Nel rapporto di lavoro subordinato, il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale, ancorché relativo alla fase preparatoria del rapporto, deve essere autonomamente retribuito ove la relativa prestazione, pur accessoria e strumentale rispetto alla prestazione lavorativa, debba essere eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia autonomamente esigibile dal datore di lavoro, il quale può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria
Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 3 febbraio 2017, n. 2965
Svolgimento del processo
G.M. , E.S. e S.R. con ricorso del 4 maggio 2005, notificato il due luglio 2005, dedussero di aver lavorato alle dipendenze della società SAGIT (poi UNILEVER), come addetti alla lavorazione di gelati e surgelati, obbligati ad indossare apposite tute, scarpe antinfortunistiche, idonei copricapi e indumenti intimi forniti dall’azienda e a presentarsi al lavoro 15/20 minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del badge potevano entrare nel luogo di lavoro accedendo al reparto dove una macchina bollatrice rilevava l’orario di ingresso. Tali operazioni si ripetevano al termine dell’orario di lavoro per dismettere gli indumenti indossati. I ricorrenti, di conseguenza, chiesero il pagamento delle differenze retributive dovute per il tempo di tali ulteriori prestazioni, a titolo di compenso per lavoro straordinario e in via subordinata come compenso per lavoro ordinario, il tutto relativamente fino alla data del 31-12-2004 (Euro 9120,08 ovvero in subordine, in base alla retribuzione dovuta per lavoro ordinario, Euro 6289,71).
Radicatosi il contraddittorio con la Unilever Italia s.r.l. (già SAGIT s.r.l.), che resisteva alle pretese avversarie, eccependo altresì la prescrizione, l’adito giudice del lavoro di Napoli rigettava la domanda.
In seguito, con sentenza n. 6625/12-30 ott. 2010, la Corte di Appello di Napoli riformava (in parte) la suddetta decisione, condannando la società datrice di lavoro al pagamento di 3011,18 Euro a favore del G. e di Euro 3144,86 ciascuno a favore dell’E. e dello S. , oltre accessori.
Il giudice dell’appello ha riconosciuto il diritto del dipendente alla retribuzione per il tempo impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione, considerandone il carattere necessario e obbligatorio per l’espletamento dell’attività lavorativa, e lo svolgimento sotto la direzione del datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale attività non poteva essere ravvisata, sul piano della disciplina collettiva, dal “silenzio” delle organizzazioni sindacali sul problema del “tempo tuta”, né da accordi aziendali intervenuti per la disciplina delle pause fisiologiche.
La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo ricorso a nozioni di comune esperienza, in dieci minuti per ognuna delle due operazioni giornaliere (vestizione e svestizione), commisurando quindi il compenso dovuto alla retribuzione oraria fissata dal contratto collettivo applicabile.
Ritenuto che la pretesa creditoria azionata si riferisse al quinquennio anteriore alle domande, secondo la Corte partenopea, in tale contesto assumeva valenza di primo atto interruttivo (della prescrizione), come rilevato dalla UNILEVER, soltanto il ricorso di primo grado, notificato il due luglio 2005, non risultando sottoscritte anche dai lavoratori interessati, ma dal solo legale, le richieste di adempimento allegate in copia e non essendo stata provata, a quella data, l’esistenza di procure già conferite all’avv. Giuliana Quattromini (art. 2943 c.c.). In particolare, con riferimento a S.R. e a E.S. andava accolto lo sviluppo dei conteggi allegati al ricorso quali operai di III livello c.c.n.l., ma gli importi andavano limitati al quinquennio anteriore al due luglio 2005, con un importo pari a 3144,86 Euro. Mentre, l’importo da riconoscere, per il periodo non prescritto, a G.M. , inquadrato come operaio di terzo livello, era pari a 3011,18 Euro.
Avverso la pronuncia d’appello il G. , l’E. e lo S. hanno proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, chiedendo l’annullamento dell’impugnata sentenza limitatamente alla parte in cui non era state per intero accolte le domande, specificamente in ordine alla considerata interruzione, non si era ritenuta interrotta con la lettera di messa in mora del 28 maggio 2003, né con le pur anteriori richieste del tentativo obbligatorio di conciliazione (21 gennaio 2000 per il G. e 24 giugno 1999 per gli altri due attori).
La società Unilever Italia Manufacturing s.r.l. (già SAGIT S.r.l., incorporata nella UNILEVER Italia S.p.a.) ha resistito all’impugnazione avversaria mediante controricorso, spiegando a sua volta ricorso incidentale affidato a quattro motivi.
Nonostante i regolari e tempestivi avvisi comunicati per la pubblica udienza fissata al 21-09-2016, non risultano depositate memorie ex art. 378 c.p.c.. Va, inoltre, appena rilevato che le due impugnazioni, proposte avverso la medesima sentenza, già risultano riunite nello stesso procedimento ex art. 335 c.p.c..
Motivi della decisione
Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla decorrenza della prescrizione, censurata perché non considera valido atto interruttivo la (mera) presentazione della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del Lavoro, né la missiva a firma del difensore (avv. G. Quattromini) di messa in mora.
In particolare, i ricorrenti con il primo motivo lamentano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 2943 e 1399 c.c. in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., laddove la Corte di merito aveva escluso efficacia interruttiva alle richieste di adempimento, sottoscritte dal solo difensore in nome e per conto dei lavoratori interessati ivi indicati. Ipotizzato, poi, anche che i difensori avessero interrotto la prescrizione in nome e per conto dei loro assistiti, senza averne ricevuto previo mandato, la successiva proposizione del ricorso in via giudiziale da parte dei medesimi assistiti avrebbe comunque ratificato ex art. 1399 c.c. ogni precedente attività svolta in loro nome e per loro conto dagli stessi difensori.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2943 cod. civ. e dell’art. 410 cod. proc. civ., richiamando la giurisprudenza di questa Corte che connette gli effetti di interruzione della prescrizione e di sospensione dei termini di decadenza ex art. 410 c.p.c., comma 2 alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione, riguardo alla richiesta di tentativo di conciliazione ex art. 410 cit. depositata presso la Direzione Provinciale del Lavoro.
Con il terzo (non 2, come invece erroneamente scritto a pag. 9 del ricorso principale) motivo si denuncia di violazione dell’art. 2729 cod. proc. civ., lamentando che la sentenza impugnata non ha esaminato la possibilità di desumere in via presuntiva la prova – dell’inoltro della comunicazione delle suddette richieste al datore di lavoro – dalla circostanza che richieste del genere vengono generalmente di regola inviate dalla D.P.L.; e ciò anche perché neppure la società UNILEVER aveva obiettato di aver ricevuto le comunicazioni.
La stessa censura viene proposta con il successivo quarto (non già 3, v. pg. 10 del ricorso) motivo, sotto il profilo del difetto di motivazione della sentenza impugnata.
Con il quinto (non già 4) motivo si denuncia la violazione dell’art. 421 c.p.c., comma 2, dell’art. 115 cod. proc. civ., rilevandosi che il lavoratore resta in possesso soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L. con cui promuove il tentativo di conciliazione e non della conseguente comunicazione inoltrata al datore di lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della prova della spedizione e ricezione dell’avviso. Il lavoratore si trova nella impossibilità di documentare la circostanza, sicché sarebbe stato doveroso per la Corte di Appello esercitare i poteri officiosi ex art. 421 cod. proc. civ. per accertare la ricezione della convocazione da parte della società.
In via subordinata, i ricorrenti prospettano questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2 -in relazione agli artt. 24, 36 e 111 Cost. – nella parte in cui connette l’interruzione della prescrizione alla ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione da parte della D.P.L. dell’avvenuta instaurazione del tentativo di conciliazione, anziché alla mera proposizione di tale richiesta da parte del lavoratore.
Con il primo motivo del ricorso incidentale la società controricorrente denuncia una violazione della disciplina dei CCNL del settore industria alimentare e degli accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione all’art. 2099 cod. civ. e all’art. 36 Cost., nonché delle regole di cui all’art. 1362 c.c. e segg., e difetto di motivazione.
La sentenza impugnata viene censurata per non aver valutato l’incidenza sull’assetto negoziale del rapporto della contrattazione collettiva, che secondo la parte esclude il pagamento di una retribuzione ulteriore del tempo impiegato sia per raggiungere i reparti, sia per indossare e togliere gli indumenti di lavoro, correlando la retribuzione dovuta al solo tempo della prestazione lavorativa effettiva.
La società, premesso che la determinazione quantitativa della retribuzione risulta soprattutto dalla disciplina collettiva, trae argomenti a sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in tema di durata e distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello stesso (correlata al godimento di riposi individuali) nonché dalla clausola del CCNL applicabile che, imponendo all’azienda di destinare un locale a spogliatoio, dispone che questo debba rimanere chiuso durante l’orario di lavoro; tale previsione escluderebbe che il tempo da destinare alla vestizione possa rientrare nella prestazione lavorativa.
Con il secondo motivo denuncia omesso esame di un punto prospettato dalle parti in riferimento agli accordi del 16/11/1999 e 11/12/2001, nonché alla regola generale dell’assorbimento dei trattamenti di miglior favore riferibile anche per le pause contrattuali (art. 360 c.p.c., n. 5); violazione delle regole di interpretazione ex art. 1362 e segg. c.c. in riferimento agli accordi stessi (art. 360 c.p.c., n. 3), insufficienza della motivazione sulle preclusioni dell’assorbimento.
Con il terzo motivo (in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.) si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 414 e 434 c.p.c., nonché degli artt. 1226 e 2697 c.c.
Censura la quantificazione effettuata dalla Corte del tempo necessario giornalmente per la vestizione provvedendo ad un’inammissibile determinazione discrezionale. Deduce l’assenza di allegazione, la mancata notifica del conteggio unitamente al ricorso e l’assenza di una formale istanza che abilitasse il giudice ad esercitare i poteri equitativi pronunciandosi in termini diversi da quelli fissati nelle conclusioni dalle parti.
Con il quarto motivo, infine, la ricorrente incidentale denuncia la violazione di plurime norme di diritto, sostenendosi che secondo la disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro quello di effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in cui deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa riferimento a questo fine anche alla definizione di orario di lavoro dettata dal D.Lgs. n. 66 del 2003, di attuazione della disciplina comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui al lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni”, per sostenere che nella fattispecie non potrebbe ravvisarsi un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione.
Si afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore (specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando direttamente sul lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non erano predeterminate oggettivamente dal datore di lavoro, perché il personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima ovviamente collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di lavoro, ma sulla base di scelte del tutto personali da parte dei dipendenti.
I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare a loro piacimento questo intervallo temporale, come di gestire tempi e modi della vestizione. Si tratta, secondo la parte, della cosiddetta diligenza preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma contrattuale.
Per ragioni di priorità logica devono essere esaminate, in primo luogo, le censure svolte con il ricorso incidentale, che investono con il primo, secondo e quarto motivo la questione del diritto alla retribuzione per il tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro, con riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla regolamentazione collettiva applicabile. Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.
I motivi, investendo la questione del diritto alla retribuzione per il tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro con riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro sia alla regolamentazione collettiva applicabile, possono essere esaminati congiuntamente e sono infondati.
La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa” – il principio secondo cui tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763, Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass. 10 settembre 2010 n. 19358 (che riguarda una fattispecie analoga a quella del caso oggi in esame; v. anche Cass. 7 giugno 2012 n. 9215). È stato anche precisato (v. Cass. 25 giugno 2009 nn. 14919 e 15492) che i principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della definizione testé riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Conf., eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.). Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n. 19358/2010) consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza, al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva (cfr. altresì, più recentemente, Cass. lav. n. 1352 del 26/01/2016, secondo cui nel rapporto di lavoro subordinato, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria in tema di orario di lavoro di cui alla direttiva n. 2003/88/CE (Corte di Giustizia UE del 10 settembre 2015 in C-266/14), il tempo necessario ad indossare la divisa aziendale rientra nell’orario di lavoro se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento. Nella specie, quindi, è stata cassata con rinvio la decisione di merito che aveva respinto la domanda di lavoratori, addetti all’assistenza ad anziani non autosufficienti, sull’assunto che dovevano solo portare una “divisa pulita”, senza accertare il grado di igiene e le caratteristiche richiesti).
Il giudice dell’appello si è attenuto ai suesposti principi, avendo accertato che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel tornello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo orologio, ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno, secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno spazio di discrezionalità per i dipendenti.
Sono, altresì, infondati il secondo ed il terzo motivo. Devono richiamarsi su detti punti le pronunce di questa Corte (cfr. nn. Cass. 692/2014, 13706/2014, 13705/2014, 801/2014, 1661/2014 e molte altre) con riferimento ad identica fattispecie, relativa alla medesima azienda Unilever. In tali pronunce si è evidenziata l’insussistenza di una disciplina contrattuale collettiva tale da escludere dal tempo dell’orario di lavoro quello impiegato per le operazioni in questione, non rinvenendosi nella disciplina collettiva richiamata alcuna specifica regola con il contenuto indicato dalla ricorrente e sfugge alle censure mosse sotto i profili sia del vizio di motivazione che di violazione delle regole ermeneutiche negoziali; in particolare, con riguardo al regime delle pause fisiologiche (che non può essere riferito al tempo di quella che viene definita come “fase preparatoria” della prestazione e l’assorbimento viene prospettato tra elementi contrattuali diversi) e alla destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato desumere in ordine alle modalità della stessa prestazione.
La determinazione della durata del tempo in questione (e conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale dell’art. 432 c.p.c., con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato, né l’esercizio di tali poteri è soggetto alla domanda delle parti.
Privo di rilievo, in particolare è il quarto motivo, considerato che la Corte ha ritenuto rilevante un periodo inferiore rispetto a quello indicato dai ricorrenti riducendo la pretesa dei lavoratori e pertanto la società non ha motivo di dolersi di tale riduzione.
Quanto al ricorso principale, appaiono in parte fondati i rilievi mossi con il primo motivo, laddove la Corte partenopea ha negato valore di atto interruttivo alle lettere di messa in mora a firma dell’avv. Giuliana Quattromini (che risulta tra l’altro essere la procuratrice costituitasi nel giudizio di merito, oltre che difensore munito di procura speciale a margine del ricorso per cassazione notificato il 14-03-2011) per il solo fatto che le menzionate missive non recavano anche la firma dei diretti interessati, assumendo altresì apoditticamente che non risultava provata a quella data (invero non meglio indicata) l’esistenza di procure già conferite all’avv. Quattromini.
Al riguardo i ricorrenti sostengono, invece, la validità dell’atto interruttivo della prescrizione pure in relazione alla lettera di messa in mora, firmata ed inoltrata in nome e per conto degli stessi dai difensori, che poi munititi di apposita procura alle liti hanno agito in giudizio nell’interesse dei medesimi.
Orbene, vero è che secondo la prevalente giurisprudenza (v. tra l’altro Cass. III civ. n. 900 del 18/01/2005), la costituzione in mora è un atto giuridico in senso stretto, che può essere compiuto o direttamente dal titolare del diritto o da un suo rappresentante e, per la sua natura meramente intimatoria e non negoziale, non è soggetto all’applicazione dell’art. 1324 del cod. civ., che estende ai soli atti unilaterali patrimoniali negoziali la disciplina dei contratti; pertanto, non è possibile configurare la ratifica di un atto di costituzione in mora compiuto da un “falsus procurator”, perché in tal modo in conseguenza dell’effetto retroattivo dell’istituto (art. 1399, secondo comma, cod. civ.) si otterrebbe il risultato di eludere le norme sulla prescrizione, inderogabili dai privati perché d’ordine pubblico ex art. 2936 cod. civ. (in senso conforme v. altresì Cass. II civ. n. 4046 del 16/04/1991, secondo cui la ratifica di un atto interruttivo della prescrizione posto in essere dal “falsus procurator” non ha effetto retroattivo ai sensi dell’art. 1399, secondo comma, cod. civ., in quanto a tale atto, non avente natura negoziale, la disciplina dei contratti non è applicabile né in via diretta, per effetto del rinvio di cui all’art. 1324 cod. civ., né in via analogica ostandovi la mancanza della “eadem ratio”.
V. in senso contrario, invece, Cass. III civ. n. 969 del 5/4/1974, secondo cui la ratifica, da parte del dominus, degli atti compiuti dal falsus procurator ha effetto ex tunc anche per gli atti unilaterali ed in particolare per l’atto interruttivo della prescrizione, il quale diviene efficace ed operante in virtù appunto della successiva ratifica).
Tuttavia, va d’altro canto ricordato che questa Corte (v. tra le altre Cass. lav. n. 7097 del 09/05/2012) ha pure affermato il principio secondo cui ai fini dell’interruzione della prescrizione, l’intimazione scritta ad adempiere può essere validamente effettuata non solo da un legale che si dichiari incaricato dalla parte, ma anche da un mandatario o da un incaricato, alla sola condizione che il beneficiario ne intenda approfittare, e senza che occorra il rilascio in forma scritta di una procura per la costituzione in mora, potendo questa risultare anche soltanto da un comportamento univoco e concludente idoneo a rappresentare che l’atto è compiuto per un altro soggetto, nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetti (cfr. altresì Cass. III civ. n. 17157 del 3/12/2002, secondo cui la forma scritta prevista per la costituzione in mora, che ha natura di atto giuridico in senso stretto, non può ritenersi prescritta anche per il conferimento della relativa procura, non operando in tale ipotesi il richiamo fatto, in tema di atti unilaterali aventi contenuto patrimoniale, dall’art. 1324 cod. civ. alla disciplina propria dei contratti; ne consegue che la procura per la costituzione in mora ben può risultare da un comportamento univoco e concludente posto in essere anche da un mandatario, idoneo – secondo apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – a rappresentare al terzo che l’atto è compiuto per un altro soggetto, nella cui sfera giuridica è destinato a produrre effetti. Conforme Cass. lav. n. 1550 del 26/01/2006.
V. pure in senso analogo Cass. III civ. n. 4347 del 23/02/2009.
Parimenti, secondo Cass. lav. n. 9046 del 16/04/2007: anche se l’atto di costituzione in mora – idoneo ai fini dell’interruzione della prescrizione – richiede la forma scritta, tuttavia analoga formalità non è imposta per il conferimento della relativa procura, non operando in tale ipotesi il richiamo fatto dall’art. 1324 cod. civ. alla disciplina propria dei contratti per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale. Pertanto, l’esistenza di un potere rappresentativo a detti fini può essere provato con ogni mezzo di prova e, quindi, anche mediante presunzioni. Nella specie, alla stregua dell’enunciato principio, veniva quindi cassata con rinvio la sentenza impugnata, nella cui motivazione non era stato spiegato perché il conferimento della procura alle liti ad un legale per il recupero del credito in via giudiziaria, relativo ad interessi e rivalutazione su ratei pensionistici, non potesse essere utilizzato come argomento di prova per dedurne che lo stesso avesse ricevuto mandato per ottenere in via stragiudiziale il pagamento del medesimo credito con l’invio di un telegramma a sua firma, senza che la circostanza che il conferimento della procura alle liti fosse presumibilmente successivo alla spedizione dell’atto stragiudiziale e al compimento della prescrizione potesse essere di ostacolo alla valutazione di quei fatti, in funzione della prova dell’esistenza del potere rappresentativo, proprio in virtù dell’affermata libertà di forma caratterizzante quest’ultimo aspetto.
Similmente, Cass. lav. n. 3873 del 22/02/2006 ha affermato che, ai fini della costituzione in mora del debitore e della interruzione del termine di prescrizione, è sufficiente che il mandatario sia investito, anche senza formalità, di un generico potere di rappresentanza, dimostrabile con ogni mezzo di prova, comprese le presunzioni. Nella specie, quindi, veniva annullata la sentenza impugnata, la quale aveva ritenuto che non fosse idonea ad interrompere il decorso del termine di prescrizione una lettera firmata da soggetto sfornito di procura scritta ai fini dell’atto giuridico extragiudiziale, poi designato dal lavoratore medesimo quale difensore con procura a margine del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.
V. ancora Cass. lav. n. 17997 del 16/12/2002: ai fini di una efficace costituzione in mora per conto del rappresentato, è sufficiente che il mandatario sia investito, anche senza formalità, di un generico potere di rappresentanza, dimostrabile con ogni mezzo di prova, comprese le presunzioni.
Cfr., per altro verso, anche Cass. III civ. n. 12617 del 28/08/2003, secondo cui l’atto di costituzione in mora può avere efficacia interruttiva della prescrizione, ai sensi dell’art. 2943 c.c., anche qualora sia indirizzato al rappresentante del debitore, ovvero ad un soggetto che abbia agito in tale qualità, benché privo del potere di rappresentanza, qualora risulti applicabile il principio dell’apparenza del diritto, che può essere invocato nei confronti dell’apparente rappresentato, nel caso in cui questi abbia tenuto un comportamento colposo, tale da giustificare nel terzo il ragionevole convincimento che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente. Conforme Cass. n. 204 del 2003).
Nei sensi anzidetti, pertanto, va accolto il primo motivo del ricorso principale, con conseguente cassazione sul punto della impugnata pronuncia, mediante rinvio al giudice di merito, che, uniformandosi ex art. 384 c.p.c. agli enunciati principi di diritto, previ opportuni e pertinenti accertamenti in punto di fatto (sia in relazione al concreto potere di rappresentanza nella specie dedotto con l’anzidetta censura in relazione alla lettera ricevuta da parte datoriale il 28 maggio 2003, sia con riferimento all’eccepita prescrizione riguardo alla all’effettiva portata domanda avanzata dagli attori in occasione del giudizio di primo grado – eccezione che infatti da un lato si assumeva assorbita nei limiti del petitum formulato, ma d’altro canto veniva ugualmente, sebbene in parte, riconosciuta fondata come da successive argomentazioni e corrispondenti statuizioni a pagina 8 della medesima sentenza n. 6625/10), provvederà di conseguenza, anche in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità.
Ed invero, le restanti censure del ricorso principale vanno disattese, alla luce delle seguenti considerazioni.
Infatti, con il secondo motivo si invoca inutilmente a sostegno della tesi (secondo cui l’effetto interruttivo della prescrizione ex art. 410 c.p.c., comma 2, dovrebbe essere connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione, con la richiesta del lavoratore, indipendentemente dalla successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di lavoro) la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla impugnazione del licenziamento. Va in proposito osservato che la norma richiamata, conservata anche nella formulazione della L. n. 183 del 2010, art. 31 (“la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”) fa riferimento a due istituti profondamente diversi. Mentre il fondamento della prescrizione consiste nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del titolare, il fondamento della decadenza si coglie nell’esigenza obiettiva del compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito dalla legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le situazioni soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine o l’inerzia del titolare, e senza possibilità di applicare alla decadenza le norme relative all’interruzione della prescrizione. Come questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1 giugno 2006 n. 13046), la disposizione intende chiaramente distinguere gli effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione ha ai fini della interruzione della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano con riferimento ai termini decadenziali. Riguardo alla decadenza dal potere di impugnazione del licenziamento, la sospensione del termine opera a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura di conciliazione (contenente l’impugnativa del licenziamento) essendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (v. in tal senso la giurisprudenza consolidata a partire da Cass. 19 giugno 2006 n. 14087). Invece, soltanto la comunicazione al debitore della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione determina l’interruzione della prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza (cfr. tra l’altro Cass. lav. n. 20153 del 18/10/2005, secondo cui in particolare, attesa la natura ricettizia degli atti interruttivi della prescrizione e considerato che il legislatore parla di interruzione e non di sospensione della prescrizione, deve ritenersi che la comunicazione, che interrompe la prescrizione e sospende il decorso di ogni termine di decadenza, è quella fatta al datore di lavoro.
Cfr. pure Cass. lav. n. 967 del 21/01/2004, laddove si riteneva comunque necessaria la comunicazione, ai sensi dell’art. 410, comma secondo, cod. proc. civ., per la produzione degli effetti interruttivi della prescrizione).
D’altro canto, va pure ricordata la regola fissata, in generale, dall’art. 1334 c.c. in ordine alla efficacia degli atti unilaterali, secondo la quale tali atti producono effetto dal momento in cui pervengono a conoscenza della persona alla quale sono destinati.
Nello specifico caso qui in esame, per altro verso, non può nemmeno venire in qualche modo in rilievo il principio recentemente affermato dalle sezioni unite civili di questa Corte con la sentenza n. 24822 del 07/07 – 09/12/2015, ma in tema di azione revocatoria ex art. 2901 c.c. e ss., secondo cui la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario, sancita dalla giurisprudenza costituzionale con riguardo agli atti processuali e non a quelli sostanziali, si estende anche agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, sicché, in tal caso, la prescrizione è interrotta dall’atto di esercizio del diritto, ovvero dalla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre in ogni altra ipotesi tale effetto si produce solo dal momento in cui l’atto perviene all’indirizzo del destinatario. Tale pronuncia riguarda, infatti, l’esercizio dei diritti potestativi, per i quali l’effetto interruttivo della prescrizione consegue unicamente alla proposizione della relativa domanda giudiziale, risultando al contrario inidoneo qualsiasi atto stragiudiziale di costituzione in mora, la cui efficacia, ai fini di quanto previsto dall’art. 2943, comma 4, c.c., è limitata ai diritti cui corrisponde un obbligo di prestazione della controparte, e non anche ai diritti potestativi, cui si collega una posizione di mera soggezione della controparte all’iniziativa altrui (in tal sensi cfr. tra l’altro Cass. II civ. n. 8417 del 27/04/2016. V. tra le altre pure Cass. II civ. n. 3379 del 15/02/2007, secondo cui in tema di azione revocatoria ordinaria, la posizione del creditore ha natura di diritto potestativo, al quale pertanto non corrisponde l’obbligo di un soggetto a una prestazione una la mera posizione di soggezione all’iniziativa altrui; ne consegue che non è configurabile l’esistenza di un atto interruttivo del decorso della prescrizione diverso dalla domanda giudiziale). Per converso (cfr. Cass. lav. n. 25861 del 21/12/2010), gli atti interruttivi della prescrizione riconducibili alla previsione dell’art. 2943, quarto comma, cod. civ., consistono in atti recettizi, con i quali il titolare del diritto manifesta al soggetto passivo la sua volontà non equivoca, intesa alla realizzazione del diritto stesso. Essi, pertanto, possono produrre tale effetto limitatamente ai diritti ai quali corrisponde nel soggetto passivo un dovere di comportamento, e non anche per i diritti potestativi, ai quali fa riscontro una situazione di mera soggezione, anziché di obbligo, nel soggetto controinteressato.
Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto agli anzidetti consolidati e qui condivisi principi di diritto, escludendo l’interruzione della prescrizione in assenza di prova della suddetta comunicazione alla società datrice di lavoro.
Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale devono essere disattesi, perché la valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque, l’utilizzazione o meno del ragionamento presuntivo può essere criticata in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione, ma tale censura non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, dovendo far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; resta peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario (nella specie, neppure specificamente dedotto) possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. per tutte Cass. 21 ottobre 2003 n. 15737, 11 maggio 2007 n. 10847).
Il quinto motivo dello stesso ricorso principale appare anch’esso infondato, essendo sufficiente rilevare in proposito che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. D’altro canto, non è neppure prospettabile una impossibilità del lavoratore di fornire la prova della avvenuta trasmissione al datore di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione; prova che può essere certamente acquisita con l’accesso alla documentazione presso l’ufficio. Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, prospettata per la violazione degli artt. 24, 36 e 111 Cost., in relazione alla prova dell’atto interruttivo della prescrizione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale. Respinti gli altri e rigettato integralmente il ricorso incidentale, cassa l’impugnata sentenza. Rinvia, quindi, in relazione all’accolto motivo del ricorso principale, alla Corte di Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio di legittimità
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