Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 1 dicembre 2017, n. 54330. La circostanza che il giudice si dichiari incompetente non impedisce la successiva ed autonoma adozione di un provvedimento cautelare da parte del giudice competente

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Mentre nei primi due casi, evidentemente, si tende a sanzionare con l’inefficacia del provvedimento cautelare i casi di ritardi e/o omissioni, in riferimento allo svolgimento di determinate attivita’ giurisdizionali, che devono essere svolte entro termini considerati essenziali a causa della contemporanea limitazione e compressione dei diritti di liberta’ personali che, come tali, non possono essere giustificate oltre un determinato arco temporale valutato dal legislatore, nel terzo caso il presupposto e’ solo l’adozione del provvedimento da parte del giudice incompetente.

In quest’ultimo caso, quindi, non si e’ verificato alcun travalicamento di termini inerenti lo svolgimento di attivita’ giurisdizionali – che devono intervenire nel rispetto del principio della ragionevole limitazione della compressione delle liberta’ individuali – bensi’ ci si trova in presenza della necessita’ che la misura sia adottata da un giudice competente, con la conseguenza che, a fronte di una declaratoria di incompetenza da parte del giudice che ha adottato la misura e, contestualmente, abbia verificato la propria incompetenza, il giudice competente deve pronunciarsi entro il termine di cui all’articolo 27 cod. proc. pen., pena l’inefficacia della misura; detta situazione non impedisce, tuttavia, la successiva ed autonoma adozione di un provvedimento cautelare da parte del giudice competente, che valuti la sussistenza del compendio indiziario e delle esigenze cautelari, proprio in quanto la misura adottata dal giudice incompetente ha cessato, decorso il temine di venti giorni, di svolgere alcuna funzione ed e’, pertanto, del tutto venuta meno la sua efficacia di misura interinale.

In ogni caso, come osservato dalle Sezioni Unite Silvano, l’inutile decorso del termine di venti giorni non puo’ essere assunto come sanzione processuale per l’inerzia dell’organo giudiziario competente, comportando, cioe’, la perdita del potere da parte di questo di emettere l’ordinanza cautelare, in forza di una specie di decadenza che si verificherebbe per l’inosservanza di un termine perentorio, cio’ in quanto la sanzione processuale della decadenza, nel nostro sistema processuale, riguarda solo le attivita’ di parte, mentre il potere del giudice puo’ incorrere solo negli effetti derivanti dalle preclusioni. Tanto premesso, va specificato che la preclusione, da cui discende la perdita di un potere processuale, e’ ancorata, nel nostro ordinamento, a situazioni specifiche, consistenti: 1) dall’aver gia’ esercitato il potere (ad esempio nel caso del ne bis in idem); 2) dall’aver compiuto attivita’ incompatibili; 3) dall’inosservanza dell’ordine assegnato dalla legge all’esercizio del potere stesso, per evitare contraddizioni nel processo o per garantire principi fondamentali della giurisdizione. Nel caso previsto dall’articolo 27 cod. proc. pen., al contrario, il termine di giorni venti afferisce solo all’esecutivita’ della misura cautelare adottata, ma non investe affatto i potere-dovere del giudice competente di emettere l’ordinanza cautelare, in assenza di qualsivoglia disposizione che preveda, in tal caso, una preclusione.

Ne discende che, come affermato dalle Sezioni Unite, “la preoccupazione del legislatore – sottesa alla norma in esame – e’ stata da un lato quella di non pregiudicare le ragioni cautelari che esigevano l’adozione di misure de libertate nella situazione limbica nella quale il giudice competente non avesse ancora la disponibilita’ degli atti, e dall’altro quello di conferire certezza alla misura cautelare provvisoriamente adottata in termini di garanzia della liberta’ personale dell’indagato o dell’imputato, ponendo il limite temporale in esame. D’altra parte, non potrebbe neppure ipotizzarsi che l’esercizio del potere cautelare da parte del giudice incompetente – di portata provvisoria e previsto nell’interesse superiore della giustizia – si traduca – in certe condizioni – nella consumazione del potere dovere di cui e’ titolare il giudice competente, il quale – per ragioni meramente temporali, ovvero per pretese inerzie talvolta a lui non imputabili, come nella specie – si vedrebbe privato del potere di adottare il provvedimento cautelare, nonostante che ricorrano i presupposti e le condizioni legittimanti. Cio’ non potrebbe non essere considerata che un’aporia rispetto a quell’interesse di giustizia posto a base del principio di conservazione degli atti svolti dal giudice incompetente, cioe’ dal giudice che non puo’ “disporre” del processo, mediante il quale si e’ voluto evitare che il procedimento subisse pause od interruzioni non fisiologiche.”

Coerentemente con detti principi, e’ stato, non a caso, affermato che in presenza dei presupposti di cui all’articolo 384 c.p.p., comma 1, il pubblico ministero puo’ disporre il fermo anche nei confronti di persona detenuta per un precedente titolo di custodia cautelare, che debba essere rimessa in liberta’ per ragioni esclusivamente formali, come il caso di sopravvenuta inefficacia della misura cautelare per tardiva trasmissione degli atti del procedimento oltre il termine di venti giorni di cui all’articolo 27 cod. proc. pen., fermo restando che, qualora non vi sia stata soluzione di continuita’ nella privazione della liberta’ personale tra lo spirare di quel termine e l’emissione della seconda ordinanza coercitiva, puo’ essere attivata dalla persona sottoposta alla custodia cautelare, in relazione al periodo intercorso tra la perdita di efficacia della prima misura e l’emissione della seconda, la procedura stabilita dall’articolo 314 cod. proc. pen., ai fini della riparazione per l’ingiusta detenzione (Sez. 6, sentenza n. 21513 del 06/05/2008, Ghabbar, Rv. 240074; Sez. 1, sentenza n. 3810 del 09/11/2000, dep. 31/01/2001, Munnia ed altri, Rv. 218167).

2. Il secondo motivo di ricorso appare ai limiti dell’inammissibilita’, risultando fondato su considerazioni in fatto, che sottopongono al vaglio di questa Corte di legittimita’ doglianze inerenti la valutazione del compendio indiziario, secondo una prospettiva alternativa alla valutazione dello stesso effettuata dal Tribunale del Riesame.

3. Quanto al terzo motivo di ricorso, il Tribunale del Riesame ha ritenuto la sussistenza del pericolo di reiterazione – alla luce della non occasionalita’ della condotta criminosa da parte degli indagati, dimostrativa di specifica capacita’ organizzativa -, del pericolo di fuga – ricollegabile alla pronta reperibilita’ di documenti e titolo di viaggio contraffatti, oltre che alla facilita’ di movimento in ambito nazionale ed internazionale -, del pericolo di inquinamento probatorio in considerazione dell’approfittamento della persona offesa e delle minacce perpetrate ai suoi danni da parte degli indagati.

Trattasi di valutazione che appare del tutto immune da aporie e da censure logiche, rilevabili in sede di legittimita’, anche considerato che la motivazione sul pericolo di fuga e’ tale da rendere implicitamente al valutazione di inidoneita’ di ogni altra misura meno afflittiva, inclusa quella degli arresti domiciliari mediante l’uso di mezzi elettronici di controllo, mezzi che, considerata le loro modalita’ di funzionamento, certamente segnalano la fuga, ma non appaiono in alcun modo in grado di impedirla.

Dal rigetto del ricorso discende, ex articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Si dispone l’invio degli atti alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’articolo 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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