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Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza n. 10556 del 7 maggio 2013

Svolgimento del processo

M.F.L., A.B., M.P., M.G., Sa.Bo., D.M.G. e A.F., tutti ex dirigenti (direttori e/o condirettori) centrali della Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., cessati dal servizio tra il 1987 ed il 1993, dopo aver sottoscritto con la banca accordi transattivi individuali, analoghi nei contenuti, in relazione alla determinazione del c.d. “assegno periodico integrativo”, adivano il giudice del lavoro del Tribunale di Roma denunciando l’illegittimità del comportamento della Banca che, dopo aver per alcuni anni proceduto all’adeguamento periodico dell’assegno in questione, applicando il meccanismo concordato (indici ISTAT per il costo della vita con periodicità uguale a quella con cui venivano rinnovati i c.c.n.l. per i dirigenti del settore credito), dal luglio 2000 non aveva più provveduto a tale adeguamento, adducendo di dover rispettare i meno favorevoli meccanismi di rivalutazione inderogabili previsti dalla legislazione vincolistica in materia (art. 11 d.lgs. n. 503 del 1992, art. 59, comma 4, legge n. 449 del 1997, art. 34 legge n. 448 del 1998, art. 69 legge n. 388 del 2000). Chiedevano, pertanto, che, previo accertamento dell’obbligo della Banca di dare corretto e completo adempimento agli accordi conciliativi intervenuti tra le parti, la stessa fosse condannata alla rideterminazione dell’assegno dovuto. Il Tribunale rigettava la domanda e la decisione veniva confermata dalla Corte di appello di Roma. Quest’ultima, in particolare, riteneva che l’assegno in questione avesse natura ontologicamente previdenziale e non retributiva con la conseguenza che allo stesso era applicabile la legislazione prevista per i trattamenti pensionistici e che i ricorrenti non potessero fondatamente addurre una pretesa intangibilità degli accordi transattivi intervenuti sia per l’operatività del principio rebus sic stantibus sia per la sopravvenuta parziale illegittimità della causa in ragione delle nuove norme, imperative ed inderogabili, ridisciplinanti il meccanismo di rivalutazione dei trattamenti pensionistici in un’ottica di contenimento della spesa previdenziale.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono F.L.M., A.B., P.M. , M.G. , S.B., G.D.M. e A.F., affidandosi a due motivi.
Resiste con controricorso la Banca Nazionale del Lavoro S.p.A..
Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 11 d.lgs. n. 503 del 1992, dell’art. 59, comma 4, legge n. 449 del 1997, dell’art. 34 legge n. 448 del 1998, dell’art. 69 legge n. 388 del 2000 e di ogni norma e principio in materia di applicabilità dei meccanismi di rivalutazione di cui alla citata legislazione alle prestazioni di retribuzione differita. Violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod. civ. e di ogni norma e principio in materia di interpretazione del contratto e della genetica intenzione dei contraenti. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo (art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ.)”. Deducono che il regime normativo citato può essere applicato alle pensioni ma non allo specifico accordo raggiunto individualmente in sede sindacale e/o giudiziale dagli odierni ricorrenti,che non ha ad oggetto un trattamento previdenziale. Rilevano che la Corte di appello ha ritenuto la natura previdenziale dell’assegno in questione omettendo di valutare la comune intenzione delle parti, di considerare la natura personale dello stesso, di tener conto del fatto che tale assegno, a differenza di qualsivoglia altra prestazione previdenziale, non comportava e non comporta alcun onere diretto o indiretto per le pubbliche finanze o per fondi previdenziali di alcun genere (ancorché autonomi) essendo erogato direttamente dal datore di lavoro, nonché del fatto che la stessa Banca aveva precisato che si trattava di una voce retributiva di natura differita, che l’iscrizione dell’assegno nell’Albo dei Fondi Pensione tenuto dalla Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (COVIP) era intervenuta molti anni dopo, che non esisteva, quantomeno fino alla seconda metà degli anni ’90, alcuna specifica “voce” o “postazione” nel bilancio della banca che qualificasse quelle uscite quali oneri previdenziali. Evidenziano, dunque, la natura dell’assegno, corrisposto sulla scorta di un meccanismo particolare, quale “componente del trattamento generale”, postergata nella sua corresponsione sottolineando che, rispetto a tale natura, irrilevante è la reversibilità dello stesso che ben può essere contrattualmente stabilita.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 411 cod. proc. civ., dell’art. 185 cod. proc. civ., dell’art. 1965 e ss. e dell’art. 2113 cod. civ. e di ogni norma e principio in materia di validità della transazione giudiziale e della transazione raggiunta in sede sindacale su diritti dei lavoratori (art. 360, nn. 3 e 4, cod. proc. civ.)”. Deducono che erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che gli accordi raggiunti potessero essere modificati per l’operatività del principio rebus sic stantibus e per la sopravvenuta parziale illiceità della causa in ragione delle nuove norme. Evidenziano che i diritti oggetto delle transazioni non potevano considerarsi soggetti alle limitazioni della normativa sopravvenuta per la genetica diversità dell’obbligazione assunta dalla banca rispetto a quella previdenziale. Rilevano che in ogni caso lo ius superveniens non avrebbe potuto intaccare una intesa perfezionata in sede sindacale ovvero dinanzi all’Ufficio provinciale del lavoro ai sensi dell’art. 410 e ss. cod. proc. civ. ovvero ancora innanzi al giudici ai sensi dell’art. 185 cod. proc. civ.. Rilevano che tale tipo di intesa integra una transazione ai sensi dell’art. 2113 cod. civ., costituendo, altresì, titolo equiparabile ad una pronuncia giudiziale, che preclude al giudice persino l’accertamento della situazione preesistente e della violazione delle disposizioni inderogabili di legge eventualmente attuata con l’atto transattivo.

3. Il primo motivo di ricorso è fondato alla stregua del principio, cui va data continuità, già enunciato da questa Corte nella decisione del 16 luglio 2007, n. 15769 (seguita dalla conforme Cass. 21 giugno 2011, n. 13573): “La norma dell’art. 59, comma 13, della legge n. 449 del 1997, che prevede la sospensione della perequazione automatica al costo della vita, concerne solo i trattamenti previdenziali obbligatoli e quelli specificamente contemplati da tale disposizione, e non si applica alla pensione integrativa a carico del fondo aziendale, che ha natura retributiva (e non previdenziale)” – sulla natura retributiva si veda, altresì, Cass. 21 novembre 2012, n. 20418 -. In senso analogo si era, anche, espressa Cass., Sez. U, 1 febbraio 1997, n. 974 che aveva così precisato: “I trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita, ma, in relazione alla loro funzione previdenziale (che spiega la sottrazione alla contribuzione previdenziale dei relativi accantonamenti, disposta – in via di interpretazione autentica dall’art. 12 della legge 30 aprile 1969 n. 153 – dall’art. 9 bis del D.L. 29 marzo 1991 n. 103, aggiunto dalla legge di conversione 1 giugno 1991 n. 166), sono ascrivibili alla categoria delle erogazioni solo in senso lato in relazione di corrispettività con la prestazione lavorativa. Ne discende la non operatività del criterio di inderogabile proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro, e, più in generale – con particolare riferimento alle pensioni aggiuntive rispetto al trattamento previdenziale obbligatorio -, della garanzia dell’art. 36 Cost., in relazione all’art. 2099 cod. civ.. Ne consegue, in primo luogo, che l’autonomia privata non subisce, in linea generale, limiti alla determinazione del quantum dovuto e dei presupposti e requisiti di erogazione di dette pensioni, e, in secondo luogo, che non può ritenersi pertinente – con particolare riferimento alla sospensione del trattamento integrativo in caso di svolgimento di determinate attività lavorative – il vincolo di destinazione delle somme allo scopo pensionistico, posto dall’art. 2117 cod. civ.”. La natura di retribuzione differita dei trattamenti pensionistici integrativi aziendali, sia pure con funzione previdenziale, era stata, altresì, ribadita da Cass. 2 novembre 2001, n. 13558.
Invero l’esame delle questioni qui dibattute non può prescindere da alcune precisazioni.
La possibilità di una previdenza c.d. aziendale, integrativa di quella generale obbligatoria, derivante anziché dalla legge da “contratti ed accordi collettivi” – art. 442 comma 2, cod. proc. civ. – ha avuto, in passato, la propria fonte regolatrice esclusivamente nell’art. 1372 cod. civ..
A tale possibilità si affiancava, secondo la previsione dell’art. 2117 cod. civ., quella della costituzione di fondi speciali per l’assistenza e la previdenza, con la contribuzione sia del datore di lavoro che dei lavoratori.
Si è, quindi, verificato il passaggio dalla previdenza integrativa (residuale) a quella complementare (prevista su larga scala).
Le principali tappe dell’evoluzione legislativa del sistema di previdenza complementare sono state, poi, segnate dal d.lgs. 21/4/1993 n. 124 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari a norma dell’art. 3, comma 1, lett. “v” della legge 23/10/1992, n. 421), dalla delega conferita mediante l’art. 1, comma 2, lettere “e”, “h”, “i”, “l”, “v”, legge 23/8/2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno della previdenza complementare ed all’occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria) e dal d.lgs. 5/12/2005 n. 252 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari). Quest’ultimo provvedimento integra un vero e proprio t.u. comprensivo delle regole fiscali.

La differenza tra previdenza ed assistenza ex lege ovvero ex contractu è nel carattere generale, necessario e non eludibile delle tutele del primo tipo, a fronte della natura eventuale delle garanzie del secondo, che sono la fonte di prestazioni aggiuntive a vantaggio soltanto delle categorie di lavoratori aderenti ai patti incrementativi dei trattamenti ordinari (e in relazione alla quale non opera il principio dell’automatismo delle prestazioni).
La natura privatistica della previdenza complementare (la cui ratio è quella di garantire ai futuri pensionati un reddito di importo adeguato) – analogo discorso va fatto per la previdenza integrativa precedente alla disciplina legislativa delle forme pensionistiche complementari – è cristallizzata nel meccanismo di adesione che è libero e volontario e nelle modalità di alimentazione del fondo cui contribuiscono, in genere, prevalentemente i destinatari delle prestazioni (cfr. ora art. 8, co. 1 e 2, del d.lgs. n. 252/2005) – dal 1 gennaio 2007 ai sensi degli artt. 8-10 e 23 del d.lgs. n. 252/2005 anche mediante destinazione del proprio t.f.r. – ma anche il datore, nel lavoro subordinato, ed il committente.
Tale tipo di previdenza, come quella dei trattamenti integrativi, si basa, dunque, sul concetto della capitalizzazione: le somme versate sono accantonate e rivalutate nel tempo e utilizzate esclusivamente per costruire la propria pensione complementare o integrativa.
La previdenza pubblica si basa, invece, sul sistema a ripartizione, cioè sull’utilizzo immediato dei contributi versati dai lavoratori in attività per pagare le prestazioni pensionistiche in essere: rappresenta, quindi, una solidarietà intergenerazionale tra lavoratori in attività e lavoratori a riposo.
Il sistema della ripartizione, a differenza di quello basato sulla capitalizzazione, è destinato, evidentemente, a subire ripercussioni laddove il rapporto tra popolazione attiva e popolazione pensionata è sperequato. Infatti, quando il secondo indice di riferimento supera il primo ovvero quando squilibri si determinano a causa dell’alto tasso di disoccupazione e della scarsa crescita dei salari, la conseguenza è l’incidenza del divario determinatosi sulla spesa previdenziale pubblica (in un sistema di previdenza obbligatoria il trattamento pensionistico è garantito a tutti a prescindere dalla capienza dei contributi versati dai lavoratori in attività).
Quando ciò si verifica si pone l’esigenza di stabilizzare tale spesa ed in questo contesto si collocano gli interventi legislativi che, specialmente nell’ultimo decennio del duemila – così la c.d. riforma Amato (1992), la riforma Dini (1995) e la riforma Prodi (1997) -, hanno cercato di rendere compatibile la spesa previdenziale con il bilancio dello Stato. Si è trattato di interventi che si sono sviluppati in varie direzioni, si pensi al mutamento del sistema di calcolo delle pensioni (dal sistema retributivo a quello contributivo), all’innalzamento dell’età pensionabile e, per quanto qui interessa, alla disciplina di cui all’art. 11 d.lgs. n. 503 del 1992, all’art. 59, comma 4, legge n. 449 del 1997, dell’art. 34 legge n. 448 del 1998 con cui sono stati rivisti i meccanismi automatici di indicizzazione delle pensioni.
Non può allora essere messa in dubbio l’ontologica diversità tra le somme versate a titolo di contribuzione obbligatoria e quelle destinate ad alimentare la previdenza integrativa o complementare – tanto se effettuati dai lavoratori quanto se effettuati dal datore di lavoro ed a prescindere dal soggetto poi tenuto alla effettiva erogazione -. Queste ultime hanno la natura di “salario previdenziale” e perciò sono strettamente inerenti al rapporto di lavoro o di impiego, ancorché questo sia cessato e, dunque, assimilabili ad una vera e propria “retribuzione differita”, non incidendo la funzione previdenziale del trattamento sul dato strutturale rappresentato dell’inesistenza di un rapporto giuridico previdenziale (si pensi anche alla possibilità, ora legislativamente prevista, per il lavoratore di ottenere anticipazioni del capitale accumulato). Su tale natura non influisce il favor legislativo nei confronti della scelta di una previdenza complementare (attraverso ad es. la previsione di incentivi quali la deducibilità a fini fiscali – entro certi limiti – degli importi versati ovvero dell’esclusione delle contribuzioni ai fondi di previdenza complementare dalla base imponibile per la determinazione di contributi di previdenza e di assistenza sociale).

Ne deriva che alle relative erogazioni (sia quelle relative ai trattamenti integrativi aziendali ricadenti nell’ambito del quadro normativo antecedente l’entrata in vigore della riforma della previdenza complementare sia quelle a quest’ultima successive) deve essere riconosciuta natura retributiva sia pure con funzione previdenziale.
Ciò precisato, osserva il Collegio che la disciplina dell’art. 59 citato, seppure (comma 4) ha esteso, in un’ottica di generale armonizzazione del sistema, a decorrere dal 1/1/1998, a tutte le “prestazioni pensionistiche a carico delle forme pensionistiche di cui ai commi 1, 2 e 3” (ivi comprese quelle integrative) “esclusivamente” il meccanismo di perequazione di cui al d.lgs. n. 503 del 1992, art. 11 (“con esclusione di diverse forme, ove ancora previste, di adeguamento anche collegate all’evoluzione delle retribuzioni di personale in servizio”), ha dettato, però, (comma 13) una normativa (temporanea) di sospensione e di restrizione della perequazione automatica con riferimento ai soli trattamenti pensionistici “dovuti dall’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti e dalle forme sostitutive od esclusive”.
Tale differenziazione non può che trovare la propria ratio giustificatrice nelle diversità ontologiche sopra evidenziate.
È pur vero che, come questa Corte ha più volte affermato, “la disposizione di cui alla legge n. 449 del 1997, art. 59, comma 4 che comporta l’aumento delle pensioni previdenziali e assistenziali sulla base del solo adeguamento al costo della vita, con la soppressione, a decorrere dal 1 gennaio 1998, di diversi meccanismi di adeguamento, trova applicazione anche nei confronti dei regimi aziendali integrativi, atteso che la disposizione si riferisce alle prestazioni pensionistiche previste dallo stesso art. 59, comma 3 che espressamente ricomprende le prestazioni pensionistiche complementari di cui ai decreti legislativi n. 563 del 1996, n. 124 del 1993 e n. 357 del 1990; né tale estensione autorizza dubbi di legittimità costituzionale, atteso che essa si inquadra nella scelta del legislatore di armonizzare i regimi previdenziali complementari preesistenti al citato d.lgs. n. 124 del 1993 con quelli di nuova costituzione” (v. Cass. 11 maggio 2002, n. 6804; id. 20 agosto 2003, n. 12254).
Tuttavia già con Cass. 22 novembre 2006, n. 24777, è stato chiarito che – invece -“il successivo comma 13 della legge n. 449 del 1997 concerne le pensioni I.N.P.S. particolarmente elevate e, a seconda dell’ammontare di esse, esclude o limita fortemente la perequazione automatica”, affermandosi il principio di diritto secondo cui “con riguardo a quest’ultima categoria di pensioni, la perequazione automatica rimane bloccata, mentre la pensione integrativa si adegua secondo l’art. 59, comma 4 cit.”.
Come è stato, poi, precisato e va qui ribadito, “la norma della legge n. 449 del 1997, art. 59, comma 13 che prevede la sospensione della perequazione automatica al costo della vita, concerne solo i trattamenti previdenziali obbligatoli e quelli specificamente contemplati da tale disposizione, e non si applica alla pensione integrativa a carico del fondo aziendale, che, come detto, ha natura retributiva (e non previdenziale). Conseguentemente, con riferimento ai titolari di pensione costituita dal trattamento previdenziale obbligatorio e da pensione integrativa a carico di apposito Fondo aziendale, l’adeguamento della pensione spettante non si applica sull’intero importo ma solo sulla quota parte relativa al trattamento integrativo, restando escluso invece l’adeguamento della quota di pensione relativa al trattamento obbligatorio” (v. la già citata Cass. 16 luglio 2007, n. 15769).
In particolare, come questa Corte ha spiegato, la legge n. 447 del 1997, art. 59 costituisce “un corpus normativo che in ciascuna delle diverse disposizioni reca la precisa individuazione delle forme pensionistiche oggetto di regolamentazione (comma 1: forme pensionistiche obbligatorie, sostitutive, esclusive ed esonerative; comma 2: anche le forme integrative per gli enti di cui alla legge n. 70 del 1975; commi 3, 4 e 5: tutte le forme pensionistiche non obbligatorie)”. Né, come pure è stato chiarito, “giova alla tesi della ricorrente (banca) la formulazione della sopravvenuta legge 23 dicembre 1998, n. 448, che (art. 34) nel dettare la disciplina del meccanismo di rivalutazione delle pensioni con effetto dal 1 gennaio 1999, comprende esplicitamente nel trattamento complessivo le erogazioni a carico dei fondi integrativi e aggiuntivi” (disponendo che l’aumento della rivalutazione automatica dovuto “viene attribuito su ciascun trattamento in misura proporzionale all’ammontare del trattamento da rivalutare rispetto all’ammontare complessivo”), in quanto ciò non significa affatto che le dette erogazioni siano state soggette alla disciplina di cui alla precedente legge n. 449 del 1997, art. 59, comma 13.

Del resto, tale disciplina, nel quadro del corpus normativo sopra evidenziato, per la sua natura chiaramente eccezionale (oltre che temporanea) non può essere estesa al di là dell’ambito dei trattamenti pensionistici espressamente previsti dallo stesso comma 13, ciò anche in considerazione dell’obiettivo primario della legislazione vincolistica nei termini sopra illustrati.
Per tale ragione, quindi, il Collegio, in continuità con l’indirizzo espresso nelle sentenze sopra citate, ritiene di non poter condividere la diversa interpretazione accolta da Cass. 20 maggio 2010 n. 12344, secondo cui “la previsione di cui alla legge n. 449 del 1997, art. 59, comma 13, ultima parte disciplina l’applicazione dell’indice di perequazione automatica delle pensioni secondo le modalità in essa previste anche nei confronti dei trattamenti erogati da forme pensionistiche integrative del regime generale”. Tale interpretazione, infatti, enunciata in una fattispecie relativa al 1999 (oggetto della parte finale della norma in esame), da un lato trascura la rilevanza della natura eccezionale dell’intero comma 13, all’interno del corpus costituito dall’articolo 59, dall’altro si fonda sulla ampia locuzione (“indice di perequazione delle pensioni”) contenuta nell’ultima parte del detto comma 13, omettendo di considerare la stretta connessione logica e temporale che sussiste tra tale ultima parte e le due parti (riguardanti il 1998) che precedono, senza soluzione di continuità, nel dettato dello stesso comma. Non può leggersi, infatti, l’ultima parte del medesimo comma 13, se non nell’insieme del dettato del comma stesso, che esordisce riferendosi espressamente ai soli trattamenti “dovuti dall’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti e dalle forme di essa sostitutive od esclusive” e, del resto, una distinzione dell’ambito dell’intervento restrittivo, operato dal legislatore, a seconda dell’anno, neppure risulterebbe in qualche modo spiegabile.
Infine neppure sembra al Collegio decisivo l’argomento generale della armonizzazione della previdenza complementare nel sistema dell’art. 38 cost, comma 2, che in qualche modo “prova troppo” e che, in ogni caso, non può non arrestarsi davanti alla natura eccezionale e temporanea della norma in esame (a parte anche la considerazione che i trattamenti pensionistici integrativi di cui alla presente causa risultano maturati anteriormente alla entrata in vigore della riforma della previdenza complementare di cui al d.lgs. n. 124 del 1993).
3. Il ricorso (assorbito il secondo motivo) va, pertanto, accolto (assorbito il secondo motivo) e la sentenza della Corte di appello di Roma va conseguentemente cassata.
4. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento delle domande iniziali volte ad ottenere l’accertamento della inapplicabilità all’assegno periodico integrativo in godimento delle limitazioni di cui all’art. 11 d.lgs. n. 503 del 1992, art. 59, comma 4, legge n. 449 del 1997, art. 34 legge n. 448 del 1998, art. 69 legge n. 388 del 2000.
5. Il diverso esito dei giudizi di merito e l’esistenza di difformi pronunce di questa Corte di legittimità costituiscono giusto motivo per compensare tra le parti le spese dell’intero processo.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie le domande dei lavoratori; compensa tra le parti le spese dell’intero processo.

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