Suprema Corte di Cassazione
sezione lavoro
sentenza 14 maggio 2014, n. 10425
Fatto e diritto
l. Con sentenza del 5.2.2007, la Corte d’appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del tribunale di Paola che aveva accolto la domanda, proposta dagli eredi di R.S. nei confronti di Rete Ferroviaria Italiana spa, avente ad oggetto il risarcimento del danno biologico e morale derivante dalla morte del loro dante causa quale conseguenza di patologia contratta nell’espletamento del rapporto di lavoro.
2. In particolare, la corte territoriale ha afferato la responsabilità del datore di lavoro in relazione alla morte per carcinoma del lavoratore che aveva svolto mansioni di macchinista ed era perciò stato a contatto con materiali di amianto, all’epoca usati ampiamente per la coibentazione nei locali attigui alle cabine di guida dei locomotori. La corte ha ritenuto che all’epoca fosse già noto il rischio relativo all’amianto e che i tempi di latenza della patologia – peraltro già riconosciuta quale “causa di servizio” – potevano ben spiegare che la prima diagnosi della stessa fosse stata successiva di due anni alla cessazione del rapporto lavorativo del S.
3. Propone ricorso avverso tale sentenza il datore di lavoro, per due motivi. Le controparti sono rimaste intimate.
4. Con il primo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere la sentenza impugnata trascurato che l’obbligo di sicurezza del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. va necessariamente parametrato agli standards di conoscenze tecniche disponibili all’epoca, le quali nel caso non comprendevano l’efficienza cancerogena dell’amianto (la cui utilizzazione era stata vietata infatti in Italia solo con legge del 1992), tanto più che non erano state individuate le regole di condotta violate dal datore, con conseguente non configurabilità di una sua responsabilità.
5. Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ., sottoponendo alla corte il seguente quesito di diritto volto ad accertare che “il disposto dell’art. 2087 cod. civ. non può essere dilatato fino a comprendervi ogni ipotesi di danno sull’assunto che comunque il rischio non si sarebbe verificato in presenta di ulteriori accorgimenti di valido contrasto, perché in tal modo si perverrebbe all’abnorme applicazione di un principio di responsabilità oggettiva, ancorata sul presupposto teorico secondo cui il verificarsi dell’evento costituisce circostanza che assurge in ogni caso ad inequivoca riprova del mancato uso dei mezzi tecnici più evoluti del momento”.
6. I due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente e devono essere rigettati.
7. La sentenza impugnata ha affermato che l’esistenza della patologia del lavoratore e del nesso di derivazione causale dall’attività lavorativa sono state riconosciute in concreto dallo stesso datore di lavoro, che ha riconosciuto con delibera 23.6.1998 agli eredi del lavoratore la pensione privilegiata, sul presupposto espresso che il decesso del dante causa fosse “dipeso da eventi connessi con il servizio ferroviario”.
8. Il datore di lavoro pretenderebbe oggi di escludere la propria responsabilità, per aver fatto tutto quanto in suo potere con riferimento alle conoscenze dell’epoca, per preservare la salute dei dipendenti.
9. L’assunto non può essere accolto. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato (tra le tante, Sez. L, Sentenza n. 15156 del 11/07/2011) che la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ., pur non essendo di carattere oggettivo, deve ritenersi volta a sanzionare l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio. Il principio è stato applicato specificamente con riferimento al rischio da esposizione all’amianto da Sez. L, n. 2491 del 01 /02/2008 (che ha confermato la sentenza della Corte territoriale che, con completa e coerente motivazione, aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro, esattamente considerando come noto al tempo dei fatti di causa – 1975/1995 – il rischio da inalazione di polveri di amianto) e da Sez. L, n. 644 del 14/01/2005 (che ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto responsabili le Ferrovie dello Stato per non aver predisposto, negli anni ’60, le cautele necessarie a sottrarre il proprio dipendente al rischio amianto).
Il principio è stato ribadito anche da Cass. Sez. L, n. 18626 del 05/08/2013, secondo la quale la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d’esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l’omessa predisposizione di tutte le misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277, successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
10. La sentenza impugnata si è conformata a tali principi, rilevando che il rischio da esposizione all’amianto era noto all’epoca dei fatti, come dimostrato sia dall’esistenza sin dall’inizio degli anni ’80 di varie direttive comunitarie in materia, sia dalla stessa decisione aziendale concordata con i sindacati di verificare in generale l’esposizione al materiale nelle cabine di guida sin dal 1989 (restando per converso irrilevante l’esito negativo di tali accertamenti, in difetto di prova della riferibilità ai locomotori condotti specificamente dal ricorrente).
11. A fronte di tale situazione, il dovere del datore di lavoro era di escludere comunque l’esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò avesse imposto l’adozione di interventi drastici fino alla stessa modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie.
12. Può dunque affermarsi il seguente principio di diritto: in tema di sicurezza sul lavoro, che, qualora sia accertato che il danno è stato causato dalla nocività dell’attività lavorativa per esposizione all’amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, escludendo l’esposizione alla sostanza pericolosa, anche se ciò imponga la modifica dell’attività dei lavoratori, assumendo in caso contrario a proprio carico il rischio di eventuali tecnopatie.
13. Nulla per le spese di lite, in difetto di costituzione degli intimati.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per spese.
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