La fattispecie di cui all’articolo 489 non richiede, per la propria integrazione, la idoneità concreta dell’atto a far conseguire un vantaggio, e neppure la finalità dell’agente di procurasi un vantaggio, atteso che una simile evenienza può rilevare esclusivamente a titolo di indizio della volontarietà o meno della condotta consistente nell’uso. Viceversa, la nozione di uso di atto falso comprende qualsiasi modo di avvalersi del falso documento per uno scopo conforme alla natura dell’atto, con la conseguenza che ad integrare il reato è sufficiente la semplice esibizione del documento falso, quale che sia il significato che il soggetto intenda attribuire all’atto in esso contenuto
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
SENTENZA 22 marzo 2017, n. 13925
Ritenuto in fatto
Propone ricorso per cassazione M.A. avverso la sentenza della Corte d’appello di Ancona in data 19 maggio 2015 con la quale, per quanto qui di interesse, è stata confermata quella di primo grado, di condanna, in esito al giudizio abbreviato, in ordine al reato di cui all’articolo 489-482 cp, così riqualificato l’originario capo di imputazione che invece vedeva contestato l’articolo 489 in relazione all’articolo 477 cp.
L’imputato è stato ritenuto responsabile di avere esposto, il 5 marzo 2010, sul parabrezza della autovettura che aveva in uso e che aveva parcheggiato in Ancona in area delimitata dalle strisce blu, un falso contrassegno per il parcheggio degli invalidi; successivi accertamenti consentivano di dimostrare che il genitore dell’imputato era titolare di altro contrassegno dello stesso genere.
Deduce:
1) il vizio della motivazione sull’elemento psicologico del reato.
Era stato dedotto con motivo d’appello che l’imputato non era consapevole della esistenza e della contraffazione di quel permesso, lasciato dal proprio genitore sul cruscotto della autovettura, qualche giorno prima, come del resto dichiarato dallo stesso genitore mediante missiva inviata agli ordini inquirenti.
Il giudice dell’appello non aveva adeguatamente motivato sul punto ed anzi aveva, del tutto illogicamente, riconosciuto che la contraffazione non era grossolana;
2) l’erronea applicazione dell’articolo 489 cp.
L’uso dell’atto falso acquisisce rilevanza penale se è giuridicamente efficace e rivolto al conseguimento di un vantaggio.
La difesa aveva invece dimostrato, nell’atto d’appello, che l’autovettura sulla quale il contrassegno in questione risultava esposto era stata parcheggiata negli spazi delimitati dalle strisce blu che sono soggetti a tariffa oraria, imposta anche per le vetture dei portatori di handicap.
Anche la giurisprudenza della Cassazione civ. (sent. n. 21271 del 2009) prevede l’esenzione del titolare del contrassegno in esame dalle limitazioni di parcheggio ma non dall’obbligo del pagamento della tariffa.
A tale puntuale rilievo la Corte d’appello non aveva replicato, insistendo invece sulla configurazione di un preteso vantaggio che l’imputato avrebbe inteso conseguire con la condotta in contestazione (esenzione dal termine massimo di sosta di 60 minuti) e soprattutto affermando erroneamente, nonostante la documentazione fotografica esibita dalla difesa in una memoria presentata in fase di merito, che con l’esposizione del contrassegno l’imputato mirava a rientrare nel novero dei soggetti autorizzati al parcheggio in deroga;
3) la erronea applicazione dell’articolo 188 cds con riferimento all’articolo 9 l. n. 689/1981.
Era stata illegittimamente respinta la tesi secondo cui, al più, la indebita esposizione del permesso degli invalidi dà luogo ad una sanzione amministrativa con la conseguenza che avrebbe dovuto essere fatta applicazione del principio di specialità che rende applicabile la sola azione amministrativa;
4) l’illegittimo diniego dell’ipotesi di cui all’articolo 131 bis c.p.
Considerato in diritto
Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Il primo motivo illustra censure sostanzialmente fattuali e mira ad una rivalutazione del risultato di prova da parte di questa Corte di legittimità la quale, invece, è deputata soltanto al controllo della completezza e dell’eventuale manifesta illogicità della motivazione esibita dal giudice di merito.
Nel caso di specie, costituisce motivazione del tutto logica quella in forza della quale la Corte d’appello ha ritenuto l’esposizione del falso permesso sul parabrezza dell’auto guidata dall’imputato, frutto di una condotta dolosa del medesimo e non, piuttosto, di iniziativa occasionale del padre.
È pervenuta a tale certezza attraverso un ragionamento razionale e non meritevole di censura, quale quello che ha valorizzato in primo luogo il carattere macroscopicamente inattendibile della missiva liberatoria del padre dell’imputato e delle circostanze in essa narrate; in secondo luogo il fatto che, in occasione del descritto parcheggio, non risultasse comunque pagata la tariffa dovuta e in terzo luogo che la verosimile finalità della condotta fosse da individuare nel tentativo di apparire, ad un controllo sommario, rientrante in una delle categorie esonerate da obblighi.
D’altra parte la accertata raffinatezza della falsificazione non costituisce attestazione incompatibile con la tesi dell’esposizione dolosa, posto che l’uso di un atto falso ben può essere preceduto dalla piena consapevolezza delle modalità di costituzione del falso stesso ad opera di terzi.
Il secondo motivo costituisce mera reiterazione di analoga censura sottoposta alla Corte d’appello e da questa affrontata con argomentazione logica alla quale il ricorso nulla aggiunge.
La fattispecie di cui all’articolo 489 non richiede, per la propria integrazione, la idoneità concreta dell’atto a far conseguire un vantaggio, e neppure – a differenza della configurazione dell’art. 485 cp – la finalità dell’agente di procurasi un vantaggio, atteso che una simile evenienza può rilevare esclusivamente a titolo di indizio della volontarietà o meno della condotta consistente nell’uso.
Viceversa, la nozione di uso di atto falso comprende qualsiasi modo di avvalersi del falso documento per uno scopo conforme alla natura dell’atto, con la conseguenza che ad integrare il reato è sufficiente la semplice esibizione del documento falso, quale che sia il significato che il soggetto intenda attribuire all’atto in esso contenuto (tra le molte, Sez. 5, Sentenza n. 4647 del 19/11/2013 Ud. (dep. 30/01/2014) Rv. 258717).
Risulta in conclusione del tutto irrilevante la doglianza della difesa con la quale si mira a sostenere che l’effetto giuridico dell’esposizione del falso contrassegno non poteva essere quello di apparire legittimato – l’imputato all’esenzione dal pagamento della tariffa di parcheggio, una volta che, viceversa, la consapevole e volontaria esposizione del detto documento sia stata ritenuta provata per le ragioni sopra esposte.
Manifestamente infondato è il motivo di ricorso con il quale si invoca l’attuazione del principio di specialità di cui all’art. 9 l. 689/1981. Ed infatti, fermo che per la giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, Sentenza n. 10391 del 07/02/2006 Ud. (dep. 24/03/2006) Rv. 233766; Sez. 5, Sentenza n. 27915 del 05/05/2009 Ud. (dep. 07/07/2009) Rv. 244205) integra il reato di uso di atto falso (art. 489 cod. pen.), la condotta del soggetto che espone sull’auto parcheggiata in zona contrassegnata dall’obbligo di pagamento della sosta o in zona a traffico limitato – la falsa copia del permesso di parcheggio per invalidi, va ribadito che la norma dell’art. 188 cds riguarda fattispecie completamente diversa e cioè l’utilizzo improprio della autorizzazione autentica rilasciata ad invalido per usufruire delle strutture appositamente create per agevolare la mobilità.
Infine il diniego della applicazione dell’art. 131 bis non è censurabile posto che l’accertamento di fatto sotteso a tale decisione costituisce materia devoluta al giudice del merito il cui verdetto è sottratto a censure di legittimità quando, come nella specie, sia conforme ai criteri posti dell’art. 133 comma 1, criteri tra i quali va annoverato quello della intensità del dolo, nella specie evocata con riferimento alla particolare callidità desunta non solo dal coinvolgimento del genitore ma anche dall’essere il prevenuto, soggetto del tutto avvertito della gravità della condotta tenuta, a causa della sua specifica professionalità.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento
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