Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza n. 22395 del 1 ottobre 2013
Svolgimento del processo
Con sentenza del 14/7 – 30/8/11 la Corte d’appello di Catanzaro ha rigettato l’impugnazione proposta dalla società Giustino Costruzioni s.p.a. avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Catanzaro che l’aveva condannata a reintegrare i dipendenti M. R. e Mo.Pi. nel posto di lavoro, previo annullamento del licenziamento ad essi intimato il 5/5/2009, e a risarcire loro i danni nella misura della retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra.
Nel confermare tale decisione la Corte territoriale ha spiegato che i lavoratori erano stati licenziati attraverso il procedimento di cui alla L. n. 223 del 1991, ma che in realtà tale procedimento era risultato inapplicabile al caso di specie in cui l’unico requisito rispettato era stato quello dell’atto scritto, tanto che la stessa datrice di lavoro aveva chiesto la conversione della risoluzione dei rapporti, impugnata dai predetti dipendenti, in licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo dovuto alla chiusura del cantiere, aggiungendo che una tale richiesta non poteva, comunque, essere accolta, non essendo possibile operare la conversione di un licenziamento collettivo, contraddistinto dal rispetto di precise regole procedimentali, in un licenziamento individuale plurimo.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la Giustino Costruzioni s.p.a. che affida l’impugnazione ad un solo motivo di censura articolato in quattro punti.
Resistono con controricorso M.R. e Mo.Pi..
Motivi della decisione
Preliminarmente va disattesa l’eccezione, sollevata dai controricorrenti, di inammissibilità del ricorso per tardività della sua proposizione, atteso che il giorno dell’11 dicembre 2011, in cui scadeva il termine di sessanta giorni dalla notifica della sentenza, risalente all’11 ottobre 2011, per la proposizione del ricorso per il tramite della sua consegna all’ufficiale giudiziario ai fini della notifica, cadeva di sabato, per cui la consegna di tale atto all’ufficiale giudiziario, avvenuta il 12 dicembre 2011, risulta essere rispettosa del dettato normativo di cui all’art. 155 c.p.c., comma 5.
Infatti, tale norma, nella sua versione applicabile ai procedimenti instaurati successivamente al 1 marzo 2006, per effetto delle modifiche introdotte dalle L. 28 dicembre 2005, n. 263, e del L. 23 febbraio 2006, n. 51, stabilisce che la proroga prevista dal quarto comma (scadenza in giorno festivo prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo) si applica, altresì, ai termini per il compimento degli atti processuali svolti fuori dell’udienza che scadono nella giornata del sabato. In seguito la L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 3, ha previsto che le disposizioni di cui all’art. 155 c.p.c., comma 5 e 6, si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data dell’1/3/2006.
Con un solo articolato motivo, nel censurare l’impugnata sentenza, la società ricorrente denunzia la violazione ed errata applicazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, della L. n. 604 del 1966, della L. n. 300 del 1970, art. 18, degli artt. 416 e 112 c.p.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto controverso e decisivo del giudizio.
In sintesi le doglianze possono riassumersi nei seguenti termini: – Vi sarebbe stata violazione dell’art. 416 c.p.c., nella parte in cui la Corte d’appello aveva ritenuto che l’eccezione di inapplicabilità al caso di specie della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24, avrebbe dovuto essere proposta dalla parte datoriale convenuta con domanda riconvenzionale e non sotto forma di eccezione riconvenzionale; in mancanza di specifiche doglianze da parte dei lavoratori, i quali non avevano mai dedotto l’inapplicabilità della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, era da considerare affetta da vizio di ultrapetizione la parte della decisione impugnata attraverso la quale si erano ritenute inapplicabili le norme procedurali del licenziamento collettivo; la motivazione era contraddittoria nella parte in cui la Corte, dopo aver affermato che il giudice non poteva dichiarare d’ufficio la conversione di un licenziamento qualificato come collettivo in licenziamento individuale plurimo per giustificato motivo oggettivo, presupponendo una tale conversione una domanda principale subordinata o un’apposita domanda riconvenzionale, nella fattispecie non formulate, aveva poi dichiarato che non ricorrevano i presupposti del licenziamento collettivo e che il giudicante poteva rilevare ciò senza infrangere la norma di cui all’art. 112 c.p.c.; in definitiva, la Corte, dopo aver dichiarato che i licenziamenti erano stati adottati in forma scritta, ma che in mancanza di riconvenzionale gli stessi non potevano essere qualificati come licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, aveva, però, omesso di svolgere l’istruttoria in merito alle censure mosse nei ricorsi introduttivi avverso la legittimità del licenziamento collettivo, per poi aggiungere, contraddicendosi, che poichè si verteva in ipotesi di deroga di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 24, i licenziamenti in esame non potevano qualificarsi come licenziamento collettivo, ma che i licenziamenti individuali di fatto, così posti in essere, erano privi di motivazione. Osserva la Corte che il ricorso è infondato.
Anzitutto non può sottacersi che la ricorrente non indica, in occasione della denunzia di violazione ed errata applicazione delle norme di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, quali sarebbero stati i principi disattesi dalla Corte di merito nella valutazione della fattispecie alla luce di tali norme.
Inoltre, non è rilevante, ai fini della validità della “ratio decidendi” sottesa all’impugnata sentenza, la questione sollevata con riferimento alla inapplicabilità della procedura di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 24, che era stata proposta per il tramite dell’eccezione riconvenzionale anzichè per il mezzo della domanda riconvenzionale: in realtà, la Corte d’appello ha solo voluto chiarire per completezza del procedimento logico decisionale che il radicale mutamento della tipologia di licenziamento, quale effetto della richiesta di conversione da licenziamento collettivo in licenziamento individuale, era stato prospettato nella fattispecie per il tramite di eccezione riconvenzionale che non poteva avere la stessa portata di una domanda riconvenzionale, la sola che avrebbe consentito di offrire una prospettazione dei fatti del tutto diversa da quella già introdotta in giudizio. In ogni caso tale censura non scalfisce la validità del ragionamento dei giudici d’appello che è, invece, incentrato sull’argomento logico, questo davvero decisivo, della impossibilità di convertire il licenziamento collettivo, dotato di rigide regole procedimentali sue proprie, in quello individuale plurimo.
Egualmente infondata è la doglianza di ultrapetizione per il fatto che in mancanza di specifiche censure da parte dei lavoratori la Corte non avrebbe potuto affermare che nella fattispecie non trovavano applicazione le norme sul licenziamento collettivo. Invero, dalla lettura della sentenza e del presente ricorso emerge che il tema della decisione era proprio quello di verificare la sussistenza di una tale ipotesi di licenziamento, posto che nei loro ricorsi introduttivi, come correttamente rilevato dai giudici d’appello, i lavoratori avevano affermato di essere stati licenziati con riferimento alle motivazioni espresse nella procedura di riduzione del personale di cui alla L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 23, conclusa con mancato accordo, rispetto alla quale avevano denunziato gravi irregolarità; inoltre, è stato posto in rilievo che la stessa datrice di lavoro aveva eccepito che, pur avendo adottato la suddetta procedura, essa non vi era tenuta quale azienda operante nel settore dell’edilizia ed essendo i licenziamenti riferibili alla fine dell’appalto nel cantiere di “(omissis)”, tanto da insistere per la conversione della risoluzione dei rapporti, impugnata dai predetti dipendenti, in licenziamenti individuali plurimi per giustificato motivo oggettivo dovuto alla chiusura del cantiere.
In definitiva, la “ratio decidendi” che rimane insuperata e sulla quale poggia l’impugnata sentenza è costituita dalla constatazione che la datrice di lavoro, nel ricorrere al licenziamento degli odierni intimati, si era avvalsa della procedura del licenziamento collettivo, di cui alla L. n. 223 del 1991, non seguendone, tuttavia, i rigidi requisiti di sostanza e di forma, oltre che dalla conseguente logica deduzione che il licenziamento così adottato possedeva il solo requisito della scrittura, ma non quello altrettanto essenziale della motivazione, per cui non poteva che esserne confermata l’illegittimità.
Orbene, a fronte di tale ragionamento, basato su dati di fatto adeguatamente illustrati e su considerazioni logico-giuridiche esenti da rilievi di legittimità, la ricorrente non si è premurata di censurare la parte della decisione che fa leva sull’omessa motivazione del provvedimento di risoluzione, limitandosi ad invocare un vizio di contraddittorietà e di ultrapetizione che finisce, pertanto, per rivelarsi inconferente rispetto alle vere ragioni che sorreggono la decisione in esame.
Il ricorso va, quindi, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio nella misura di Euro 4000,00 per compensi professionali e di Euro 50,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 8 maggio 2013.
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