La revocazione di una sentenza della Corte di Cassazione può essere domandata solo ove sia dedotto che la decisione sia frutto di un errore di fatto, che dia luogo ad un indiscutibile contrasto tra quanto in essa rappresentato e le oggettive risultanze degli atti processuali

Corte di Cassazione, sezione sesta civile, sentenza 3 maggio 2018, n. 10469.

La revocazione di una sentenza della Corte di Cassazione può essere domandata solo ove sia dedotto che la decisione sia frutto di un errore di fatto, che dia luogo ad un indiscutibile contrasto tra quanto in essa rappresentato e le oggettive risultanze degli atti processuali, sicchè, tale impugnazione non è ammissibile qualora, per dimostrare detto errore, sia necessario produrre documenti nuovi, non depositati nelle precedenti fasi di giudizio e non richiamati, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, con l’originario ricorso per cassazione.

Sentenza 3 maggio 2018, n. 10469 

REPUBBLICA ITALIANA 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 

SEZIONE SESTA CIVILE 

SOTTOSEZIONE 3 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente – 

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere – 

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere – 

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere – 

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere – 

ha pronunciato la seguente: 

ORDINANZA 

sul ricorso 25805/2016 proposto da: 

L.J., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE CIRCONVALLAZIONE TRIONFALE n. 1/A, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO GIANGIACOMO, rappresentato e difeso da se medesimo; 

– ricorrente – 

contro 

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis; 

– controricorrente – 

avverso la sentenza n. 19384/2016 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, depositata il 30/09/2016; 

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12/10/2017 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione 

Rilevato che: 

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 20 settembre 2013 n. 4913, dichiarava l’inammissibilità dell’appello proposto tardivamente ex art. 333 c.p.c., dell’avvocato L.J.. Accoglieva, invece, parzialmente l’appello principale, proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, riformando la decisione di prime cure che aveva accertato la responsabilità dello Stato Italiano per il danno cagionato al predetto avvocato, di nazionalità tedesca, consistito nell’avere impedito al professionista di svolgere la professione forense in Italia, rifiutando la sua iscrizione all’albo professionale e subordinandola all’espletamento di una prova attitudinale, in violazione della direttiva 89/48/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988 (relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che prevedano formazioni professionali di una durata minima di tre anni). In accoglimento del gravame riduceva l’ammontare del danno risarcibile al solo danno patrimoniale per mancato esercizio della professione, nel quinquennio 1994-1999, liquidato in complessivi Euro 75.000,00 in base al fatturato medio rilevato dal CTU nel periodo lavorativo 1999-2004, decurtato dei costi forfettariamente determinati, ed attualizzato al tempo della pronuncia. La Corte territoriale non riconosceva, invece, il danno non patrimoniale (inteso come danno alla reputazione) per difetto del nesso causale, dovendo imputarsi allo stesso avvocato la violazione delle norme sul divieto di esercizio della professione, al tempo vigenti, che aveva dato luogo a procedimenti penali e disciplinari. Accoglieva la domanda della Presidenza del Consiglio di condanna del danneggiato alla restituzione del maggior importo corrisposto, a titolo risarcitorio, in esecuzione della sentenza di primo grado, compensando per metà le spese del grado; 

proponeva ricorso per la cassazione avverso la predetta sentenza L.J.. La Presidenza del Consiglio presentava ricorso incidentale. La Corte di Cassazione con sentenza n. 19384 del 30 settembre 2016 rigettava il ricorso principale e quello incidentale; 

propone ricorso in revocazione ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c., L.J. ritenendo la sentenza che affetta da errore di fatto ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4. Resiste in giudizio in Presidenza del Consiglio dei Ministri con controricorso. Parte ricorrente deposita memoria ex art. 380 bis c.p.c., e istanza ex art. 376 c.p.c., di rimessione della controversia alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione; 

Considerato che: 

con il primo motivo il ricorrente deduce l’errore di fatto in cui sarebbe incorsa la Suprema Corte nell’affermare che il ricorrente non aveva espletato gli specifici rimedi apprestati dall’ordinamento processuale per eliminare le norme statali contrarie all’ordinamento comunitario. Al contrario, lo stesso, nei procedimenti amministrativi, disciplinari e penali nei quali si contestava la legittimità dell’attività professionale forense, aveva richiamato costantemente il rispetto delle norme comunitarie, presentando domanda pregiudiziali ignorate o respinte, aveva anche richiesto alla Commissione Europea di aprire una procedura di infrazione ai sensi dell’art. 169 TUE. Tale richiesta non era stata esaminata dalla Corte di Cassazione. Ha formulato una richiesta al Ministro della Giustizia di modifica della legge n. 31 del 8 febbraio 1982. Altra richiesta di rinvio alla Corte di Giustizia Europea era menzionata nel testo della sentenza del Consiglio Nazionale Forense del 17 dicembre 2009. Si tratta di atti contenuti nei fascicoli dell’attore, relativi ai diversi giudizi di merito affrontati dal ricorrente; 

Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza poichè parte ricorrente avrebbe dovuto allegare non solo l’esistenza di tali atti nei fascicoli relativi ai precedenti giudizi, ma che tali atti erano stati riprodotti indirettamente o comunque allegati ed esattamente individuati nel ricorso per Cassazione proposto avverso la sentenza del 20 settembre 2013 della Corte d’Appello di Roma. Infatti, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, la parte è tenuta oltre a richiamare gli atti e i documenti del giudizio di merito, anche a riprodurli nel ricorso e ad indicare in quale sede processuale fossero stati prodotti (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16134 del 30/07/2015, Rv. 636483 – 01). 

Ciò in quanto la revocazione di una sentenza della Corte di Cassazione può essere domandata solo ove sia dedotto che la decisione sia frutto di un errore di fatto, che dia luogo ad un indiscutibile contrasto tra quanto in essa rappresentato e le oggettive risultanze degli atti processuali, sicchè, tale impugnazione non è ammissibile qualora, per dimostrare detto errore, sia necessario produrre documenti nuovi, non depositati nelle precedenti fasi di giudizio e non richiamati, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, con l’originario ricorso per cassazione (Sez. 2 -, Ordinanza n. 14002 del 06/06/2017, Rv. 644473 – 01); 

Il motivo è, altresì, inammissibile perchè l’azione proposta presuppone l’errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale. Orbene, nel caso di specie, l’assunto del ricorrente coinvolge profili valutativi e presuppone che “l’omesso ricorso da parte del legale allo specifico rimedio prestato dall’ordinamento processuale per eliminare le predette norme statali dall’ordinamento interno” si riferisca alla presentazione di domande pregiudiziali “ottusamente ignorate o respinte” dagli organi giurisdizionali o amministrativi, alla richiesta di aprire una procedura di infrazione, alla richiesta rivolta al Ministro della Giustizia di modifica della legge n. 31 del 9 febbraio 1982 e di rinvio alla Corte di Giustizia europea. Profilo questo che non è dimostrato e neppure allegato dal ricorrente; 

infine, la circostanza che un certo fatto e (le istanze sopra descritte) non sia stato considerato dal giudice, non implica necessariamente che quel fatto sia stato espressamente negato nella sua materiale esistenza (potendo, invece, esserne stata implicitamente negata la rilevanza giuridica ai fini del giudizio), perchè, altrimenti, si ricondurrebbe all’ambito del giudizio per revocazione, piuttosto che nell’ordinario giudizio di impugnazione, ogni fatto che non sia stato espressamente considerato nella motivazione giudiziale (Sez. 1, Sentenza n. 3200 del 07/02/2017, n. 643866 – 01); 

ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; 

le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, riguardo al pagamento del doppio contributo.
P.Q.M. 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. 

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. 

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta della Corte Suprema di Cassazione, il 12 ottobre 2017. 

Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2018

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