Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza   20 giugno 2014, n. 14110

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Brescia, confermando la sentenza del Tribunale di quella stessa sede, rigettava la domanda di B.L. , proposta nei confronti della Camera di Commercio e dell’Industria Artigianato ed Agricoltura di Breccia di cui era dipendente, avente ad oggetto la declaratoria del suo diritto ad essere inquadrata in categoria C3, con decorrenza giuridica dal 1 dicembre 2000 ed economica dal 1 marzo 2002, e tanto sul presupposto di essere stata illegittimamente esclusa dal sistema di valutazione permanente per la progressione in carriera in quanto assente, prima obbligatoriamente e, poi, per un periodo di astensione facoltativa per maternità.
La Corte del merito, dopo un ampio excursus sulla normativa di riferimento, poneva a base del decisum il rilievo fondante secondo il quale la tutela della posizione di lavoro della lavoratrice madre, come del cittadino che adempiva alla leva, dell’infortunato o del malato non può estendersi fino a far ritenere il periodo trascorso in adempimento del servizio militare di leva, in infortunio o in malattia oppure ancora in gravidanza e puerperio come servizio effettivamente prestato, quando la valutazione di tale ultimo servizio sia il presupposto di una progressione nella carriera che non segua a mera anzianità, in quanto occorre, per la valutazione di merito del lavoro prestato, l’effettività della prestazione.
Conseguentemente, secondo la predetta Corte, poiché in base al contratto collettivo decentrato la progressione in carriera relativa all’inquadramento rivendicato faceva riferimento, non alla sola mera presenza in servizio, ma anche ad un articolata valutazione circa la quantità e qualità del servizio prestato, la domanda della B. non poteva trovare accoglimento. Avverso questa sentenza la lavoratrice ricorre in cassazione sulla base di un’unica censura.
La parte intimata resiste con controricorso illustrato da memoria.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso B.L. , deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 22, comma 5, della legge n. 151 del 2001, pone il seguente interpello: “se l’art. 15 – lett. B) del CCDI, in riferimento agli artt. 15 e 17 del CCNL 1998/2001 per l’anno 2000 e per la definizione delle progressioni orizzontali da attuare negli anni 1999-2000, nonché all’art. 22, comma 5, DLgs 151/2001, debba interpretarsi nel senso di prevedere, ai fini della progressione di carriera della lavoratrice, l’utilità del periodo di astensione obbligatoria per maternità”.
La censura è infondata.
È orientamento di questa Corte, infatti, anche con riferimento all’art. 3, secondo comma, della Legge n. 903 del 1977 – il cui testo è stato trasfuso nel comma 5 dell’art. 22 del denunciato DLgs n. 1 del 2001, poi abrogato dal DLgs n. 198 del 2006 – la regula iuris, qui ribadita, essendovi perfetta equivalenza, ai fini della progressione in carriera (automatica o no), fra periodi di effettivo servizio e periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, ove la contrattazione collettiva ricolleghi la promozione all’anzianità di servizio, in questa, anche se intesa come servizio effettivo, devono computarsi i periodi di astensione obbligatoria, tranne che la stessa contrattazione subordini la promozione a particolari requisiti (per tutte V. Cass. 9 giugno 2000 n. 929, Cass. 3 aprile 1993 n. 4022, Cass. 5 dicembre 1987 n. 9081).
Nella specie la Corte del merito, adeguandosi al richiamato principio, ha accertato che la contrattazione collettiva decentrata prevedeva, ai fini della progressione in carriera, oltre alla prestazione effettiva anche un articolata valutazione circa la quantità e qualità del servizio prestato, sicché non poteva trovare fondamento il diritto alla promozione reclamato dalla lavoratrice sulla sola base della detta equivalenza dovendo essere valutata, in base alla pattuazione collettiva, anche la qualità e quantità dell’attività lavorativa ossia in base a particolari requisiti che erano correlati non alla sola virtuale prestazione lavorativa.
Va, poi, rilevato, circa il contratto collettivo decentrato, che non – risultando rispettato,e il principio di autosufficienza (V. Cass. 21 febbraio 2008 n. 4505 la quale ha ribadito che per i contratti collettivi integrativi del settore pubblico l’onere della trascrizione della clausola di cui si lamenta l’errata interpretazione),e l’onere di cui all’art. 369 n.4 che impone, a pena d’improcedibilità, il deposito insieme al ricorso del contratto collettivo (V. Cass. 11 aprile 2011 n. 8231 con specifico riferimento ai contratti decentrati del settore pubblico), e quello di cui all’art. 366 n. 4 afferente la specificazione della sede processuale dove detto contratto è stato prodotto (Cass. S.U. 3 novembre 2011 n. 22726), è impedito a questo giudice di legittimità qualsiasi sindacato di relativo all’interpretazione fornita dalla Corte del merito della richiamata contrattazione collettiva decentrata.
Né vi è, comunque, idonea censura al riguardo. Trattandosi, difatti, di norme di contratto collettivo integrativo non è consentito a questa Corte procedere ad una interpretazione diretta della clausola contrattuale denunciata poiché la nuova formulazione, ex art. 2 del D.lvo 2 febbraio 2006 n. 40, del n. 3 dell’art. 360 cpc, in ragione della quale è possibile la denuncia della violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi, riguarda esclusivamente quelli nazionali di lavoro (Cass. 3 dicembre 2013 n. 27062).
Sulla base delle esposte considerazione, in conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 100,00 per esborsi oltre Euro 3500.00 per compensi ed accessori di legge.

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