cui l’agente agisca nella mera soggettiva convinzione di poterlo realizzare.
2. Infondate ai limiti dell’inammissibilità sono anche le doglianze avanzate con il primo motivo. Quanto alla svalutazione della versione dei fatti offerta dall’imputato, il giudizio sulla sua inverosimiglianza è stato giustificato in maniera non manifestamente illogica dalla Corte distrettuale, mentre il ricorrente si è limitato a riproporla in maniera assertiva. E’ poi vero che la sentenza rifiuta in maniera sbrigativa ed erroneamente pregiudiziale di valutare le dichiarazioni della moglie del L., ma tale “errore” non può ritenersi viziante per la sostanziale inammissibilità della censura. Ed infatti, per un verso va rilevato che i motivi d’appello nemmeno avevano introdotto il tema della valenza probatoria della testimonianza della donna, non avendo in particolar modo l’imputato in quella sede contestato la valutazione di intrinseca inattendibilità del suo narrato formulato dal giudice di primo grado; per l’altro deve osservarsi che il ricorrente non ha saputo evidenziare perché la testimonianza di cui lamenta l’omessa valutazione sarebbe da ritenersi decisiva, posto che la moglie dell’imputato non ha assistito al presunto ritrovamento del tagliando da parte del marito, ma ha solo dichiarato di aver avuto conoscenza del fatto proprio dal coniuge.
3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente, oltre che al pagamento delle spese processuali, anche alla refusione di quelle sostenute nel grado dalla parte civile che si ritiene e quo liquidare in complessivi euro 1.500,00, oltre agli accessori di legge.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese del grado sostenute dalla parte civile che liquida in euro 1.500,00, oltre accessori di legge.
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