Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 20 ottobre 2016, n. 44351

La possibilità che nel delitto tentato siano applicabili circostanze non compiutamente realizzate trova limite e condizione nella certezza che l’iter consumativo del reato avrebbe realizzato gli elementi integrativi delle circostanze.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

SENTENZA 20 ottobre 2016, n.44351

Ritenuto in fatto

Il 14/07/2015, la Corte di appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, confermava la sentenza emessa dal Tribunale di quest’ultima città, in data 13/01/2015, nei confronti di A.M., ritenuto responsabile del delitto di cui agli artt. 56, 582 e 583, commi 1 e 2, cod. pen., nonché della contravvenzione sanzionata dall’art. 4 della legge n. 110 del 1975. Secondo l’ipotesi accusatoria, il M. – oltre ad avere portato in luogo pubblico un coltello a serramanico, senza giustificato motivo – aveva tentato di cagionare ad una religiosa (Suor P.B.R.) gravi lesioni personali, avvicinandosi alla medesima con un accendino e dando fuoco al velo che ella portava sulle spalle: l’intento non era stato raggiunto a causa del pronto intervento di alcuni passanti, mentre la persona offesa non si era neppure accorta di quel che stava accadendo.

La Corte territoriale chiariva che, come ammesso dallo stesso imputato, egli aveva agito unitamente ad altri due giovani: il terzetto aveva prima preso di mira una ragazza (R.T.), che si era allontanata di corsa nascondendosi dietro un muro, e da lì la stessa T. aveva notato i tre seguire la suora; di lì a qualche attimo, ella aveva visto altri due uomini, uno impegnato ad assistere la religiosa, l’altro nel bloccare il ragazzo poi identificato nel M.. Nelle tasche dell’imputato erano stati rinvenuti un accendino, un contenitore di liquido infiammabile ed il coltello anzidetto.

Nel corso dei processo di primo grado era stata disposta una perizia per l’accertamento della capacità di intendere e di volere del M., da cui era emersa la sua semi-infermità. Quanto alla ravvisabilità del delitto, nella contestata forma circostanziata, i giudici di appello disattendevano i motivi di gravame presentati nell’interesse dell’imputato, facendo presente (anche attraverso richiami alla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte) che il comportamento dei giovane, certamente intenzionale, avrebbe potuto provocare «per l’anziana suora effetti financo letali, se – per cause indipendenti dalla sua volontà – il velo non si fosse (miracolosamente) spento, ed il fuoco avesse interessato il volto, i capelli, il vestito della vittima». Ad avviso della Corte territoriale, «la natura esclusivamente dolosa dei delitto tentato comporta che determinate circostanze (aggravanti o attenuanti) ben possono essere presenti nel momento ideativo e volitivo dei delitto, come modalità e/o finalità da compiere», anche se «deve trattarsi di circostanze riconoscibili in quel frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto in essere»; nel contempo, l’ipotesi che il velo si fosse spento da sé, piuttosto che per il provvidenziale soccorso immediatamente prestato alla vittima, appariva non dimostrata, risultando anzi «probabile che proprio grazie all’intervento dei passanti fosse stato evitato il verificarsi di un evento con gravissime conseguenze per la persona di Suor P.».

Propone ricorso per cassazione il Procuratore generale territoriale.

2.1 Con un primo motivo, il P.M. lamenta erronea applicazione della legge penale, segnalando che l’esame degli atti «non consente di ritenere univocamente provata l’idoneità della condotta posta in essere dal M. a ledere l’integrità fisica della nominata religiosa […], e non consente neppure di valutare quali conseguenze dannose – anche di ordine patrimoniale – la p.o. abbia riportato in conseguenza dell’azione concretamente realizzata». Nell’atto di impugnazione si richiama il contenuto delle deposizioni di alcuni testimoni, tra cui la T. (che dichiarò di non essersi avveduta dell’incendio dei velo, venendone informata solo più tardi), i soccorritori della suora (che non dissero di essersi trattenuti per spegnere il fuoco, sì da far ritenere che le fiamme si estinsero da sé, pur deteriorando in parte il velo indossato dalla persona offesa), gli agenti intervenuti (che non ebbero modo di assistere alla realizzazione della condotta, limitandosi a perquisire l’imputato) e della stessa Suor P.B.R. (la quale segnalò di non essersi resa conto di nulla, constatando la bruciatura del velo solo perché le venne mostrato).

Ne deriva, ad avviso dei P.M., che la condotta posta in essere dal giovane «non poteva determinare l’incendio dei velo, e conseguentemente non poteva produrre nella p.o. – come di fatto non ha prodotto – alcuna seppure minima lesione. In ogni caso, la rilevata insufficienza del quadro probatorio «non consente di ritenere univocamente (ed adeguatamente) dimostrato che il M. – anche in conseguenza della patologia neuropsichica da cui era (ed è tuttora) affetto – si sia rappresentato chiaramente che l’azione da lui realizzata avrebbe potuto, se il mezzo usato fosse stato idoneo, ledere l’integrità fisica della p.o.». A riguardo, il ricorrente richiama plurimi riferimenti giurisprudenziali sulla necessità di pronunciare condanna soltanto oltre ogni dubbio ragionevole.

2.2 II P.M. deduce altresì violazione di legge penale in punto di negata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., ribadendo gli argomenti già esposti circa la mancata produzione od apprezzabilità in concreto di un danno in pregiudizio della persona offesa. La causa di esclusione della punibilità introdotta con il d.lgs. n. 28 dei 2015 avrebbe dovuto senz’altro riconoscersi nel caso in esame, non ostandovi i limiti edittali previsti per il reato in rubrica e considerando la personalità del M. (incensurato ed affetto da un grave disturbo neurocognitivo).

2.3 Con gli ultimi due motivi, il ricorrente censura la sentenza impugnata perché caratterizzata da una evidente sotto-valutazione del quadro clinico rilevabile nella persona dell’imputato, e comunque per vizio di motivazione, nella parte in cui la Corte sassarese non risulta essersi pronunciata sulla richiesta dello stesso P.g. territoriale di dare corso ad una nuova indagine peritale sulla capacità di intendere e di volere dei M. all’epoca dei fatti.

In data 16/06/2016, è pervenuta una memoria curata dal difensore di ufficio dell’imputato, con la quale vengono fatte proprie le ragioni di doglianza esposte dal Pubblico Ministero.

Considerato in diritto

II ricorso è in parte fondato.

Contrariamente a quanto si sostiene nell’atto di impugnazione, deve ritenersi che la condotta posta in essere dal M. fu idonea ed univocamente diretta a cagionare lesioni alla persona offesa, visto che egli non si limitò ad avvicinare un accendino al velo della religiosa (con la conseguente, concreta incertezza circa la possibilità che il velo medesimo venisse interessato dal fuoco): egli si avvalse anche di liquido infiammabile, contenuto in una pur piccola confezione per la ricarica di accendisigari (i giudici di merito chiariscono che quell’involucro, recante marca ‘Zippo’, era stato visto dalla T. in mano all’imputato, ma da lei scambiato per una pistola).

Lo stesso rilievo impone di escludere che nella fattispecie concreta possano ravvisarsi gli estremi di un fatto di particolare tenuità: sia il Tribunale che la Corte territoriale, dei resto, pongono l’accento sulla non modesta offensività dei comportamento descritto in rubrica, non foss’altro ìn considerazione dell’insidiosità dei gesto e delle minorate capacità di difesa di Suor P.B.R. a causa della sua età avanzata.

Non si vede, inoltre, quale profilo di censura possa muoversi alla decisione della Corte sassarese di non dare corso ad un ulteriore accertamento peritale sull’imputabilità dei M.: la completezza della prima indagine, su cui le parti in contraddittorio e la stessa decisione di primo grado si erano lungamente soffermate, esimeva ex se i giudici di appello da un obbligo di compiuta disamina della rinnovata istanza formulata in tal senso dal Pubblico Ministero.

Deve invece convenirsi con l’ufficio ricorrente in ordine alla contestata configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 583 cod. pen.: circostanza da intendersi relativa alla ipotesi prevista dal comma 1 (malgrado l’espresso riferimento, nella parte iniziale della rubrica, anche al comma 2), stante il successivo richiamo alla ‘altissima probabilità’ che le fiamme avrebbero causato una lesione grave – non già gravissima – alla persona offesa. A riguardo, infatti, è necessario rilevare che dal precedente giurisprudenziale delle Sezioni Unite di questa Corte, richiamato nella sentenza impugnata, sembrano potersi ricavare indicazioni di contrario tenore rispetto a quanto ritenuto dai giudici di merito.

Il massimo organo di nomofilachia insegna, come si desume dalla massima ufficiale della pronuncia in questione, che «nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune dei danno di speciale tenuità è applicabile anche al delitto tentato, quando sia possibile desumere con certezza dalle modalità dei fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico che, se il reato fosse stato portato a compimento, il danno patrimoniale per la persona offesa sarebbe stato di rilevanza minima» (Cass., Sez. U, n. 28243 del 28/06/2013, Zonni Sanfilippo, Rv 255528). Al di là dell’osservazione che quella fattispecie riguardava un’attenuante (identico approccio logico sarebbe stato necessario assumere dinanzi ad una ipotizzata aggravante ex art. 61 n. 7 cod. pen.), il parametro da tenere presente è costituito dal giudizio di certezza sulla base del quale valutare l’entità del danno: ergo, una volta assodato che un furto non perfezionatosi poteva avere per oggetto solo un bene di valore irrisorio, o – per converso – assai rilevante, le corrispondenti circostanze comuni saranno certamente applicabili.

Non altrettanto è a dirsi, però, nei casi in cui il range delle possibilità rimanga comunque incerto, e pertanto – venendo al concreto – l’evenienza di un danno molto ingente o di una lesione grave venga a costituire, al massimo, una prospettiva meramente accettata dall’agente. La giurisprudenza di legittimità afferma da tempo, del resto, che «la possibilità che nel delitto tentato siano applicabili circostanze non compiutamente realizzate trova limite e condizione nella certezza che l’iter consumativo del reato avrebbe realizzato gli elementi integrativi delle circostanze» (Cass., Sez. I, n. 5717/1988 del 16/12/1987, Nugnes, Rv 177420, relativa ad un caso di tentate lesioni, con esclusione dell’aggravante costituita dallo sfregio permanente del viso). Ed è stato recentemente ribadito che «è configurabile la figura dei delitto circostanziato tentato anche alle ipotesi aggravate in cui la circostanza non si sia interamente realizzata solo per fattori estranei alla volontà dell’agente, ma risulti dalle modalità del fatto che si sarebbe realizzata nel più grave esito preordinato» (Cass., Sez. V, n. 6460/2016 del 14/10/2015, A., Rv 266418; la fattispecie riguardava l’aggressione portata da un uomo alla propria moglie, con la contestuale pronuncia della frase ‘ti rovino la faccia così non ti guarda più nessuno’): vale a dire, ancora una volta, che quel più grave esito era certamente voluto e perseguito dal soggetto attivo, non essendone sufficiente la semplice previsione ed accettazione come conseguenza eventuale.

D’altro canto, che una suora riporti lesioni gravi una volta appiccato il fuoco al velo che indossa, è un risultato verosimile ma non indefettibile, né – sul piano logico – connotato da un grado di probabilità alto o addirittura altissimo: tant’è che sono gli stessi giudici di merito a ritenere solo ‘assai probabile’, e non invece dimostrato senza possibilità di dubbio, che le fiamme vennero estinte dai soccorritori della religiosa (i quali, come correttamente sottolineato dal P.M. ricorrente, non dichiararono neppure di essere stati impegnati in una più o meno prolungata azione di spegnimento).

In conclusione, visto che la condotta del M. fu concretamente idonea a cagionare lesioni, ma realizzata in modo tale da poter produrre conseguenze di incerta gravità, il dubbio non può che risolversi ispirandosi ai canoni del favor rei, con la doverosa necessità di ritenere che l’imputato si rese responsabile di un tentativo di lesioni lievi. Il fatto, a fronte della querela comunque sporta dalla persona offesa, rimane penalmente rilevante, ma – essendo sanzionabile secondo la disciplina prevista per i reati di competenza del Giudice di pace, e risultando superfluo un annullamento con rinvio, in base al disposto di cui all’art. 620, lett. I), cod. proc. pen. – alla determinazione dei trattamento sanzionatorio può procedere direttamente questa Corte, nei termini indicati in dispositivo.

L’annullamento della sentenza impugnata deve intendersi pronunciato in relazione alla contestata aggravante ed alla misura della pena, con riferimento al delitto di cui alla rubrica; non investe invece la condanna disposta dai giudici di merito quanto al reato contravvenzionale, che non risulta oggetto di motivi di ricorso.

P.Q.M.

Esclusa l’aggravante contestata, annulla senza rinvio la sentenza impugnata e determina in euro 300,00 di multa la pena irrogata per il delitto di tentate lesioni personali.

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