Corte di Cassazione bis

Suprema CORTE DI CASSAZIONE

sezione V

sentenza 11 giugno 2014, n. 24615 

Svolgimento del processo

 1. Con sentenza dell’8/5/2013 la Corte d’appello di Trento confermava la sentenza con la quale, in data 10/1/2012, il Tribunale della stessa città aveva dichiarato T.L. e N.L. colpevoli del delitto p. e p. dall’art. 110 c.p., e art. 624 bis c.p., comma 1, perchè, dopo essere penetrati all’interno della privata dimora di R.M.G., annessa all’albergo (OMISSIS) ove gli stessi erano ospiti, si impossessavano di sei giacche, per un valore di circa Euro 2.000,00:

fatto commesso il (OMISSIS).

Riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, concesse altresì le attenuanti generiche e operata la riduzione per il rito abbreviato, entrambi gli imputati erano condannati alla pena di quattro mesi di reclusione e Euro 140,00 di multa, oltre che al pagamento delle spese processuali, con la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Il processo aveva tratto origine dalla querela presentata dal gestore dell’albergo, R.M.G., a seguito della quale i due imputati erano stati tratti in arresto, essendo state rinvenute: una delle giacche sottratte, all’interno della camera da loro occupata, posta al secondo piano dell’albergo; le altre, nascoste in una borsa, nella vettura di T.L..

All’affermazione della penale responsabilità si perveniva altresì sulla base della deposizione del portiere dell’albergo che aveva affermato di aver visto i due giovani rientrare rumorosamente nella notte, verso le ore 3:30, in probabile stato di ebbrezza; il T. tentare di uscire un’ora dopo dalla camera con un borsone, ritirandosi alla vista del portiere sul piano; le luci della vettura del T. accese verso le cinque del mattino e quest’ultimo uscire da essa per recarsi in camera.

La qualificazione del fatto come furto in abitazione ex art. 624 bis c.p., era quindi motivata sulla base del rilievo che il furto era avvenuto all’interno dei locali occupati da R.M.G., posti al terzo piano dell’albergo, ai quali si accedeva o con l’ascensore per mezzo di apposita chiave o attraverso le scale ma oltrepassando una porta d’accesso contrassegnata dalla targa ‘privato’.

3. Avverso tale decisione propongono separati ricorsi per cassazione gli imputati, per mezzo dei rispettivi difensori.

3.1. Entrambi lamentano – il T. con l’unico motivo, il N. con il primo motivo del proprio ricorso – sotto il profilo della manifesta illogicità e della carenza della motivazione nonchè della violazione di legge, l’affermata qualificazione del fatto come furto in abitazione, anzichè come furto semplice, come tale da dichiararsi non procedibile per intervenuta remissione della querela.

Assumono, in sintesi, che il luogo ove il furto è stato perpetrato non poteva considerarsi quale privata dimora agli effetti della richiamata norma incriminatrice, atteso che sia le scale che l’ascensore consentivano liberamente di accedere ai vari piani dell’albergo, nessuno escluso, e quindi anche al terzo, sul corridoio del quale era situato l’armadio che conteneva i capi di abbigliamento sottratti.

3.2. Il N., inoltre, con un secondo subordinato motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta configurabilità a suo carico di una condotta concorrente nel reato contestato, anzichè di mera connivenza non punibile. Rileva che nelle sentenze di merito non vengono indicate condotte che abbiano arrecato un contributo concreto, anche di ordine psicologico, alla realizzazione del delitto, emergendo soltanto nei suoi confronti la presenza nella camera d’albergo al momento del ritrovamento della prima giacca.

Deduce che analoga carenza motivazionale è ravvisabile anche in ordine all’elemento soggettivo del reato a lui contestato.

 Motivi della decisione

 4. Sono infondate le doglianze, da entrambi i ricorrenti proposti, in relazione alla qualificazione del reato come furto in abitazione ai sensi dell’art. 624 bis c.p..

Com’è noto tale disposizione, introdotta dalla L. 26 marzo 2001, n. 128, art. 2, innovando rispetto alla previsione contenuta nell’art. 625 c.p., n. 1, che indicava quale aggravante del furto la condotta realizzatasi attraverso la introduzione o l’intrattenersi in un edificio destinato ad altrui ‘abitazione’, prevede – configurandola quale fattispecie autonoma di reato, al fine di sottrarla al giudizio di bilanciamento, e sanzionandola con pena più severa – la condotta dell’impossessamento mediante introduzione in un luogo destinato a ‘privata dimora’ ovvero nelle sue pertinenze.

La locuzione utilizzata ha recepito in parte i risultati della precedente elaborazione giurisprudenziale sulla nozione di ‘abitazione’ presente nel soppresso art. 625 c.p., n. 1, ma anche nella rubrica della nuova norma.

Infatti, già nel vigore della previgente previsione, la nozione di abitazione, evocando quella del luogo finalizzato a soddisfare esigenze della vita domestica e familiare, aveva consentito di includervi anche locali che, pur non comunicando direttamente con l’abitazione, sono tuttavia destinati a soddisfare esigenze della vita domestica e familiare (Sez. 5, n. 11077 del 14/10/1992 – dep. 17/11/1992, De Battisti, Rv. 192547), come le autorimesse (Sez. 2, n. 22937 del 29/05/2012 – dep. 12/06/2012, Muffarti e altro, Rv. 253193; Sez. 5, n. 21948 del 02/02/2001 – dep. 31/05/2001, Pinto G, Rv. 219027); i cortili i quali, pur non essendo adibiti a vera e propria abitazione, costituiscono parte integrante del luogo abitato per essere destinati, con carattere di indispensabile strumentante, all’attuazione delle esigenze della vita abitativa (Sez. 2, n. 6287 del 29/10/1990 – dep. 10/06/1991, Busatta, Rv. 187399); le scale (Sez. 2, n. 5202 del 06/06/1988 – dep. 13/04/1989, Savagni, Rv. 181005); il negozio intercomunicante con alcuni vani adibiti ad abitazione (Sez. 2, n. 3951 del 25/11/1980 – dep. 30/04/1981, Scarano, Rv. 148594); un’area privata di pertinenza dell’abitazione condotta in locazione dallo stesso autore del fatto (Sez. 2, n. 22909 del 22/05/2012 – dep. 12/06/2012, Baldi, Rv. 253191); la stanza d’ospedale destinata all’uso del personale paramedico (Sez. 5, n. 3703 del 02/02/1993 – dep. 16/04/1993, Mangano, Rv. 194349); uno spazio di una abitazione distinto e appartato dalla parte (solo) nella quale l’autore del furto era stato autorizzato ad accedere, essendo necessario distinguere, in funzione del consenso espresso dal soggetto passivo, tra i diversi locali che compongono l’abitazione (Sez. 2, n. 8276 del 16/05/1988 – dep. 09/06/1989, Mattioni, Rv. 181523).

A maggior ragione la rilevanza di luoghi non strettamente riconducibili al concetto di abitazione emerge dalla formulazione della nuova norma, essendo quella di ‘privata dimora’ nozione più ampia e comprensiva di quella di ‘abitazione’ (come è dimostrato anche dalla formulazione dell’art. 614 c.p., ove sono entrambi presenti), in essa rientrando tutti quei luoghi non pubblici nei quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, atti della loro vita privata ovvero attività di carattere culturale, professionale e politico.

Si è quindi ritenuto che vi rientrano, ad es.: gli studi professionali, gli spazi di esercizi commerciali o di stabilimenti industriali nei quali la persona offesa possa svolgere, anche in modo contingente, atti di vita privata (Sez. 5, n. 30957 del 02/07/2010 – dep. 03/08/2010, Cirlincione, Rv. 247765; Sez. 5, n. 43089 del 18/09/2007 – dep. 22/11/2007, P.G. in proc. Salvadori, Rv. 238493; Sez. 5, n. 43671 del 17/09/2003 – dep. 14/11/2003, Sgaramella, Rv. 226415; Sez. 4, n. 18810 del 26/02/2003 – dep. 18/04/2003, P.M. in proc. Solimano, Rv. 224568), compreso anche un pubblico esercizio, nelle ore di chiusura, utilizzato dal proprietario per lo svolgimento di un’attività lavorativa, sia pure inerente alla gestione del locale stesso (v. Sez. 4, n. 32232 del 10/06/2009 – dep. 06/08/2009, P.G. in proc. Caglioni, Rv. 244432); la portineria di un condominio (Sez. 5, n. 28192 del 25/03/2008 – dep. 09/07/2008, Tagliartela, Rv. 240442); le aree condominiali, anche quando le stesse non siano nella disponibilità esclusiva dei singoli condomini (Sez. 4, n. 4215 del 10/01/2013 – dep. 28/01/2013, B., Rv. 255080); il cortile condominiale, che costituisca pertinenza di una privata dimora (Sez. 7, n. 3959 del 02/10/2012 – dep. 24/01/2013, Romano, Rv. 255100); uno studio odontoiatrico (Sez. 5, n. 10187 del 15/02/2011 – dep. 14/03/2011, Gelasio, Rv. 249850); l’interno di un campo da tennis inserito in un complesso alberghiero (Sez. 5, n. 4569 del 22/12/2010 – dep. 08/02/2011, Bifara, Rv. 249268); una baracca adibita a spogliatoio in un cantiere edile (Sez. 5, n. 32093 del 25/06/2010 – dep. 20/08/2010, Truzzi e altro, Rv. 248356); l’area di uno stabilimento adibita a deposito merci considerato che lo stabilimento rappresenta uno degli snodi fondamentali in cui si svolge la vita privata dell’imprenditore, atteso che i beni prodotti devono essere necessariamente depositati al suo interno al fine di organizzare e stabilire quantità correlate all’andamento prevedibile della domanda nonchè cadenze e prezzi di vendita (Sez. 5, n. 33993 del 05/07/2010 – dep. 21/09/2010, Cannavale e altri, Rv. 248421).

Nè si richiede che, per poter esser ritenuto ‘destinato a privata dimora’, il luogo dal quale siano sottratte le cose sia munito di particolari accorgimenti per impedire l’ingresso del pubblico, essendo sufficiente che si tratti di area distinta e appartata e come tale facilmente riconoscibile, o per la sua effettiva utilizzazione o per le modalità della sua sistemazione (per esempio l’arredamento) da cui sia desumibile lo scopo abitativo o comunque la destinazione a privata occupazione (cfr. Sez. 2, n. 23402 del 18/05/2005 – dep. 21/06/2005, Pangallo, Rv. 231885; Sez. 4, n. 40245 del 30/09/2008 – dep. 28/10/2008, P.M. in proc. Aljmi, Rv. 241331, che ha ritenuto privata dimora, ai fini del disposto dell’art. 624 bis c.p., la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo edificio sacro, ma alla stessa casa canonica; nonchè, Sez. 4, n. 20022 del 16/04/2008 – dep. 19/05/2008, Castri, Rv. 239980, che, parimenti, ha ritenuto corretta la qualificazione ex art. 624 bis c.p., del furto commesso all’interno di un palazzo di giustizia, in un locale adibito a spogliatoi degli avvocati: trattavasi, infatti, di luogo in cui gli avvocati si trattenevano, seppure soltanto temporaneamente, per compiere atti della propria vita quotidiana, e che non poteva definirsi come pubblico o aperto al pubblico per il solo fatto che fosse accessibile a più di un avvocato; sez. 5, n. 22725 del 05/05/2010 – dep. 14/06/2010, P.G. in proc. Dunca, Rv. 247969, che ha qualificato nei detti termini un locale destinato a ripostiglio posto all’interno di esercizio commerciale, ancorchè non munito di particolari accorgimenti per impedire l’ingresso del pubblico; Sez. 4, n. 37908 del 25/06/2009 – dep. 25/09/2009, Apprezzo, Rv. 244980, che ha ritenuto costituire privata dimora agli effetti della norma citata il locale di servizio posto nel retro di una farmacia, la cui porta era rimasta socchiusa, durante l’orario di apertura; Sez. 5, n. 4569 del 22/12/2010 – dep. 08/02/2011, Bifara, Rv. 249268, che ha ritenuto integrare il delitto di furto in abitazione la condotta di colui che commetta il furto all’interno di un campo di tennis inserito in un complesso alberghiero, considerato che esso costituisce pertinenza dell’albergo e luogo nel quale i soggetti che ivi si intrattengono, anche solo per svolgere attività ludica, pongono in essere atti relativi alla propria sfera privata).

Alla luce degli indici in abbondanza traibili dai citati precedenti, non può dubitarsi della correttezza della qualificazione giuridica nella specie operata dal giudice a quo, emergendo dalla ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza impugnata, sul punto non fatta segno di specifica censura, che: la merce sottratta si trovava in un armadio presente nel corridoio del terzo piano dell’albergo su cui si affacciavano esclusivamente l’appartamento privato del gestore e dei familiari, nonchè camere destinate non ai clienti ma al personale;

la destinazione ad uso privato di tale piano e delle sue pertinenze e l’impossibilità di accedervi da parte dei clienti dell’albergo erano segnalate dalla targa ‘privato’ apposta sulla porta di accesso alle scale ed emergevano altresì dal fatto che la salita al piano tramite ascensore richiedeva l’uso di apposita chiave.

Su quest’ultimo aspetto, in particolare, la contraria affermazione contenuta nel ricorso proposto in difesa del T. – secondo cui l’ascensore consentiva di accedere a tutti i piani dell’albergo, nessuno escluso – si appalesa generica e comunque priva del requisito di autosufficienza, non essendo indicato l’elemento di prova che a tale conclusione, diversa da quella esposta in sentenza, dovrebbe condurre in modo univoco; senza dire che, comunque, si tratterebbe di aspetto della vicenda non decisivo, restando anche in tal caso evidente, in ragione degli altri indicati elementi (presenza nel piano esclusivamente di camere e alloggi destinate ad uso privato del gestore e del personale, destinazione dell’armadio ad uso privato del gestore), che trattavasi di luogo e di pertinenza separate da quelle di uso pubblico.

Discende dalle superiori considerazioni il rigetto del ricorso proposto dal T., in quanto fondato soltanto sulla predetta infondata censura, conseguendone la condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali.

5. Quanto invece alla posizione del N. occorre procedere all’esame del secondo motivo dallo stesso proposto, con il quale, come detto, si deduce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla attribuitagli responsabilità penale a titolo di concorso nel reato.

Tale censura si rivela fondata.

Ed invero la sentenza impugnata non riesce a identificare con certezza e, comunque, in modo appropriato l’esistenza di un contributo causale attribuibile al prevenuto, gli elementi a tal fine evidenziati valendo solo a far emergere una condotta meramente passiva ascrivibile piuttosto a connivenza non punibile.

Com’è noto, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo – morale o materiale – alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito (Sez. 4, n. 4055 del 12/12/2013 – dep. 29/01/2014, Benocci, Rv. 258186; Sez. 6, n. 14606 del 18/02/2010, lemma, Rv. 247127) assicurando all’altro concorrente, anche implicitamente, una collaborazione sulla quale questi può contare (cfr. Sez. 6, n. n. 49764 del 11/11/2009, Hammani, non mass.).

Il concorso ex art. 110 c.p., esige, infatti, un contributo causale in termini, sia pur minimi, di facilitazione della condotta delittuosa, mentre la semplice conoscenza o anche l’adesione morale, l’assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta, non realizzano la fattispecie concorsuale (v. ex plurimis sez. 4, n. 3924 del 05/02/1998, Brescia, Rv 210638; Sez. 6, n. 9930 del 03/06/1994, Campostrini, Rv. 199162; Sez. 6, n. 11383 del 20/10/1994, Bonaffini, Rv. 199634; Sez. 5, n. 2 del 22/11/1994 – dep. 04/01/1995, Sbrana, Rv. 200310).

Nel caso di specie appaiono certamente espressive di un tale irrilevante contegno le sole circostanze oggettive segnalate nella sentenza impugnata, ossia: l’essere stato il N. ‘sicuramente in compagnia di T.L. fino al momento temporalmente antecedente alla sottrazione ed al momento immediatamente successivo’; l’essere i due imputati rientrati insieme verso le ore 3:40 e l’essersi quindi diretti, prima il N. e poi il T. (che si era fermato a parlare con il portiere) ai piani superiori;

l’essere stati sentiti entrambi, ancora alle ore 4:30, svegli e dialoganti; l’avere il N. ‘sicuramente visto il T. tentare di uscire e poi immediatamente rientrare in camera portando un borsone’, nel quale ‘erano già sicuramente contenute le giacche’;

‘la strettissima e sicura contiguità spaziale con la refurtiva e la sua presenza alle operazioni di occultamento della stessa’.

Non può certo dubitarsi che, come condivisibilmente osserva la Corte di merito, considerate le circostanze di tempo e di luogo nonchè le modalità del furto, il N. non potesse non esserne consapevole:

ciò, però, ancora null’altro descrive se non appunto un comportamento passivo, ancorchè perfettamente consapevole, integrante mera connivenza non punibile, non risultando spiegato – se non alla stregua di una mera valutazione apodittica -, nè comunque potendosi ragionevolmente intuire, il contributo che un tale contegno, sia pure nelle circostanze dette, abbia potuto offrire in modo apprezzabile alla condotta delittuosa, ancorchè solo sul piano morale ovvero del rafforzamento del proposito criminoso.

Si appalesa poi frutto di una mera congettura, come tale certamente inidonea a fondare il giudizio di condanna, l’affermazione – del resto meramente ipotetica – pure contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui ‘non avendo il furto avuto alcun testimone, ben potrebbe essere stato il medesimo N.L. l’autore dello stesso, eventualmente nell’intervallo temporale successivo alle 3:40, quando T.L. si è intrattenuto con il portiere, così tenendolo lontano dai piani superiori e distraendolo’.

6. Il vizio motivazionale che emerge dalle superiori considerazioni, risolvendosi nel difetto di un positivo e congruamente motivato accertamento di un contributo causale alla condotta criminosa del coimputato, evidenzia per converso l’assenza di un elemento costitutivo del reato in forma concorsuale ascritto in sentenza.

Risultando il fatto accertato in modo incontroverso in tutti i suoi aspetti rilevanti ai fini della decisione e non potendosi pertanto ragionevolmente ipotizzare margini per una sua diversa ricostruzione, la sentenza impugnata va pertanto annullata, ai sensi dell’art. 620 c.p.p., lett. l, senza rinvio, per non avere l’imputato commesso il fatto.

 P.Q.M.

 Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di N. L. per non avere, il medesimo, commesso il fatto.

Rigetta il ricorso di T.L. che condanna al pagamento delle spese processuali.

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