Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 28 settembre 2017, n. 22720. Licenziamento intimato durante la gravidanza alla lavoratrice madre

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5. Il tenore testuale della norma, come gia’ osservato da questa Corte di cassazione con le sentenze nn. 18810/2013 e 18363/2013 cui si intende dare continuita’, indica che solo in caso di cessazione dell’attivita’ dell’intera azienda e’ possibile il collocamento in mobilita’ della lavoratrice madre, in quanto il Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 54, comma 3, lettera b), prevede la non applicabilita’ del divieto di licenziamento di cui al comma 1 nell’ipotesi chiara di “cessazione dell’attivita’ dell’azienda” alla quale la lavoratrice e’ addetta e trattandosi di norma che pone un’eccezione ad un principio di carattere generale (e cioe’ quello fissato dall’articolo 54, comma 1, di divieto del licenziamento della lavoratrice che si trovi nelle condizioni ivi specificate), essa non puo’ che essere di stretta interpretazione e non e’ suscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Ritiene quindi il Collegio di dare ulteriore continuita’ al principio di diritto affermato da questa Corte nella sentenza n. 10391 del 2005 secondo cui, in tema di tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento dettato dal Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 54 – secondo cui e’ vietato il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonche’ fino al compimento di un anno di eta’ del bambino – prevista dall’articolo 54, comma 3, lettera b), del medesimo decreto, opera nell’ipotesi di cessazione di attivita’ dell’azienda alla quale la lavoratrice e’ addetta ed e’ insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica; ne consegue che, per la non applicabilita’ del divieto devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla citata lettera b), ovvero che il datore di lavoro sia un’azienda, e che vi sia stata cessazione dell’attivita’.

6. Deve, darsi atto della circostanza che la giurisprudenza di legittimita’ aveva in precedenza interpretato la locuzione “cessazione dell’attivita’ di azienda” come estensibile alla soppressione di un ramo o reparto del tutto autonomo e salva la prova del repechage (Cass. 21.12.2004 n. 23684, conf. Cass. 8.9.1999 n. 9551), enunciando tale principio nell’ambito di fattispecie regolate dalla L. n. 1204 del 1971. Questa, seppure all’articolo 2, comma 3, lettera b) conteneva una previsione analoga a quella del Decreto Legislativo 30 dicembre 2001, n. 151, articolo 54, comma 3, lettera b) al comma 4, era priva della specificazione (del divieto di collocamento in mobilita’ a seguito di licenziamento collettivo, salva l’ipotesi della cessazione dell’attivita’ dell’azienda) introdotta dal legislatore del 2001 in funzione rafforzativa della tutela della lavoratrice madre. La collocazione di tale previsione dopo quella relativa alla sospensione dal lavoro (“…la lavoratrice non puo’ essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l’attivita’ dell’azienda o del reparto cui essa e’ addetta, sempreche’ il reparto stesso abbia autonomia funzionale”) costituisce un’indicazione interpretativa che porta a ritenere che quello che costituiva il parametro comune assunto dalla giurisprudenza per giungere ad assimilare l’ipotesi di cessazione dell’attivita’ di un ramo o reparto autonomo a quella dell’intera azienda, ai fini dell’operativita’ delle deroga al divieto legale, non sia piu’ validamente richiamabile per le fattispecie regolate (come quella in esame) dal Decreto Legislativo 26 marzo 2001, n. 151 e che, dunque, non sia argomentabile l’estensione interpretativa prima sostenuta.

7. Peraltro, nelle decisioni di questa Corte sopra richiamate, si e’ opportunamente messo in evidenza che anche nella vigenza della L. n. 1204 del 1971, l’orientamento di legittimita’ non era univoco. La sentenza n. 1334 del 1992 aveva infatti affermato che le disposizioni della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, articolo 2, che prevedono entro limiti precisi e circoscritti deroghe al generale divieto di licenziamento della lavoratrice madre dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di eta’ del bambino, riferibili a casi in cui l’estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato, non possono essere interpretate in senso estensivo. Pertanto la disposizione della lettera b) del citato articolo – che nel periodo suddetto consente al datore di lavoro di recedere dal rapporto nel caso di cessazione dell’attivita’ dell’azienda – non puo’ essere intesa come comprensiva del caso di cessazione dell’attivita’ di un singolo reparto dell’azienda, seppur dotato di autonomia funzionale, atteso che il legislatore ha considerato tale articolazione dell’azienda solo dello stesso articolo 2, u.c., disponendo che nel periodo in cui opera il divieto di licenziamento la lavoratrice non puo’ essere sospesa dal lavoro, salvo che sia sospesa l’attivita’ dell’azienda o del reparto al quale la medesima e’ addetta, sempreche’ il reparto abbia autonomia funzionale (in tal senso sono state richiamate anche Cass. n. 1334/92; n. 6236 del 1986).

8. Da quanto sin qui espresso emerge con chiarezza che l’aver chiuso e cessato l’attivita’ del solo contact center di l’Aquila, ove la (OMISSIS) prestava attivita’ – non puo’ integrare in favore della societa’ ricorrente il presupposto della cessazione dell’attivita’ aziendale che avrebbe reso inoperante il divieto di licenziamento della lavoratrice madre.

9. Il secondo profilo del motivo del ricorso – che verte sulla dimostrazione della effettiva cessazione dell’attivita’ della sede di l’Aquila – presuppone l’adesione al diverso orientamento secondo cui il caso della cessazione dell’attivita’ dell’azienda, in relazione al quale il Decreto Legislativo n. 151 del 2001, articolo 54, comma 3, lettera b) – al pari della L. 30 dicembre 1971, n. 1204, articolo 2, comma 3, lettera b), – prevede l’inapplicabilita’ del divieto di licenziamento della lavoratrice, e’ integrato anche dalla soppressione di un reparto organizzato avente autonomia funzionale, qualora la lavoratrice ad esso addetta non sia piu’ utilmente collocabile in un reparto diverso. In ogni caso, pure ove di accedesse a tale interpretazione, il motivo sarebbe inammissibile.

Premesso che grava sul datore di lavoro l’onere di fornire la prova dell’impossibilita’ di ogni altra utile collocazione della lavoratrice in altri rami dell’azienda diversi da quello la cui attivita’ sia cessata (cfr. in tal senso, Cass. 16 novembre 1985 n. 5647, 26 marzo 1982 n. 1897, 11 dicembre 1982 n. 6806), la censura con cui la societa’ ricorrente investe la decisione per non avere approfondito tali aspetti (vedi punto 21 del ricorso) e’ del tutto generica ed inidonea ad incrinare la logicita’ e coerenza della motivazione. Invero, si trattava di dare dimostrazione di un fatto negativo come quello che costituiva oggetto dell’onere probatorio gravante sul datore di lavoro per cui lo stesso avrebbe dovuto offrire prova di fatti positivi, come il fatto che i residui posti di lavoro relativi a mansioni equivalenti fossero al tempo del licenziamento stabilmente occupati o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo lasso di tempo non sia stata effettuata alcuna assunzione nella stessa qualifica (Cass. 13 novembre 2001, n. 14093 e 9 settembre 2003 n. 13187).

9. Le spese relative al giudizio di legittimita’ sono a carico della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza.

Sussistono le condizioni per il versamento da parte della ricorrente principale del doppio contributo previsto dal Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’ che liquida in Euro 3000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15 per cento e spese accessorie.

Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis.

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