Suprema Corte di Cassazione
sezione V
sentenza 1 ottobre, n. 39805
In fatto e diritto
Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Appello di Ancona ha confermato la sentenza emessa in data 26 settembre 2011 dal Tribunale di Pesaro, appellata da V.P. dichiarato responsabile del delitto di lesioni gravi, commesso il 3 gennaio 2007, nel corso di una partita di allenamento della società calcistica “Pesaro calcio” quando avrebbe colpito volontariamente con una forte spallata il compagno di squadra T.M. procurandogli lussazione della clavicola sinistra con malattia ed incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni per un periodo superiore a 40 giorni.
Propone ricorso per cassazione il prevenuto articolato su quattro motivi.
Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione per il mancato riconoscimento della scriminante del c.d. rischio consentito.
Lo scontro fra i due sarebbe avvenuto quando la palla era ancora in gioco, non essendovi delimitazioni del campo di gioco e non avendo l’allenatore, che fungeva da arbitro, interrotto in qualche modo l’azione.
Il contrasto di spalla è previsto dalle regole del gioco e sarebbe avvenuto in una zona del campo che legittimamente poteva esser ancora ritenuta utilizzabile, mentre illogica sarebbe la motivazione della sentenza laddove aveva ritenuto che il contrasto fosse avvenuto fuori dal campo di gioco.
Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione per il mancato riconoscimento della citata scriminante, anche solo nella forma putativa, prospettazione di possibile erronea valutazione sulla quale la Corte di merito non avrebbe motivato.
Con il terzo motivo deduce violazione di legge e travisamento della prova in merito al ricorrere del contestato delitto di lesioni volontarie nei termini, di lesioni gravi, di cui alla contestazione, non risultando da concreti accertamenti medici la durata della malattia, dedotta unicamente dal periodo di assenza della persona offesa dal lavoro, mentre in sede di pronto soccorso al T. sarebbe stato solo consigliato di tenere un bendaggio rigido. Il ricorso non è fondato.
Osserva il Collegio innanzitutto che sulla ricostruzione del fatto non viene sviluppato un apposito motivo che ponga in discussione i criteri di valutazione del giudice d’appello, quanto alle dichiarazioni della persona offesa ed a quelle dei testi che fin dal giudice di primo grado erano stati ritenuti inattendibili.
La testimonianza del T. è stata considerata attendibile dai giudici del merito perché priva di contraddizioni e non evidenziante intenti ritorsivi.
Risulta dalle dichiarazioni della persona offesa, sul punto non espressamente contestate, che sulla rimessa del portiere (unico perché si trattava di partitella di allenamento ad una sola porta) lui ed il V. erano saltati per colpire la palla di testa, e che la stessa persona offesa era saltata a braccia larghe con atteggiamento di gioco non consentito e potenzialmente pericoloso per il contendente V.. La stessa persona offesa T. ha anche aggiunto che, nel momento in cui era stato colpito da tergo dal V., aveva sentito quello dirgli che così imparava a saltare in modo pericoloso.
Si tratta di accertamento del fatto sulla base di dichiarazioni provenienti da soggetto attendibile, che non ha avuto smentita alcuna e che fornisce la precisa misura della volontarietà del gesto di attacco all’incolumità della persona.
Le censure del ricorrente alla motivazione della sentenza si appuntano sulla posizione della palla nel campo, sul movimento che i due facevano dopo che il pallone, da loro non colpito di testa, si era fermato ad una certa distanza da dove si svolgevano le azioni di gioco, si sostiene fuori dell’area delimitata per lo svolgimento di quella partitella di fine allenamento. I giudici del merito avevano ritenuto chiare conferme di quelle della persona offesa le dichiarazioni del teste B., secondo cui il V., mentre T. stava andando nella direzione della palla sfuggita al loro controllo, aveva raggiunto di corsa l’altro colpendolo da tergo con una spallata tanto forte da far cadere a terra rovinosamente il malcapitato, che aveva subito lesioni ad una spalla.
Il ricorrente evidenzia quelle che sarebbero contraddizioni della testimonianza B. e ne riporta brani sostenendo che il teste avrebbe affermato che la vicenda si sarebbe consumata mentre i due si spintonavano reciprocamente in una vera e propria azione di gioco. Già la Corte d’Appello aveva considerato le censure del prevenuto basate sulle dichiarazioni del B. alle pagine 14, 17 e 20 delle trascrizioni e non le aveva valutate in contraddizione con quanto riferito a conferma delle dichiarazioni della persona offesa.
Rileva al proposito il Collegio che le censure in questione, che potrebbero sembrare una denuncia di travisamento del fatto, non sono ammissibili nel modo in cui sono state proposte in questa sede.
Va premesso che, pur affermando l’esistenza di un vizio di contraddizione della motivazione rispetto ai dati acquisiti e cioè di “travisamento della prova”, non v’è argomento del ricorrente che non si ponga invece come censura sul significato e sulla interpretazione di tali elementi. Mentre l’unico “travisamento” prospettabile in questa sede per effetto della novella che ha modificato l’art. 606, comma 1, lettera e), del codice, dovrebbe concernere il significante, non il significato. Il neointrodotto rapporto di contraddizione esterno al testo della sentenza impugnata per essere compatibile con il giudizio di legittimità non può difatti che essere inteso in senso stretto (classico) di rapporto di negazione sulle premesse, al giudizio di legittimità continuando ad essere estraneo ogni discorso meramente confutativo sul significato della prova e sulla sua capacità dimostrativa: ogni censura, cioè, con la quale si prospetti in via di mera contrapposizione dialettica l’esistenza di argomenti che attengono alla plausibilità della valutazione compiuta dai giudici del merito.
D’altra parte non c’è brandello di verbalizzazione (tali sono i passi riportati in ricorso assertivamente “travisati”), per quanto significativo, che possa essere “interpretato” fuori del contesto in cui è inserito, che questa Corte non conosce e non può valutare. E gli aspetti del giudizio interni all’ambito della discrezionalità nella valutazione degli elementi di prova e degli apprezzamenti del fatto, attengono interamente al “merito”, e non ai possibili vizi del percorso formativo del convincimento rilevanti in questa sede. Né questo può risolversi in una istanza di revisione delle valutazioni effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito, al quale non può imputarsi di aver omesso l’esplicita confutazione d’ogni tesi non accolta o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non significativi o già implicitamente apprezzati come inconferenti, quando le ragioni seguite emergano comunque compiutamente e il convincimento raggiunto risulti supportato da un esame logico e coerente di quelle tra le prospettazioni delle parti, le emergenze istruttorie, i possibili significati, che sono idonee e sufficienti a giustificarlo.
Rilevato che per le sentenze di merito adeguatamente e logicamente motivate l’intervento del V. era avvenuto da tergo mentre raggiungeva l’avversario con la poi manifestata intenzione di sanzionarlo per il precedente comportamento di gioco, perdono di significato decisivo tutte le argomentazioni svolte sulla posizione della palla e se la stessa fosse o meno in gioco. L’urto fra i due era avvenuto con la palla distante una decina di metri (accertamento non contestato, laddove nessuno ha sostenuto che si sarebbe trattato di uno scontro sul possesso palla) e non poteva esser qualificato, anche per le modalità del fatto come ricostruito dai giudici del merito, quale scontro di gioco, nell’ambito del quale può operare la invocata scriminante del rischio consentito.
Esce infatti da quell’area, né può esserne invocata la putatività, un’azione lesiva conseguente ad intervento da tergo, per sua natura realizzato in violazione delle regole del gioco e considerato passibile di ammonizione o addirittura espulsione, che, nel caso di specie, è per di più risultato consistere in una mera manifestazione di volontaria violenza ritorsiva. Le sentenze dei giudici del merito resistono quindi alle censure del ricorrente in quanto adeguatamente motivate sulla base di elementi di fatto correttamente valutati nel loro valore dimostrativo e correttamente inquadrati sotto l’aspetto giuridico.
Occorre rilevare al proposito che la giurisprudenza costante di questa Corte ha ritenuto che non è applicabile la cosiddetta scriminante del rischio consentito, qualora nel corso di un incontro di calcio, l’imputato colpisca l’avversario al di fuori di un’azione ordinaria di gioco, trattandosi di dolosa aggressione fisica per ragioni avulse dalla peculiare dinamica sportiva, considerato che nella disciplina calcistica l’azione di gioco è quella focalizzata dalla presenza del pallone ovvero da movimenti, anche senza palla, funzionali alle più efficaci strategie tattiche (blocco degli avversari, marcamenti, tagli in area ecc.) e non può ricomprendere indiscriminatamente tutto ciò che avvenga in campo, sia pure nei tempi di durata regolamentare dell’incontro (Sez. V, n. 42114 del 4/7/2011, Rv. 251703) e che imprescindibile presupposto della non punibilità della condotta riferibile ad attività agonistiche è che essa non travalichi il dovere di lealtà sportiva, il quale richiede il rispetto delle norme che regolamentano le singole discipline, di guisa che gli atleti non siano esposti ad un rischio superiore a quello consentito da quella determinata pratica ed accettato dal partecipante medio (Sez. V, n. 45210 del 21/9/2005, Rv. 232723) il quale si aspetta, in linea di massima, l’osservanza delle regole del gioco, delimitante l’area del rischio consentito, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all’elemento psicologico dell’agente il cui comportamento può essere – pur nel travalicamento di quelle regole – la colposa, involontaria evoluzione dell’azione fisica legittimamente esplicata (passibile di sanzioni previste dall’ordinamento sportivo, eseguite in campo o in seguito) o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l’avversario approfittando della circostanza del gioco. (Sez. V, n. 19473 del 20/1/2005, Rv. 231534) eventualmente per ritorsione (Sez. V, n. 8910 del 2/6/2000, Rv. 216716).
Manifestamente infondato il terzo motivo sulla durata della malattia. Si tratta di questione che dalla non contestata narrativa della sentenza impugnata concernente i motivi di appello, non risulta proposta con l’impugnazione di merito, né, involgendo la valutazione di accertamenti medici, può esser sottoposta al giudice di legittimità. Peraltro i giudici del merito hanno ritenuto accertata la durata della malattia ed incapacità ad attendere alle ordinarie occupazioni in base ad accertamenti medici diffusamente riportati nella sentenza del Tribunale dei quali solo in questa sede si censura la valutazione.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 24 giugno 2015.
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