Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione tributaria

ordinanza 8 maggio 2014, n. 10041

Fatto e diritto

L’Agenzia delle Entrate di Firenze ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, avverso la sentenza n. 112/67/13 depositata il 4 Marzo 2013, con la quale la CTR della Lombardia -Sez.Brescia- ha rigettato l’appello proposto dalla stessa contro la sentenza della CTP di Bergamo che aveva annullato l’avviso di accertamento relativo alla ripresa a tassazione di IRES, IVA e IRAP per l’anno 2007 nei confronti della Investimenti A. s.r.l. sulla base di una ritenuta antieconomicità di operazioni commerciali che avevano determinato l’accertamento di un maggior reddito in ragione di vendite immobiliari sottocosto e, per altro verso, per redditi non dichiarati in ragione della cessione di un credito di euro 150.000,00 per il corrispettivo di soli euro 30.000,00.
Secondo il giudice di appello la cessione del credito al valore di corrispettivo concordato era insindacabile, una volta acclarato che non si trattava di atti fittizi o simulati, mentre rispetto alle vendite di immobili, dalle quali era emersa “una verifica francamente anomala del margine economico”, l’Agenzia non era riuscita ad assolvere l’onere sulla stessa ricadente, avendo fatto riferimento a criteri incomprensibili e non agganciati ad alcun dato normativo.
La società contribuente ha chiesto il rigetto del ricorso, rilevando l’inammissibilità della censura concernente il merito e comunque l’infondatezza della censura, non avendo l’Agenzia assolto all’onere sulla stessa incombente di dimostrare l’antieconomicità delle operazioni commerciali e la loro piena congruità anche dal punto di vista economico.
La proposta censura, con la quale si prospetta il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art.39 comma 1 dpr n.600/73 e dell’art.2697 c.c., in relazione all’art.360 comma 1 n.3 c.p.c., è infondata.
Torna all’attenzione di questa Corte la questione concernente la legittimità dell’operato dell’amministrazione finanziaria che provvede alla rettifica delle dichiarazioni dei contribuenti considerando antieconomiche determinate scelte imprenditoriali, in base al principio secondo cui, chiunque svolga un’attività economica dovrebbe, secondo l’id quod plerumque accidit, indirizzare le proprie condotte verso una riduzione dei costi ed una massimizzazione dei profitti, in tal modo valutando negativamente le condotte improntate all’eccessività di componenti negativi o all’immotivata compressione di componenti positivi di reddito.
In questa direzione questa Corte, con precipuo riferimento alle imposte sui redditi, ha reiteratamente riconosciuto che rientra nei poteri dell’amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e la rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio d’impresa, con negazione della deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa-cfr. Cass. n. 12813/2000(con riferimento all’ILOR);Cass. n. 9497/2008 e Cass. n. 3243/2013, Cass.n. 1711/2007 (con riferimento all’IRPEG); Cass. n. 7487/2002; Cass. n. 10802/2002; Cass. n. 5463/2003; Cass. n. 398/2003; Cass. n. 19150/2003.V anche Cass. nn. 1821/2001, 6337/2002, 793/2004-
Alla base di questo indirizzo vi è il convincimento che in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, rimasto inspiegato da parte del contribuente, è pienamente legittimo l’accertamento ai sensi dell’articolo 39, comma primo lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973. Ragion per cui il giudice di merito che giunga a ritenere illegittimo l’accertamento è tenuto a specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie -Cass. n. 1821/2001-.
Peraltro, questa stessa Corte, chiamata a verificare la possibilità ed eventualmente i limiti entro i quali è possibile estendere i principi giurisprudenziali testé affermati al tributo IVA, ha affermato che in caso di contestazione di operazioni antieconomiche, l’amministrazione non può rettificare l’Iva detratta sugli acquisti, a meno che si tratti di operazioni inesistenti, di sovrafatturazioni o di un più ampio contesto di abuso del diritto. Ciò perché la regola sull’antieconomicità è propria dell’imposizione diretta e può estendersi anche all’Iva solo nell’osservanza di tutti i principi enunciati in materia dalla Corte di Giustizia, a tenore dei quali, in via generale, non è consentita alcuna limitazione al diritto di detrazione-Cass.n.22130/2013.
Orbene, nel caso di specie, le censure che svolge l’Agenzia ricorrente non si rivolgono alla questione del credito ceduto per un corrispettivo di oltre quattro volte inferiore all’importo del credito stesso, rispetto al quale la ricorrente, come ha rammentato la parte controricorrente in memoria, ha specificamente prestato acquiescenza-v.pag.6 ricorso
Immune dal vizio prospettato appare la decisione impugnata con riguardo alla sottofatturazione delle unità immobiliari, rispetto alle quali la CTR ha dato atto che le valutazioni fuori mercato correlate ai margini dichiarati dalla società ” l’Agenzia non è riuscita ad adempiere a quello che sarebbe stato comunque suo onere probatorio, ed anzi il riferimento al costo di costruzione, e alla rendita catastale(pagina 9 pvc) risulta francamente incomprensibile e comunque non agganciato a nessun dato normativo”.
Ora, la censura sul punto esposta dalla ricorrente riguarda le valutazioni espresse dalla CTR a sostegno della ritenuta mancata dimostrazione, da parte dell’Agenzia, dell’antieconomicità.
Si tratta, a ben vedere, di vizio che riguarda la motivazione della decisione che avrebbe potuto attivare il controllo di logicità della sentenza solo se fosse stata prospettata la censura di cui al n.5 dell’art.360 comma 1 c.p.c. che, per contro, non risulta contestato.
Sulla base di tali considerazioni e condivisa nei limiti sopra riportati la relazione depositata, il ricorso va rigettato, con la condanna dell’Agenzia ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo in favore della controricorrente.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese processuali che liquida in favore della controricorrente in euro 6000,00 per compensi, oltre euro 100,00 per esborsi ed oltre accessori come per legge.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento a carico della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale ai sensi dell’art. 13 comma 1 bis dPR n. 115/2002.

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