www.studiodisa.it

Suprema Corte di Cassazione

sezione lavoro

sentenza 2 luglio 2013, n. 16507

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di P.A. , proposta nei confronti della società Poste italiane, avente ad oggetto l’impugnazione della comunicazione con la quale la società le rendeva noto che, non essendo rientrata in servizio al termine del periodo d’aspettativa, il rapporto di lavoro s’intendeva risolto per dimissioni ai sensi degli artt. 34 e 75 del CCNL del 2003.
A fondamento del decisum la Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, poneva, innanzitutto, il rilievo che trattandosi di rapporto il cui sinallagma era sospeso per aspettativa, non poteva l’assenza ingiustificata equiparasi ad un comportamento disciplinarmente rilevante con conseguente inapplicabilità dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970. Riteneva, poi, la predetta Corte che il comportamento del lavoratore tenuto al termine dell’aspettativa ben poteva essere valutato dalle parti sociali quale comportamento concludente della volontà di non riprendere servizio.
Rimarcava, infine, la Corte territoriale che in punto di fatto non risultava che la madre della lavoratrice avesse tempestivamente consegnato al datore di lavoro la richiesta di un ulteriore aspettativa.
Avverso questa sentenza la P. ricorre in cassazione sulla base di tre censure.
Resiste con controricorso la società intimata.

Motivi della decisione

Con il primo motivo la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2118, 1418 cc, 6 della Legge n. 604 del 1966 e 18 della Legge n. 300 del 1970 in relazione all’art. 34 ceni dei dipendenti Poste italiane, sostiene l’erroneità della sentenza impugnata sul rilevo che la Corte del merito non ha tenuto conto che la clausola contrattuale, la quale prevede che il lavoratore che al termine dei periodo di aspettativa non riprenda servizio senza giustificato motivo sarà considerato dimissionario, è nulla in quanto stabilisce una causa di risoluzione del rapporto non prevista dalla legge.
La censura è fondata.
Sulla questione va registrato un risalente contrasto nella giurisprudenza di questa Corte segnato per un verso dalla sentenza n. 2605 del 12 marzo 1987 secondo cui il recesso dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato può attuarsi unicamente nella duplice forma del licenziamento intimato dal datore di lavoro ovvero delle dimissioni rassegnate dal lavoratore; pertanto, mentre è possibile che le parti contraenti, collettive od individuali, assegnino a determinati comportamenti di uno dei soggetti del rapporto il significato e l’efficacia dell’atto unilaterale di recesso ed, in particolare per il lavoratore, delle dimissioni, deve invece escludersi la possibilità di introdurre un terzo genere di recesso con la previsione di un comportamento, giudicato significativo dell’intenzione di recedere, che sia svincolato dall’effettiva volontà della parte e che non ammetta la possibilità di prova contraria, giacché in tal caso il patto costituirebbe in realtà un’inammissibile ed invalida clausola risolutiva espressa del rapporto.
Dall’altro dalla decisione di cui alla sentenza n. 5776 del 10 giugno 1998 per la quale quando il contratto collettivo definisce l’assenza del lavoratore prolungata oltre i tre giorni e non giustificata quale dimissioni, l’assenza medesima assume il valore giuridico di un atto di dimissioni, in quanto considerata espressione della volontà del lavoratore di recedere dal rapporto, per convenzionale ed esplicita disposizione delle parti in tal senso, che ravvisano le dimissioni come intervenute per fatti concludenti.
Ritiene il Collegio di dover dare continuità giuridica al primo dei citati orientamenti che ha trovato conforma nella successiva sentenza n. 12942 del 22 novembre 1999.
Tanto perché, come condivisibilmente ritenuto nella sentenza n. 12942 del 22 novembre 1999 cit., alle parti non è consentito di attribuire a determinati comportamenti del lavoratore il valore ed il significato negoziale di manifestazione implicita o per facta concludentia della volontà di dimettersi, senza possibilità di prova contraria. In tale ipotesi, invero,, non si tratterebbe più di dimissioni manifestate per facta concludentia – le quali presuppongono una volontà effettiva di dimettersi e la manifestazione di essa seppure in forma diversa dalla dichiarazione esplicita – ma della attribuzione convenzionale di un determinato effetto giuridico – la cessazione del rapporto – ad un determinato comportamento. Tanto le parti collettive non possono stabilire, atteso che il rapporto di lavoro può, in base al nostro ordinamento giuridico, estinguersi esclusivamente per le cause a tal fine previste dalla legge e non è permesso alle parti introdurre altre cause di estinzione del rapporto. Diversamente, tutta la disciplina legislativa limitativa dei licenziamenti, che ha progressivamente allontanato il rapporto di lavoro dagli ordinari principi sull’estinzione dei rapporti obbligatori, sarebbe inutiliter data.
Conforta tale soluzione l’ulteriore rilievo che se così non fosse si dovrebbe ipotizzare la previsione da parte della contrattazione collettiva di una presunzione assoluta che confligerebbe con la natura stessa della nozione di dimissioni per facta concludentia.
Del resto questa Corte, più di recente, ha affermato che l’assenza ingiustificata e protratta oltre un certo termine può essere assunta, in sede di contrattazione collettiva o individuale del rapporto di lavoro privato, quale causa di scioglimento del rapporto di lavoro, soltanto considerandola quale sanzione disciplinare (cfr. Corte cost. 29 novembre 1982 n. 204 e n. 427 del 1989), necessariamente preceduta dalle garanzie procedimentali previste nei primi tre commi dell’art. 7 l. 20 maggio 1970 n. 300 (Cass. 6 ottobre 2005 n. 19418).
Non è, quindi, corretta la sentenza impugnata che ha ritenuto sulla base della contrattazione collettiva di assegnare all’assenza ingiustificata del lavoratore il valore di manifestazione per facta concludentia di rassegnare le dimissioni.
Il secondo ed il terzo motivo che attengono rispettivamente al vizio di motivazione in ordine alla reviviscenza del rapporto di lavoro a seguito della cessazione del periodo di aspettativa ed alla violazione dell’art. 7, comma 2, della Legge n. 300 del 1970 rimangono assorbiti.
In conclusione il primo motivo va accolto e gli altri dichiarati assorbiti.
Conseguentemente la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *