Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 27 febbraio 2014, n. 4724
Svolgimento del processo
Con sentenza in sede di rinvio del 11.3.2011, la Corte di appello di Roma dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato a D.C.C. il 29.4.2004 e condannava la s.p.a. Banca Monte Paschi di Siena a reintegrare il predetto nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto dal recesso alla reintegra, con detrazione dell'”aliunde perceptum” pari ad Euro 21.855,41. Rilevava la Corte del merito che era incontestato che l’ispezione disposta dalla Banca – che aveva consentito di pervenire alla contestazione di addebito disciplinare per avere il D.C. assunto, quale Direttore di Filiale, arbitrarie iniziative che avevano contribuito a determinare la progressiva lievitazione delle esposizioni, con conseguenze dannose e rischio per l’istituto – iniziata il 17.6.2003 e conclusasi il 15.7.2003 con verbale ispettivo ultimato il 19.9.2003, inoltrato dall’Ispettorato alla Direzione Generale, e pervenuto il 2.10.2003, per le conseguenti valutazioni e l’adozione dei provvedimenti ritenuti opportuni, solo in data 2.1.2004 era stata seguita dall’invio, da parte del Dipartimento Risorse Umane, della contestazione disciplinare, pervenuta all’interessato il 12 gennaio. Dal momento in cui la Direzione Generale aveva avuto a disposizione le risultanze dell’Ispezione a quello in cui il soggetto deputato aveva inviato la contestazione erano trascorsi circa tre mesi e l’entità delle articolazioni della struttura aziendale non poteva rilevare se non ai fini del giudizio di complessità delle indagini, dovendo tale ragione ritenersi inidonea a giustificare il lasso di tempo intercorso tra il ricevimento del verbale ispettivo e la contestazione, in considerazione dei principi enunciati dalla Corte di Cassazione in sede di rinvio, con pronunzia n. 13167/2009. Non risultava che la Banca avesse dato seguito ad ulteriori accertamenti, onde il lasso di tempo indicato doveva ritenersi ingiustificato e la contestazione tardiva.
Per la cassazione di tale decisione ricorre la Banca, affidando l’impugnazione a due motivi, illustrati nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Resiste, con controricorso, il D.C. .
Motivi della decisione
Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., assumendo che la Corte territoriale non ha tenuto minimamente conto del fatto che la Direzione Generale non avrebbe potuto in alcun modo formalizzare la contestazione disciplinare immediatamente dopo avere ricevuto la relazione ispettiva, avendo bisogno di un fisiologico spatium deliberandi per valutare nella loro oggettività i fatti accertati in sede ispettiva per verificare, all’esito della valutazione, la sussistenza di elementi tali da determinare la necessità di apertura del procedimento disciplinare, per ottenere la relativa delibera e redigere la lettera di contestazione. Rileva la ponderosa mole della relazione e dei documenti a sostegno di essa tale da non potere all’evidenza dare luogo ad un’immediata contestazione senza una preventiva e ponderata valutazione da parte degli organi aziendali deputati ad assumere le deliberazioni del caso ed alla predisposizione della complessa lettera di contestazione (riferita ad accensione di rapporti intestati a nominativi con pregiudizievoli, creazione di esposizioni notevoli attraverso la concessione di numerosi sconfinamenti o utilizzi in assenza di linee di credito, mancata istruttoria e mancata richiesta di garanzie per i rapporti affidati). Descrive tutte le operazioni oggetto di verifica e rileva che l’Azienda non aveva tenuto un comportamento inerte, avendo allontanato il dipendente dall’agenzia e privato lo stesso del ruolo di Direttore ricoperto nelle more dell’ispezione e dell’apertura del procedimento disciplinare e denotando tale comportamento la volontà datoriale di irrogare la sanzione del licenziamento e di valutare la rilevanza disciplinare del comportamento tenuto dal dipendente. Non aveva, in conclusione, la Corte tenuto conto della estrema complessità della vicenda fattuale, della estrema complessità dell’iter di apertura del procedimento disciplinare, del comportamento complessivo dell’azienda, dell’esigenza del pieno dispiegarsi del diritto di difesa del D.C. .
Con il secondo motivo, denunzia ugualmente un vizio motivazionale circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., sostenendo come inadeguata la motivazione a sostegno della decisione di condannare la Banca al pagamento di un risarcimento commisurato ad un intervallo temporale di ben sette anni ed evidenziando la mancanza di ogni indagine diretta a verificare il comportamento colposo del D.C. , che aveva aggravato i danni economici conseguenti al licenziamento intimatogli, non essendosi attivato per la ricerca di un nuovo impiego.
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo dei motivi di impugnazione, rileva il collegio che la tempestività della contestazione di cui all’art. 7, secondo comma, legge n. 300 del 1970, va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti. Quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato ove il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale (cfr. Cass. 27.3.2008 n. 7983). Giova, poi, al riguardo, anche osservare, con riferimento ai requisiti che qualificano la tempestività della contestazione e della sanzione disciplinare, come questa Suprema Corte abbia ribadito che il principio tanto dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, quanto della tempestività del recesso, la cui ratio riflette l’esigenza del rispetto della regola della buona fede e correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, oltre che dei principi di certezza del diritto e di tutela dell’affidamento del lavoratore incolpato, deve essere inteso in senso relativo, potendo essere compatibile con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, ad una adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e delle giustificazioni da lui fornite. Più in particolare, si è affermato che, nel valutare l’immediatezza della contestazione ai fini dell’intimazione del licenziamento disciplinare, occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione; con la conseguenza che l’aver presentato a carico di un lavoratore denuncia per un fatto penalmente rilevante, connesso con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti (v. ad es. Cass. n. 1101/2007; Cass. n. 4502/2008).
Il che, se conferma la relatività che riveste il criterio di immediatezza e il rilievo che assume, al riguardo, il sindacato del giudice di merito, porta, al tempo stesso, a riconoscere che un bilanciamento coerente degli interessi sottesi al procedimento di disciplina non consente di individuare nella potenziale rilevanza penale dei fatti accertati e nella conseguente denuncia all’autorità inquirente circostanze di per sé sole esonerative dall’obbligo di immediata contestazione, in considerazione della rilevanza che tale obbligo assume rispetto alla tutela dell’affidamento e del diritto di difesa del lavoratore incolpato, sempre che i fatti riscontrati facciano emergere, in termini di ragionevole certezza, significativi elementi di responsabilità a carico del lavoratore. E quindi, in altri termini, solo se l’intervallo di tempo trascorso sia giustificato non dalla necessità di un accertamento integrale e compiuto del fatto, ma dall’esigenza per il datore di lavoro di acquisire conoscenza della riferibilità del fatto, nelle sue linee essenziali, al lavoratore medesimo (cfr., in tali termini, Cass. 7409/2010).
Nella fattispecie all’esame, correttamente la Corte del merito ha ritenuto in violazione del principio di tempestività e quindi tardiva la contestazione disciplinare inviata dal Dipartimento Risorse Umane e pervenuta al D.C. soltanto il 12.1.2004, quando il verbale ispettivo era stato ultimato il 19.9.2003 ed era pervenuto alla Direzione Generale il 2.10.2003. Ed invero, posto che l’ispezione era iniziata il 17.6.2003, non poteva ritenersi giustificata una contestazione effettuata dopo un lasso di tempo non idoneo a garantire un’efficace esplicazione del diritto di difesa dell’interessato, in considerazione dell’epoca risalente di commissione dei fatti addebitati.
Deve ritenersi, poi, che gravi sul datore di lavoro l’onere di provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l’accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare (v. sul punto anche Cass. n. 1101/2007; Cass. n. 2023/2006.
Nel caso considerato, il giudice d’appello ha dato congruamente conto della eccessiva protrazione temporale della vicenda disciplinare, non giustificata neanche dall’esigenza di attesa dello svolgimento di un processo penale, non essendo stato dimostrato che la struttura dell’azienda fosse tale, per le sue dimensioni e per l’articolazione delle procedure interne in materia disciplinare, da giustificare l’attesa di tempi tecnici adeguati e comunque non potendo difficoltà o carenze organizzative pregiudicare il diritto del lavoratore ad una pronta effettiva difesa, senza considerare il giusto affidamento del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione “disciplinare”, non essendo l’esercizio del potere disciplinare un obbligo ma una facoltà (cfr. Cass. 13167/2009).
La seconda censura che si fonda sull’assunto della mancata valutazione del comportamento negligente del prestatore che avrebbe dovuto mantenere un comportamento diverso da quello inerte tenuto nel periodo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo, deve essere ritenuta ugualmente priva di giuridico fondamento, posto che grava sul datore di lavoro la prova del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione ed abbia percepito importi idonei a ridurre l’entità del danno. Tale principio è stato reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum” dalle retribuzioni dovute, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte venga la prova, che il lavoratore ha trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, tale essendo il fatto idoneo a ridurre l’entità del danno risarcibile (cfr. Cass. 10 aprile 2012 n. 5676, Cass. 26 ottobre 2010 n. 21919). Più specificamente, in tema di entità del danno conseguente all’illegittimità del licenziamento, è stato ribadito che, in tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che contesti la richiesta risarcitoria pervenutagli dal lavoratore è onerato, pur con l’ausilio di presunzioni semplici, della prova dell’”aliunde perceptum” o dell1 “aliunde percipiendum”, a nulla rilevando la difficoltà di tale tipo di prova o la mancata collaborazione del dipendente estromesso dall’azienda, dovendosi escludere che il lavoratore abbia l’onere di farsi carico di provare una circostanza, quale la nuova assunzione a seguito del licenziamento, riduttiva del danno patito.
Alle esposte considerazione consegue il rigetto del ricorso.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della società ricorrente e si liquidano come da dispositivo, con attribuzione in favore del difensore che ha dichiarato di averle anticipate. Non sussistono i presupposti per la responsabilità processuale aggravata della ricorrente, ex art. 96 c.p.c., ai fini dell’ulteriore risarcimento del danno.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed in Euro 4500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell’avv. Micaela Pisacane.
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