Corte di Cassazione – Sezione tributaria – sentenza 17 giugno 2011, n. 13327. Le spese di riordino e ristrutturazione dell’immobile locato, in cui è svolta attività d’impresa, sono detraibili dal conduttore che le ha sostenute

 

Il testo integrale

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Sentenza 17 giugno 2011, n. 13327


Svolgimento del processo

1. La Z. G. e O. s.n.c., esercente attività di commercio al dettaglio di capi di abbigliamento, cessata nel 2006, ed i soci Z.G., B.G., Z.F. e Z.O. propongono ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto indicata in epigrafe, con la quale è stato parzialmente accolto l’appello dell’Ufficio in relazione all’avviso di accertamento notificato alla società, ai fini IVA ed 1RAP, ed ai soci, ai fini 1RPEF, per l’anno 1998.

In particolare, il giudice d’appello, da un lato, ha determinato i ricavi della società in L. 1.071.000.000, rispetto ad un dichiarato di circa L. 949.500.000, e, dall’altro, ha ritenuto infondata la ripresa dell’Ufficio in ordine alle spese, sostenute dalla società e portate in deduzione, per la ristrutturazione dell’immobile, condotto in locazione, in cui svolgeva l’attività. 2. Il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate resistono con controricorso e propongono anche ricorso incidentale basato su un unico motivo.

3. I contribuenti ricorrenti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

1.1 ricorsi vanno preliminarmente riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. Con il primo motivo del ricorso principale, è denunciata la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 42, D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51 e 56, L. n. 241 del 1990, art. 3, e L. n. 212 del 2000, art. 7.

I ricorrenti lamentano che il giudice d’appello, ai fini della valutazione della percentuale di ricarico applicata dall’Ufficio, ha tenuto conto dell’esito di un’attività istruttoria espletata da quest’ultimo nel corso del giudizio di primo grado, attraverso la notifica alla società di un secondo questionario (oltre a quello già inviato prima della notifica dell’avviso di accertamento), in violazione del principio in virtù del quale l’amministrazione non potrebbe più esercitare i propri poteri istruttori, ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova in sede contenziosa, dopo l’emissione dell’atto impositivo e nel corso del giudizio.

Con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano nuovamente la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, sotto il profilo della illegittima integrazione, in grado di appello, sempre in merito alla quantificazione della percentuale di ricarico, della motivazione dell’avviso di accertamento.

I due motivi, che vanno esaminati congiuntamente in ragione della loro stretta connessione, si rivelano inammissibili per difetto di autosufficienza.

Non è, infatti, dimostrato nel ricorso, attraverso la riproduzione del contenuto degli atti richiamati (nè risulta alcunchè dalla sentenza impugnata), che la documentazione acquisita dall’Ufficio mediante il secondo questionario contenesse effettivamente elementi nuovi e diversi rispetto a quelli già raccolti in precedenza, e tali da rivestire efficacia decisiva ai fini dell’iter logico della pronuncia impugnata.

3. Con il terzo ed il quarto motivo, i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. (anche in combinato disposto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), deducendo che il giudice d’appello ha ritenuto corretto l’avviso di accertamento, pur essendo questo basato unicamente sulla circostanza che il reddito dichiarato era inferiore alla media del settore di riferimento: lamentano che in tal modo è stato violato il divieto di praesumptio de praesumpto e il principio secondo cui le medie di settore non possono, di per sè sole, costituire presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.

I motivi, da esaminare anch’essi congiuntamente, sono chiaramente infondati, poichè la circostanza che l’accertamento fosse basato esclusivamente sullo scostamento del reddito dichiarato dalla media di settore è smentita dalla sentenza impugnata, nella quale si legge che “la ragione dell’accertamento induttivo conseguiva dal contrasto emergente tra le scritture contabili, le risposte ai questionari inviati alla parte e l’incongruenza rispetto ai ricavi medi delle imprese del settore”, e che, anzi, “l’aspetto più rilevante è rappresentato dalla risposta fornita dalla società al questionario”. 4. Infine, con il quinto motivo, viene denunciato il vizio di motivazione della sentenza, dalla quale non risulterebbe sufficientemente rappresentato il procedimento logico seguito dal giudice nel pervenire sia alla determinazione della percentuale di ricarico nella misura del 180 per cento (sulla base di quella indicata dall’Ufficio nella misura del 199 per cento), sia all’accertamento dei ricavi conseguiti dalla contribuente dalla svendita di liquidazione del magazzino.

Il motivo è inammissibile.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (ex plunmis, da ult. Cass. nn. 27162 del 2009, 6288 del 2011).

Nella specie, si è in presenza di un’ampia ed articolata motivazione fornita dalla Commissione tributaria regionale – in cui si espone, senza incorrere in evidenti vizi logici, l’iter argomentativo in base al quale il giudice è pervenuto alla formazione del proprio convincimento (sotto entrambi i profili sopra indicati) -, a fronte della quale i ricorrenti pretendono, in definitiva, un non consentito riesame del merito.

5. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, l’Amministrazione, denunciando violazione dell’art. 109 del nuovo TUIR e artt. 1576, 1609 e 1621 c.c., censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice a quo ha ritenuto detraibili i costi sostenuti dalla società contribuente per la ristrutturazione dell’immobile in cui era svolta l’attività d’impresa, posseduto in locazione, osservando in contrario che, secondo la citata disciplina civilistica, le spese di manutenzione straordinaria sono poste a carico del locatore (e ciò sarebbe stato confermato anche nel contratto di locazione), che resta il beneficiario delle opere eseguite.

Il motivo è infondato.

Premesso che nella sentenza è accertato in fatto che le spese di cui trattasi sono state sostenute “per il riordino e la ristrutturazione del locale” e che esse erano “certamente collegabili allo svolgimento dell’attività imprenditoriale”, deve ritenersi che la deducibilità di detti costi non possa essere subordinata al diritto di proprietà dell’immobile, essendo sufficiente che gli stessi siano sostenuti nell’esercizio dell’impresa, al fine della realizzazione del miglior esercizio dell’attività imprenditoriale e dell’aumento della redditività della stessa, e che, ovviamente, risultino dalla documentazione contabile (cfr., in casi analoghi concernenti la detraibilità dell’IVA, Cass. nn. 10079 del 2009 e 3544 del 2010).

Ciò che rileva, in definitiva, è la strumentalità dell’immobile, sul quale vengono eseguiti i lavori di ristrutturazione o miglioramento, all’attività dell’impresa, a prescindere dalla proprietà del bene da parte del soggetto che esegue i lavori, restando, quindi, irrilevante, di per sè, la disciplina civilistica in tema di locazione e gli stessi accordi contrattuali intercorsi tra le parti (fermo rimanendo ovviamente la configurabilità di fattispecie fraudolente – e cioè in definitiva di ipotesi di fittizietà dei costi -, che l’Amministrazione non ha, nel caso in esame, contestato, salvo farne un generico accenno solo in questa sede; peraltro, va in aggiunta rilevato che il giudice d’appello, in ordine alla tesi dell’Ufficio secondo cui le spese erano state contrattualmente poste a carico del proprietario, ha affermato, senza che ciò sia stato oggetto di censura, che essa era basata su “una interpretazione del contratto di locazione discutibile”).

6. In conclusione, entrambi i ricorsi vanno rigettati.

7. In considerazione della reciproca soccombenza, va disposta la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese.

 

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