Suprema Corte di Cassazione
sezione IV
sentenza n. 6363 del 8 febbraio 2013
Svolgimento del processo
C.U. ricorre in Cassazione avverso la sentenza, in epigrafe indicata, della Corte d’appello di Roma che, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa nei suoi confronti in ordine al delitto di cui all’art. 113 c.p., art. 590 c.p., comma 3 aggravata dalla violazione delle norme antinfortunistiche, ha revocato il concesso beneficio della sospensione condizionale della pena dichiarando la pena irrogata condonata ai sensi della L. n. 241 del 2006.
Il fatto è ben descritto nel capo d’imputazione:
Per avere, in qualità di datore di lavoro, amministratore e legale rappresentante della S.a.s. “Cricchi Costruzioni”, con sede in (omissis), omesso di dotare in violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 11, comma 3 oggetto dell’imputazione di cui al capo A) dichiarata estinta per oblazione il deposito di materiali edili e di macchinari di passaggi e di vie di circolazione sufficientemente libere da ingombri ed ostacoli sì da garantire che i movimenti dei pedoni e dei dipendenti e le manovre dei veicoli potessero avvenire in modo agevole e sicuro, in cooperazione con S.A., guidatore all’interno del deposito, citato, dell’autocarro Fiat….., per colpa consistita in negligenza, imprudenza, imperizia, cagionato lesioni personali gravi al lavoratore L.D., che veniva investito ed urtato dal predetto autocarro, in fase di manovra in retromarcia.
Fatto accaduto il (omissis).
IL C. denuncia:
a) Violazione di legge nella specie del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 11, in quanto tale norma non dispone affatto quanto ritenuto dalla Corte d’appello. Per il ricorrente non esiste norma alcuna che preveda obblighi di cui alla contestazione. L’art. 11 del richiamato D.P.R. prevede solo ed esclusivamente, per quanto in questa sede interessa, che le aree esterne occupate dai lavoratori debbano essere concepite in modo tale che la circolazione dei pedoni e dei veicoli possa avvenire in modo sicuro. La Corte distrettuale, indotta in errore dal teste T., ha riconosciuto al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 11 una portata precettiva diversa ed inesistente.
b) Inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nella specie, dell’art. 113 cod. pen.. Ferme tutte le considerazioni svolte con il precedente motivo, seppure per mera ipotesi si volesse ritenere ascrivibile al ricorrente una condotta illegittima sostanziatasi nella violazione delle norme antinfortunistiche indicate, doveva, comunque, essere assolto in quanto tale omissione non era collegabile casualmente con l’evento lesivo. L’investimento del L. infatti, si sarebbe verificato indipendentemente dalla presenza di camminamenti in quanto la parte offesa ha tenuto una condotta in spregio alle più elementari norme di diligenza.
L’investimento è avvenuto per il concorso di due elementi (indipendenti dalla volontà del C.), consistente, il primo, nella effettuazione della manovra di retromarcia da parte del S. e, il secondo, nell’attraversamento del piazzale da parte del L. il quale, a sua volta, ha omesso di verificare se tale sua condotta poteva esporto a rischio di investimento da parte del mezzo i manovra, c) Vizio di motivazione per il travisamento del fatto, ed in particolare per la omessa valutazione delle prove documentali assunte. La Corte d’Appello non ha tenuto conto del fascicolo fotografico (5 fotografie), inerente all’incidente sul lavoro de quo, formato dai Carabinieri e prodotto dal P.M., dal quale emerge come si tratti di un piazzale di rilevanti dimensioni e che l’investimento è avvenuto al centro dello stesso, circostanza comprovata anche dalla planimetria dei luoghi prodotta dalla difesa.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile perchè contenente censure non consentite nel giudizio di legittimità, in quanto concernenti la ricostruzione e la valutazione del fatto, nonchè l’apprezzamento del materiale probatorio, profili del giudizio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito, che ha fornito una congrua e adeguata motivazione, immune da censure logiche, perchè basata su corretti criteri di inferenza, espressi in un ragionamento fondato su condivisibili massime di esperienza.
Il compito del giudice di legittimità è quello di verificare se i giudici di merito abbiano logicamente giustificato la loro valutazione sulla sufficienza degli elementi acquisiti al processo al fine di pervenire all’affermazione che il ricorrente, titolare di una posizione di garanzia, ha omesso di predisporre i presidi antinfortunistici richiesti dalla legge e la sussistenza del nesso causale tra tale omissione e l’infortunio sul lavoro contestato e se abbiano correttamente applicato i criteri di valutazione della prova previsti dall’art. 192 c.p.p.. Il vizio dedotto dal ricorrente non è riconducibile al c.d. “travisamento del fatto” perchè, con il proposto ricorso, si pone il problema dell’individuazione dei criteri che il giudice deve
utilizzare per valutare l’idoneità dei fatti accertati e l’efficacia probatoria di questi.
Non viene quindi in considerazione il tema della ricomposizione del quadro probatorio ormai “fotografato” con la ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di merito che sarebbe inammissibile in questa sede. Compito del giudice di legittimità non è infatti quello di ricostruire e valutare i fatti diversamente da quanto compiuto dal giudice di merito ma di sindacare la correttezza del ragionamento di questi sulla valutazione relativa alla efficacia indiziaria dei fatti accertati.
Il sindacato di legittimità sul procedimento logico che consente di pervenire al giudizio di attribuzione del fatto con l’utilizzazione di criteri di inferenza, o massime di esperienza, è diretto a verificare se il giudice di merito abbia indicato le ragioni del suo convincimento e se queste ragioni siano plausibili. E, per giungere a queste conclusioni, è necessario verificare se siano stati rispettati i principi di completezza (se il giudice abbia preso in considerazione tutte le informazioni rilevanti), di correttezza e logicità (se le conclusioni siano coerenti con questo materiale e fondate su corretti criteri di inferenza e su deduzioni logicamente ineccepibili).
Invero, il profilo di colpa contestato al ricorrente, per i giudici di merito, è rimasto provato sulla base della testimonianza del tecnico dell’ASL intervenuto sul luogo dell’infortunio, T. L., che, dopo aver ricostruito la dinamica dell’incidente, contestava al C. la violazione dell’indicata norma di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 11, in quanto le vie di circolazione destinate ai veicoli non erano adeguatamente segnalate e separate dai percorsi pedonali, nè erano predisposti cartelli di segnalazione adeguati. In particolare, con riferimento all’asserita esistenza di un camminamento pedonale, in dibattimento il teste precisava che esso non sussisteva affatto e che quanto invocato come tale dall’imputato altro non era che un semplice terreno di riporto non avente nè scala di accesso, nè, tanto meno, le caratteristiche prescritte dalla legge per poter essere qualificato come passaggio pedonale idoneo. Si afferma, pertanto, in sentenza che se “è pur vero che l’investimento è opera di altro soggetto ma va sottolineato come l’incidente non si sarebbe verificato se fossero state create vie idonee di circolazione utili a separare il percorso riservato ai pedoni da quello riservato ai veicoli”.
Dunque, premesso che non si disconosce da parte del ricorrente la posizione di garanzia contestata, relativamente alla prima censura del ricorso, la motivazione dell’impugnata sentenza è esaustiva e condivisibile essendo corretta l’individuazione della colpa specifica, contestata, per la violazione della norma indicata di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 11.
Infondato è l’assunto del ricorrente secondo cui la Corte del merito, indotta in errore dal teste T., avrebbe riconosciuto alla citata disposizione normativa una portata precettiva diversa ed inesistente. Ed invero, laddove la norma prescrive che i posti di lavoro, le vie di circolazione e altri luoghi o impianti all’aperto utilizzati o occupati dai lavoratori durante le loro attività devono essere concepiti in modo tale che la circolazione dei pedoni e dei veicoli può avvenire in modo sicuro, è del tutto ovvio che per garantire tale sicurezza è necessario predisporre adeguate misure tra cui, necessariamente, la segnalazione, con cartelli o altri avvertimenti, delle vie di circolazione degli automezzi con l’individuazione del relativo tracciato in modo da far comprendere ai lavoratori-pedoni quale è il percorso che debbono seguire per evitarli ed, a loro volta, seguire quello ad essi destinato.
L’imputato, nella sua qualità, è venuto meno, pertanto, ai propri doveri di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro. E sul punto va rimarcato che per luogo di lavoro, condizionante l’obbligo dell’attuazione delle misure antinfortunistiche, va inteso non solo il cantiere bensì anche ogni luogo necessario in cui i lavoratori siano costretti a recarsi per incombenze varie inerenti all’attività che si svolge nel cantiere (v. Sez. 4, 21 dicembre 2010, Di Mascio).
Nè è sostenibile legittimamente che la norma di cui trattasi non prevede alcun obbligo di creazione di idonee vie di circolazione
utili a separare il percorso riservato ai pedoni da quello riservato ai veicoli. Sul punto la suindicata tesi difensiva tralascia di considerare che, anche a prescindere da specifiche indicazioni normative di dettaglio a norma dell’art. 2087 c.c. spetta al titolare della posizione di garanzia di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, in relazione all’attività prestata, si rendano necessarie a tutela della integrità fisica del lavoratore (v. ex pluribus, Sezione 4, 27 febbraio 2007, parte civile F. in proc. C. ed altri). E va altresì ricordato che, in tema di reati colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità dell’aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche (rilevante per la procedibilità di ufficio in caso di lesioni gravi e gravissime) non occorre che sia integrata la violazione di norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, giacchè per l’addebito di colpa specifica, è sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa della violazione del citato art. 2087, che fa carico all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (Sezione 4, 4 luglio 2006, Civelli).
Infatti, il datore di lavoro – e gli altri soggetti investiti della posizione di garanzia – devono in proposito ispirare la loro condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza.
In questa prospettiva, merita di essere ricordato che l’obbligo posto a carico dei titolari delle posizione di garanzia individuate, da ultimo, nel D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. b), d) ed e) di attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro è di tale spessore che non potrebbe neppure escludersi una responsabilità colposa dei medesimi allorquando non abbiano assicurato tali condizioni, pur formalmente rispettando le norme tecniche, eventualmente dettate in materia dal competente organo amministrativo, in quanto, al di là dell’obbligo di rispettare le suddette prescrizioni specificamente volte a prevenire situazioni di pericolo o di danno, sussiste pur sempre quello di agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l’accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi (cfr. Sezione 4, 4 luglio 2006, Civelli).
In sostanza, gravava sull’imputato l’obbligo di verificare la sussistenza di eventuali condizioni di insicurezza per i lavoratori ivi operanti derivante dalla circolazione dei mezzi meccanici sullo spiazzale del deposito di materiali edili. Si aggiunga che quel luogo era certamente praticato anche da non addetti ai lavori che ben difficilmente, non essendo a conoscenza dello svolgimento delle attività di carico e scarico di materiali edili nel deposito a mezzo di veicoli meccanici, avrebbero potuto rendersi conto in assenza di segnali qual era il percorso da seguire. Sul punto è da rilevare che, secondo assunto pacifico e condivisibile, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell’esercizio della loro attività, ma sono dettate anche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono in luoghi di lavoro che, non muniti dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, possono essere causa di eventi dannosi (v., tra le altre, Sezione 4, 6 novembre 2009, Morelli). Le disposizioni prevenzionali sono quindi da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nei medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa.
Parimenti manifestamente infondata è la censura avverso quella parte della motivazione che ha escluso l’abnormità della condotta del lavoratore infortunato. I giudici di appello, con motivazione logica e coerente, hanno escluso che l’infortunio abbia avuto origine dalla condotta sconsiderata e negligente del lavoratore L. che aveva attraversato il piazzale nel momento in cui lo stesso veniva percorso anche, per altro in retromarcia, dall’autocarro guidato dal S.A., evidenziando, che se gli fosse stata adeguatamente segnalata la via da percorrere, diversa da quella dell’autocarro, l’infortunio non si sarebbe verificato. La Corte di merito ha congruamente motivato il proprio convincimento relativamente al fatto che il comportamento del lavoratore, ancorchè non del tutto attento, si è comunque sviluppato in una condotta affatto abnorme ed inconferente rispetto alle mansioni, essendosi sostanziata tale condotta nell’utilizzo del piazzale ove attendeva alle proprie mansioni. La sentenza è in linea con la giurisprudenza consolidata di questa Corte (v. tra le tante, Sez. 4, 10 novembre 2009, parte civile I. ed altro in proc B. ed altri) secondo la quale la responsabilità del datore di lavoro (e soggetti assimilati) non è esclusa, in linea tendenziale, neppure dalla “colpa” del lavoratore, salvo che la condotta di questi non abbia assunto i caratteri dell'”abnormità”, risultando eccezionale ed imprevedibile: in tal caso, conseguendone l’interruzione del nesso causale (art. 41 c.p., comma 2) tra l’evento lesivo e la condotta del datore di lavoro. La condotta colposa del lavoratore infortunato può escludere la responsabilità del datore di lavoro, quindi, solo quando il comportamento del lavoratore, e le sue conseguenze, presentino i caratteri dell’eccezionalità e dell’abnormità, logicamente e correttamente esclusi nel caso in esame. L’addebito di responsabilità a carico del datore di lavoro anche per gli infortuni dovuti a comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell’infortunio, si fonda sul principio secondo cui al datore di lavoro, che è “garante” anche della correttezza dell’agire del lavoratore, è imposto (anche) di esigere da quest’ultimo il rispetto delle regole di cautela (cfr. D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 18, comma 1, lett. f)).
Da ultimo, quanto alla censura oggetto del terzo motivo del ricorso, parimenti si vuoi chiamare inammissibilmente questa Corte a rivalutare la prova documentale già sottoposta all’esame del giudice di merito.
Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.
Leave a Reply