Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenza 16 novembre 2017, n. 27225. Le società a capitale misto che esercitano attività industriali sono tenute a pagare i contributi previdenziali previsto per la cassa integrazione guadagni e la mobilità

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13. Le societa’ a partecipazione pubblica, dunque, vanno escluse dal concetto di imprese pubbliche poiche’ la forma societaria di diritto privato e’ per l’ente locale la modalita’ di gestione degli impianti, consentita dalla legge e prescelta dall’ente stesso per la duttilita’ dello strumento giuridico, ed il perseguimento dell’obiettivo pubblico e’ caratterizzato dall’accettazione delle regole del diritto privato. La finalita’ perseguita dal legislatore nazionale e comunitario nella promozione di strumenti non autoritativi per la gestione dei servizi pubblici locali e’ specificamente quella di non ledere le dinamiche della concorrenza, assumendo rilevanza determinante, in ordine all’obbligo contributivo, il passaggio del personale addetto alla gestione del servizio dal regime pubblicistico a quello privatistico. (Cass. nn. 20818 e 27513 del 2013).
14. Si e’, quindi, affermato (vd. Cass. 20818/2013; 8591/2017) che in tema di contribuzione previdenziale, le societa’ a capitale misto, ed in particolare le societa’ per azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l’esercizio di attivita’ industriali (nella specie, una societa’ per la gestione e la fornitura di servizi agli enti locali in materia di fornitura di acqua, gas ed elettricita’) sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilita’, non potendo trovare applicazione l’esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di societa’ di natura essenzialmente privata, finalizzate all’erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell’ente pubblico.
15. Peraltro, (vd. Cass. 3196/2017; 21991/2012; 22209/2013), la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attivita’ a societa’ di capitali, e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessita’ del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parita’ di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalita’. Del resto, da un lato, la L. Fall., articolo 1 esclude dall’area della concorsualita’ gli enti pubblici e non anche le societa’ pubbliche, per le quali trovano applicazione le norme del codice civile (Decreto Legge n. 95 del 2012, articolo 4, comma 13, conv., con modif., dalla L. n. 135 del 2012, e, quindi, Decreto Legislativo n. 175 del 2016, articolo 1, comma 3, nonche’ quelle sul fallimento, sul concordato preventivo e sull’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi (Decreto Legislativo n. 175 del 2016, articolo 14); dall’altro, vanno respinte le suggestioni dirette alla compenetrazione sostanzialistica tra tipi societari e qualificazioni pubblicistiche, al di fuori della riserva di legge di cui alla L. n. 70 del 1975, articolo 4 che vieta la istituzione di enti pubblici se non in forza di un atto normativo.
16. Deve, quindi, affermarsi – anche ai fini della concreta definizione del regime di “stabilita’” richiesto dall’articolo 40 sopra citato – che la disciplina dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle societa’ che gestiscono servizi pubblici non e’ difforme, in linea di principio e salvo espressa deroga, rispetto a quella dell’impiego alle dipendenze delle societa’ private e, dunque, non puo’ negarsi la concreta possibilita’ di estinzione dei rapporti di lavoro a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della L. n. 223 del 1991.
17. Tale aspetto del complessivo trattamento giuridico dei lavoratori costituisce ipotesi generale di possibile risoluzione dei diversi rapporti di lavoro che, per la ampiezza delle valutazioni economiche sottese alla decisione di ridurre il personale da parte del datore di lavoro, fa si’ che il rischio della disoccupazione involontaria sia certamente presente anche in relazione ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle societa’ a partecipazione pubblica che gestiscono servizi pubblici.
18. Invero, poiche’ l’esenzione dall’assicurazione obbligatoria per la disoccupazione involontaria opera soltanto ove ai dipendenti sia garantita la stabilita’ d’impiego, e’ evidente che la concreta possibilita’ di essere oggetto di procedura collettiva di riduzione di personale, laddove ne ricorrano i relativi presupposti applicativi, esclude che possa configurarsi una ipotesi di stabilita’ del rapporto di lavoro nel senso ” pubblicistico” cui alludevano le Sezioni Unite del 1988 n. 5570 e che puo’ fondare l’esonero dal pagamento del contributo per l’assicurazione contro la disoccupazione involontaria.
19. La fattispecie del licenziamento collettivo di cui alla L. n. 223 del 1991 e’ fattispecie dai margini causali non predeterminati, come ripetutamente affermato da questa Corte di legittimita’, giacche’ non e’ necessario che la causale che giustifica il licenziamento sia determinata da una crisi di impresa, ben potendo consistere in una modifica dell’organizzazione produttiva che comporti soppressione di uffici, reparti, lavorazioni, oppure soltanto contrazione della forza lavoro, purche’ l’operazione che giustifica il ridimensionamento occupazionale sia effettiva. La causale del licenziamento – riduzione o trasformazione di attivita’ o di lavoro – rientra, dunque, nella sola disponibilita’ del datore di lavoro, il quale discrezionalmente valuta la convenienza economica delle scelte gestionali riguardanti l’impresa anche qualora queste conducano ad un licenziamento collettivo, purche’ non costituisca strumento illecito di gestione dell’attivita’ aziendale (vd. Cass. 4 gennaio 2017, n. 66; 23526/2016; 22259/2015; 12122/2015 ed ancor prima Cass. 17 dicembre 1998, n. 14638).
20. Occorre, dunque, procedere ad una lettura aggiornata delle affermazioni contenute nella sentenza n. 5170/1988 delle SS.UU. sopra citata posto che la stessa e’ espressione di orientamenti addirittura antecedenti all’introduzione della disciplina dei licenziamenti collettivi da parte della L. n. 223 del 1991 ed in un contesto di economia pubblica profondamente diverso dall’attuale ove alle c.d. societa’ pubbliche, dopo il venir meno del sistema delle partecipazioni statali, dalla fine degli anni ‘80, vennero assegnate funzioni pubbliche esternalizzate e la gestione di servizi pubblici sia a livello nazionale che di enti locali.
21. L’evoluzione in senso privatistico della disciplina delle societa’ a partecipazione pubblica ha, peraltro, visto conferma legislativa ad opera del recente Decreto Legislativo n. 175 del 2016 in attuazione della delega contenuta nella L. n. 124 del 2015, articoli 16 e 18.
22. Dunque, per la ricerca della stabilita’, non e’ sufficiente accertare- come richiesto da SS.UU. 5170/1988- la necessaria presenza di “clausole della contrattazione collettiva che assicurino detto requisito in modo tale che al di la’ della generica previsione della L. n. 604 del 1966, articolo 3 la cessazione del rapporto da parte del datore di lavoro sia configurata come ammissibile solo per il verificarsi di concrete ipotesi di carattere oggettivo tassativamente predeterminate”, poiche’ fin tanto che sussiste l’assoggettabilita’ alla procedura prevista dalla L. n. 223 del 1991 non puo’ esserci stabilita’ in senso pubblicistico.

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