La ratio dell’articolo 51 della costituzione è di porre il lavoratore chiamato a svolgere funzioni pubbliche elettive o cariche sindacali nella condizione di svolgere meglio il suo incarico, senza però porlo in situazione di privilegio rispetto agli altri dipendenti dello stesso datore, la garanzia ha il solo scopo di escludere che l’accettazione del mandato comporti in sé la perdita del posto
Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 26 maggio 2016, n. 10950
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VENUTI Pietro – Presidente
Dott. MANNA Antonio – Consigliere
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21426/2014 proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliala in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6394/2014 della CORTE, D’APPELLO di ROMA, depositata il 10/07/2014 r.d.n. 1023/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/03/2016 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha conclusa per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 10.7.14 la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo L. n. 92 del 2012, ex articolo 1, comma 58, proposto dal dr. (OMISSIS) contro la sentenza n. 2177/14 con cui il Tribunale capitolino ne aveva confermato il licenziamento disciplinare per prolungate violazioni dell’orario di lavoro intimatogli il 28.1.13 dalla (OMISSIS) S.p.A..
Per la cassazione della sentenza ricorre il dr. (OMISSIS) affidandosi ad otto motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex articolo 378 c.p.c..
L’intimata (OMISSIS) S.p.A. resiste con controricorso.
Parte ricorrente ha poi depositato procura notarile con nomina di nuovo difensore, vista la rinuncia al mandato manifestata dal precedente.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo mezzo si deduce omessa pronuncia su un motivo di reclamo nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di non doversi pronunciare in punto di proporzionalita’ della sanzione disciplinare espulsiva per asserita assenza d’uno specifico motivo di reclamo a riguardo, nonostante che, in realta’, esso fosse stato appositamente dedotto nel momento in cui in reclamo si lamentava la mancanza di una infrazione tanto grave da giustificare la rottura del rapporto fiduciario tra le parti.
Il motivo va disatteso per difetto di autosufficienza in quanto non trascrive ne’ allega l’atto di reclamo per evidenziare il passaggio in cui sarebbe stata mossa tale specifica censura.
2. Doglianza analoga a quella contenuta nel primo motivo di ricorso viene fatta valere con il secondo, sotto forma di violazione dell’articolo 2119 c.c., in quanto la Corte territoriale avrebbe comunque dovuto procedere al giudizio di proporzionalita’ fra illecito disciplinare e sanzione espulsiva, proporzionalita’ connaturata all’esistenza stessa del concetto di giusta causa.
Il motivo e’ fondato.
Si premetta che l’impugnata sentenza, mentre afferma l’esistenza, nel caso che ne occupa, d’una giusta causa di licenziamento, aggiunge esplicitamente di non potersi pronunciare – per difetto di specifico motivo di reclamo – sulla proporzionalita’ della sanzione espulsiva rispetto all’infrazione contestata.
In tal modo i giudici di seconde cure danno conto in maniera inequivocabile di non aver apprezzato il necessario rapporto di proporzionalita’ (v. articolo 2106 c.c.) fra illecito disciplinare e sanzione.
E’ – questo – un fatto processuale che vince l’ipotesi (ventilata dalla controricorrente) che nel configurare l’esistenza d’una giusta causa di licenziamento i giudici del reclamo abbiano, sia pure implicitamente, riconosciuto anche la proporzionalita’ fra sanzione e infrazione.
L’errore in cui incorre la gravata sentenza risiede nel ritenere che il giudizio di proporzionalita’ possa scindersi da quello circa la sussistenza o meno d’una giusta causa o d’un giustificato motivo di licenziamento, al punto da avere bisogno d’un apposito e specifico motivo di reclamo in assenza del quale al giudice di secondo grado non sarebbe consentito delibare la questione.
E’ vero, invece, il contrario, atteso che – per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema – il giudice di merito, investito del giudizio circa la legittimita’ d’un provvedimento disciplinare, deve necessariamente valutare la sussistenza o meno del rapporto di proporzionalita’ tra l’infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore e di tutti gli altri elementi idonei a consentire l’adeguamento della disposizione normativa dell’articolo 2119 c.c., richiamato dall’articolo 1 della legge n. 604/66 – alla fattispecie concreta (cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/11; Cass. n. 736/02; Cass. n. 1144/2000).
In altre parole, il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve verificare che l’infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravita’ dell’addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all’adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass. n. 15058/15; Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n. 16260/04; Cass. n. 5633/01).
L’impugnata sentenza non si e’ attenuta a tale principio, ritenendo di dover arrestare la propria cognizione alla sola verifica della gravita’ in astratto – e non anche in concreto – dell’infrazione contestata all’odierno ricorrente sol perche’ il reclamante non avrebbe mosso una specifica censura in punto di proporzionalita’ della sanzione, limitandosi a protestare l’insussistenza dell’addebito.
Ma – giova ribadire – deve essere svolto anche d’ufficio l’apprezzamento relativo alla proporzionalita’ fra sanzione ed illecito disciplinare, poiche’ attiene alla sua stessa sussumibilita’ sotto il concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento: diversamente, risulterebbe interrotta la sequenza logica “fatto norma effetto giuridico” attraverso la quale si afferma l’esistenza d’un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico (cfr. Cass. n. 14670/15; Cass. n. 4572/13; Cass. n. 16583/12; Cass. 29.7.2011 n. 16808; Cass. n. 27196/06; Cass. 29.10.98 n. 10832;Cass. 10.7.98 n. 6769).
La singola impugnazione anche d’uno solo degli elementi di tale sequenza esclude che sugli altri si formi acquiescenza ex articolo 329 cpv. c.p.c. e riapre per intero l’esame della statuizione intesa come minima unita’ suscettibile di acquisire la stabilita’ del giudicato interno, imponendo al giudice dell’impugnazione di riconsiderarla tanto in punto di diritto (per verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione) quanto in punto di fatto.
3. Il terzo motivo denuncia violazione dell’articolo 437 c.p.c. per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto tardiva l’argomentazione difensiva circa l’antica e prolungata tolleranza, da parte della societa’, della flessibilita’ oraria della prestazione resa dal ricorrente: si tratta – prosegue il ricorso – non d’una eccezione in senso stretto, bensi’ di una circostanza fattuale verificabile anche d’ufficio da parte del giudice e comunque emersa all’esito delle difese della stessa societa’ e delle deposizioni testimoniali.
Il motivo va disatteso.
Infatti, pur dovendosi qualificare l’assunto del reclamante come mera difesa in punto di fatto e non gia’ come eccezione in senso stretto, nondimeno deve rammentarsi che mentre le argomentazioni giuridiche sono sempre e in ogni tempo suscettibili di essere portate all’attenzione del giudicante, non altrettanto puo’ dirsi per le mere difese (o attivita’ meramente assertive) con cui si contestino i fatti costitutivi dell’altrui pretesa.
Tale contestazione, se operata in secondo grado, e’ tardiva: essa, pur non integrando un’eccezione (ne’ in senso lato ne’ in senso stretto), risulta comunque preclusa ostandovi il divieto di contestazioni nuove, ossia non esplicate in primo grado (cfr. Cass. 28.2.14 n. 4854; Cass. 28.5.07 n. 12363; Cass. 16.2.2000 n. 1745) e cio’ perche’ nuove contestazioni in secondo grado, modificando i temi di indagine, trasformerebbero il giudizio d’appello da mera revisio prioris instantiae in iudicium novum, il che e’ estraneo al vigente ordinamento processuale.
Inoltre, altererebbero la parita’ delle parti esponendo l’altra parte – a fronte della tardiva contestazione effettuata solo in appello dall’avversario all’impossibilita’ di chiedere l’assunzione di quelle prove cui, in ipotesi, aveva rinunciato ormai confidando nella mancata altrui contestazione.
Dunque, e’ la logica stessa che presiede al principio di non contestazione e al giudizio d’appello ad escludere che in secondo grado possano introdursi nuove contestazioni in punto di fatto.
Unica eccezione a tale principio ricorre – ma, all’evidenza, non e’ questo il caso – in ipotesi di parte contumace in primo grado, la quale in appello ben puo’ opporre eccezioni rilevabili d’ufficio e svolgere mere difese (cfr., e pluribus,Cass. n. 25281/09), senza pero’ poter sollevare eccezioni in senso stretto e/o chiedere l’ammissione di mezzi di prova (se non nei limiti di cui a Cass. S.U. nn. 8203 e 8202/05).
4. L’esistenza d’una pregressa tolleranza aziendale viene fatta valere anche nel quarto motivo di ricorso sotto forma di violazione dell’articolo 7 Stat. per mancata tempestivita’ della contestazione disciplinare, in quanto mossa per fatti assai risalenti nel tempo.
Anche tale motivo non puo’ trovare accoglimento perche’, ad onta del richiamo normativo in esso contenuto, in realta’ in esso si sollecita soltanto una rivisitazione nel merito del materiale istruttorio, operazione non consentita in sede di legittimita’.
In altre parole, il ricorso si dilunga nell’opporre al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non e’ idoneo a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui al Decreto Legge n. 83 del 2012, articolo 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134).
Infatti, i vizi argomentativi deducibili con il ricorso per cassazione ai sensi del previgente testo dell’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non possono consistere in apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti, perche’ a norma dell’articolo 116 c.p.c., rientra nel potere discrezionale – come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilita’, l’affidabilita’ e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti, con l’unico limite di supportare con congrua e logica motivazione l’accertamento eseguito (v., ex aliis, Cass. n. 2090/04;Cass. S.U. n. 5802/98).
Le differenti letture ipotizzate in ricorso scivolano sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema, cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonche’ la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che cio’ possa tradursi in un nuovo accertamento, ovvero nella ripetizione dell’esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti.
A sua volta il controllo in sede di legittimita’ delle massime di esperienza non puo’ spingersi fino a sindacarne la scelta, che e’ compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.
Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice e’ chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziari.
Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, pero’, di qualunque pur minima plausibilita’.
Cio’ detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza ne’ violazioni di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimita’, che non puo’ prendere in considerazione quale ipotetica illogicita’ argomentativa la mera possibilita’ di un’ipotesi alternativa rispetto a quella ritenuta in sentenza.
Ne’ il ricorso isola (come invece avrebbe dovuto) singoli passaggi argomentativi per evidenziarne l’illogicita’ o la contraddittorieta’ intrinseche e manifeste (vale a dire tali da poter essere percepite in maniera oggettiva e a prescindere dalla lettura del materiale di causa), ma ritiene di poter suffragare la propria doglianza con il mero confronto con documenti e deposizioni, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti innanzi a questa Corte Suprema.
In breve, la gravata pronuncia ha – con motivazione immune da vizi logici o giuridici – escluso che sia emersa la prova di tale pregressa prassi aziendale di tolleranza della flessibilita’ oraria della prestazione resa dal ricorrente.
5. Il quinto motivo denuncia omessa pronuncia sull’eccepita genericita’ della contestazione disciplinare.
Il motivo va disatteso, sia pure integrandosi come segue la motivazione della sentenza impugnata, che effettivamente non si e’ pronunciata su tale specifico motivo di reclamo.
In proposito ritiene questa Corte di aderire all’orientamento (cfr. Cass. n. 28663/13) secondo cui la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame.
In siffatta evenienza la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonche’ dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’articolo111 Cost., comma 2, ha il potere, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 384 c.p.c., di correggere la motivazione, anche a fronte di un error in procedendo (tale essendo la motivazione omessa) mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (altri precedenti propendono invece, sempre che non siano necessari nuovi accertamenti in punto di fatto, per la cassazione senza rinvio con decisione nel merito ex articolo 384 c.p.c., comma 2: cfr. Cass. n. 21968/15; Cass. n. 5729/12; Cass. n. 15112/13; Cass. n. 2313/10).
Cio’ premesso in rito, la censura va disattesa per l’assorbente rilievo che la contestazione disciplinare – riprodotta nel controricorso – non e’ affatto generica, perche’ menziona la violazione dell’orario di lavoro (indicando che il ricorrente e’ stato mediamente presente solo per tre ore al giorno) e le necessarie coordinate topico – temporali dell’infrazione.
6. Il sesto motivo deduce violazione dell’articolo 437 c.p.c., nella parte in cui la gravata pronuncia ha ritenuto tardiva la denunciata violazione dell’articolo51 Cost., nonostante che – in realta’ – essa fosse stata sollevata gia’ nel ricorso in opposizione L. n. 92 del 2012, ex articolo 1, comma 51, e che, ad ogni modo, integrasse unicamente una mera diversa prospettazione giuridica e non gia’ una domanda o un’eccezione nuova.
Sempre in ordine all’articolo 51 Cost., il settimo motivo ne denuncia la violazione avendone comunque la sentenza impugnata negato ogni rilevanza in base all’erroneo presupposto che, all’epoca del licenziamento, il ricorrente non fosse piu’ consigliere regionale: si obietta – invece – in ricorso che tale carica e’ stata conservata dal dr. (OMISSIS) fino al 25.3.13, ossia fino all’insediamento del nuovo Consiglio regionale e che, pertanto, sino a tutto il protrarsi del mandato elettivo egli non poteva in nessun caso essere licenziato, neppure per giusta causa; inoltre, l’addebito mossogli poteva integrare, a tutto voler concedere, mero giustificato motivo.
I due motivi, da delibarsi congiuntamente perche’ connessi, sono infondati per l’assorbente rilievo che il diritto di cui all’articolo 51 Cost., u.c., non impedisce il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo.
Come questa S.C. ha gia’ avuto modo di osservare in passato (cfr. Cass. n. 3144/89), la ratio dell’articolo 51 Cost., risiede nella necessita’ di porre il lavoratore chiamato a funzioni pubbliche elettive o a cariche sindacali nella condizione migliore per svolgere l’incarico, senza pero’ collocarlo in una situazione di privilegio rispetto a quella degli altri dipendenti dello stesso datore di lavoro, avendo tale garanzia il solo scopo di escludere che l’accettazione del mandato comporti di per se’ la perdita del posto di lavoro.
Ora, premesso che nel caso di specie non si controverte circa la mancanza di permessi per l’espletamento della carica elettiva (di consigliere regionale) o il diritto di chiedere l’aspettativa o in ordine ad un licenziamento intimato pel solo fatto dell’accettazione della carica elettiva di consigliere regionale, la (pacifica) permanenza (durante il mandato elettivo del dr. (OMISSIS), gia’ da tempo in corso) del sinallagma funzionale del rapporto di lavoro fra le parti conferma che il ricorrente ne conservava tutti gli obblighi, compreso quello del rispetto dell’orario di lavoro, sanzionabile in via disciplinare.
7. Lottavo motivo di ricorso denuncia – infine – violazione della L. n. 604 del 1966, articolo 4, e della L. n. 108 del 1990, articolo 3, anche in relazione all’articolo 51 Cost., per avere la Corte territoriale erroneamente escluso la prova del dedotto carattere discriminatorio (per ragioni politiche connesse al passaggio del ricorrente alla formazione politica “Fratelli d’Italia”) del licenziamento, sebbene esso emergesse dalla deposizione di due testimoni, come menzionata dalla stessa gravata pronuncia.
Il motivo va respinto perche’ scivola sul piano dell’apprezzamento nel merito delle risultanze istruttorie, che la Corte territoriale ha vagliato con motivazione immune da vizi logico-giuridici.
Valgano pertanto, anche in proposito, le considerazioni in punto di diritto gia’ svolte nel paragrafo che precede sub 3.
8. In conclusione, si accoglie il secondo motivo di ricorso e si rigettano le restanti censure, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che dovra’ attenersi al seguente principio di diritto:
“Il giudice di secondo grado investito del gravame con cui si chieda l’invalidazione d’un licenziamento disciplinare deve verificare che l’infrazione contestata, ove in punto di fatto accertata o pacifica, sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi, anche d’ufficio, apprezzare in concreto (e non semplicemente in astratto) la gravita’ dell’addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell’elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell’adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore rispetto all’adempimento dei suoi obblighi”.
Pertanto, il giudice di rinvio come sopra individuato dovra’ limitare la propria delibazione alla proporzionalita’ o meno del licenziamento disciplinare in relazione all’addebito per cui e’ causa, a tal fine valutandone tutti gli aspetti oggettivi (gravita’ della condotta, entita’ del danno arrecato etc.) e soggettivi (grado della colpa o intenzionalita’ della condotta e sua intensita’) ed ogni altra circostanza di fatto ad essi inerente, traendone la conferma o la smentita che il fatto oggetto della contestazione disciplinare mossa al dr. (OMISSIS) sia stato tale da minare irrimediabilmente la fiducia del datore di lavoro nei confronti del proprio dipendente.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigetta le restanti censure, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
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