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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

Sentenza  7 maggio 2013, n. 19556
(Presidente D’Isa – Relatore Blaiotta)

Motivi della decisione

1. Il Tribunale di Roma ha affermato la responsabilità dell’imputato in epigrafe in ordine al reato di omicidio colposo in danno di L.A.M. ; e lo ha altresì condannato al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili.
La pronunzia è stata riformata dalla Corte d’appello di Roma che ha adottato pronunzia assolutoria perché il fatto non costituisce reato.
2. Ricorrono per cassazione le parti civili con argomenti sostanzialmente coincidenti.
2.1 F.R. deduce due motivi;
2.1.1 Con il primo motivo si lamenta che il primo giudice ha affermato la responsabilità sulla base di una rigorosa e completa lettura delle risultanze probatorie e delle acquisizioni scientifiche. Per contro, il giudice d’appello ha ribaltato tale valutazione senza minimamente confutare i più rilevanti elementi della prima sentenza. Si era in particolare posto in luce che in campo internazionale la tecnica operatoria adottata dall’imputato è ormai desueta in quanto comporta rilevanti rischi e controindicazioni; sicché sarebbe stato necessario scegliere una tecnica diversa e più sicura.
La Corte d’appello ha disatteso tale congrua motivazione accogliendo acriticamente le prospettazioni difensive. La stessa Corte, nel richiamare le linee guida espresse nell’anno 2008 dalla SICOB, ne ha proposto una erronea lettura. Infatti non è vero che la tecnica operatoria adottata dal dottor P. non è desueta. Al contrario, si consiglia espressamente la prescrizione del bypass digiuno-ileale ancora utilizzato da alcuni chirurghi a causa delle estremamente gravi complicanze a medio e a lungo termine. Il discorso logico della Corte d’appello è quindi viziato ed erroneo. In realtà la tecnica in questione è utilizzata in pratica solo dall’imputato, mentre è sconsigliata in tutti gli ambienti internazionali anche alla stregua di numerose consensus conference; come chiarito dal perito professor Basso. Tutte le indicazioni sono assolutamente concordi nel consigliare la proscrizione dell’intervento in questione.
La prima sentenza aveva preso in considerazione pure il trattato di chirurgia del professor Dionigi nonché l’inclusione dell’intervento in questione tra quelli rimborsati dal servizio sanitario nazionale. Aveva argomentato che pure l’indicato trattato riportava le gravi complicanze riscontrabili anche a distanza di molti anni. Ed aveva considerato che la riconosciuta esecuzione dell’intervento in regime di convenzione con il servizio sanitario non esime il medico dall’abbandonare le pratiche superate perché pericolose, in attesa che le normative vengano aggiornate. La Corte d’appello ha omesso di confutare le argomentazioni del primo giudice ed ha inaccettabilmente spiegato la mancata inclusione della procedura ridetta nelle linee guida per il trattamento dell’obesità con le rilevanti spese connesse al lungo follow-up, che induce un atteggiamento negativo da parte delle assicurazioni private. Tale enunciazione è erronea poiché il follow-up in questione richiede banali esami ematochimici.
La pronunzia d’appello ha pure omesso di tenere conto della giurisprudenza che rimarca l’obbligo del terapeuta, in caso di pluralità di opzioni, di prediligere quella che presenta meno rischi.
Essa neppure affronta il tema della libertà di scelta terapeutica.
2.1.2 Con il secondo motivo si censura la motivazione per ciò che attiene all’esclusione di condotte colpose durante il decorso post operatorio. La pronunzia d’appello propone una ricostruzione della vicenda parziale, acritica e contraddittoria rispetto alle risultanze processuali. Essa valuta i testimoni dell’accusa e della parte civile come interessati; ed esclude invece tale condizione per i testi della difesa assegnando a questi ultimi, e addirittura alle dichiarazioni dell’imputato, maggiore credibilità in ordine alla ricostruzione del fatto. Ben diversamente il Tribunale aveva affermato che tutti stesti dovessero ritenersi in qualche modo interessati e tutti aveva sottoposti al vaglio critico per ciò che attiene alla verificazione dell’effettività delle visite nella fase post operatoria. In realtà dalle deposizioni dei testi T. e Fr. emerge che la donna venne seguita anche nella fase post operatoria dal dottor P. , che provvide anche a verificare le prescrizioni di farmaci. Il primo giudice ha argomentatamele ritenuto che il rapporto terapeutico non si è mai interrotto e che il chirurgo fu portato a conoscenza della preoccupanti di condizioni cliniche della paziente. La Corte d’appello non ha minimamente preso in considerazione tale prospettazione assumendo in modo indimostrato che il chirurgo, tramite il T. , aveva invitato la donna a farsi visitare, senza esito.
In realtà, come ritenuto dal primo giudice, sul terapeuta incombeva l’obbligo di una attenta analisi delle criticità della situazione e delle possibili complicanze. Il giudice d’appello, senza confutare tale enunciazione, si è limitato ad affermare che la posizione di garanzia non poteva estendersi sino a ripetere le prescrizioni e le raccomandazioni espresse nell’atto di dimissioni dalla clinica, trascurando del tutto di considerare la negligente gestione della paziente a seguito dell’esame delle analisi.
2.2 Con unico atto ricorrono F.N. e F.S. .
Le argomentazioni sono simili a quelle espresse nell’altro ricorso.
Si rimarca che la tecnica utilizzata non è più accettata dalla comunità scientifica, come emerge dalle linee guida in materia. Si soggiunge che senza alcuna base probatoria la Corte d’appello ha ritenuto che la paziente avesse personalmente optato per la tecnica del bypass, mentre il primo giudice aveva rimarcato con forza la necessità di praticare la migliore scelta terapeutica e segnatamente quella meno rischiosa, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.
Oggetto di censura sono le valutazioni della Corte d’appello anche per ciò che attiene alla valutazione del comportamento del sanitario nella fase postoperatoria. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello, dalle diverse deposizioni testimoniali è emerso che la paziente veniva seguita dal dottor P. che provvide anche all’aggiornamento del trattamento farmacologico. Anche su tale punto la prima sentenza è chiara avendo messo in evidenza che è accertato che la donna si sottopose scrupolosamente ai controlli ematici, che almeno due di tali referti furono trasmessi all’attenzione del chirurgo e che vi fu un contatto diretto almeno in data 5 maggio. È dunque certo che il rapporto terapeutico non fu mai interrotto. E d’altra parte come emerso dalla deposizione del perito professor Fi. , l’incremento quasi logaritmico dei
valori indicativi del danno epatico avrebbe richiesto interventi tempestivi ed appropriati che invece furono omessi, sebbene il dato clinico fosse noto al sanitario.
3. I ricorsi sono infondati.
La sentenza impugnata parte dalla considerazione che l’evento letale è stato prodotto da coma epatico dovuto alla cirrosi insorta come complicanza dell’intervento chirurgico di bypass digiuno-ileale praticato dall’imputato per il trattamento dell’obesità di cui la paziente soffriva. Si aggiunge che l’affermazione di responsabilità è basata sulla scelta del tipo di intervento chirurgico, ritenuta erronea; e sul comportamento tenuto dall’imputato nella fase postoperatoria.
Sul primo tema si argomenta che è stata la paziente a scegliere sia il tipo di intervento che il chirurgo, su consiglio di tale T.G. , sacerdote della congregazione dei testimoni di Geova che offriva aiuto materiale e conforto ai fratelli di fede nei rapporti con la clinica ed i suoi medici. Inoltre, la donna ha sottoscritto un completo modulo di consenso informato, venendo a conoscenza delle possibili complicanze dell’intervento. Si aggiunge che non si è tenuto conto che il bypass in questione è incluso tra le prestazioni rimborsate dal servizio sanitario nazionale. Inoltre, dalle contrapposte pubblicazioni scientifiche, prodotte da tutte le parti,emerge che l’intervento in questione non era affatto desueto, quantomeno in ambito nazionale, come evidenziato anche nelle linee guida dell’anno 2008 della SICOB. Quanto alle linee guida americane e del Regno unito, nelle quali tale tipo di intervento non è neanche menzionato, rileva la spiegazione offerta dal consulente tecnico della difesa: l’abbandono della procedura in area anglosassone è dovuto ai costi del lungo follow-up che non sono accettati dalle assicurazioni private. Si considera pure che un recente trattato di chirurgia edito nel 2002 parla del bypass come di un efficace strumento per ottenere il calo ponderale; e fa menzione degli oltre 1000 interventi riusciti eseguiti proprio dal dottor P. , nonché della corretta esecuzione dei protocolli postoperatori previsti per l’intervento. Si conclude che nessun rimprovero per imperizia può essere mosso all’imputato nella scelta terapeutica adottata, in cui egli era specializzato e riconosciuto come stimato professionista.
Quanto al trattamento nella fase postoperatoria si considera che la complicanza intervenuta era prevista come una delle possibili conseguenze dell’intervento. L’imputato ha spiegato che, avuta notizia dal sacerdote dell’esito degli esami ematochimici eseguiti dalla paziente nel giugno 2003, dai quali emergeva un’alterazione importante dei valori delle transaminasi e, appreso che la donna non mangiava perché soffriva di emorroidi, aveva caldamente invitato il T. ad incoraggiare la L. a farsi visitare.
Tutti i pareri medici acquisiti concordano nel ritenere che sul piano oggettivo vi è stata una grave ed evidente latenza diagnostica e terapeutica da parte dei sanitari che avevano praticato l’intervento chirurgico, fino al ricovero ospedaliere della paziente in condizioni di gravissima ed irreversibile insufficienza epatica. Pure a tale riguardo la Corte d’appello dissente dalle conclusioni cui è pervenuto il primo giudice. Si assume che le divergenti emergenze processuali non possono condurre con certezza ad un giudizio di responsabilità. Si argomenta che la paziente, all’atto della dimissione, fu avvertita dei rischi e ricevette precise indicazioni sul percorso terapeutico, come traspare dalla scheda di dimissioni. Emerge pure che la paziente ha effettuato gli esami ematochimici prescritti con cadenza quasi mensile nei cinque mesi successivi all’intervento e che nel giugno e luglio 2003, tramite il ridetto sacerdote, i referti furono inviati a mezzo fax al chirurgo. Non risultano invece registrate dalla clinica le visite prescritte dai protocolli. La circostanza sostenuta dall’imputato secondo cui la donna non si sarebbe mai sottoposta a visita fa venir meno la sua posizione di garanzia. In ogni caso il chirurgo ha riferito che, esaminato il referto ematologico del giugno 2003, riscontrò un’alterazione dei valori della transaminasi che di per sé non avevano un significato patologico trattandosi di una alterazione tipica della prima fase post operatoria. Egli invitò il sacerdote a suggerire alla paziente di presentarsi per una visita di controllo ma ciononostante la donna non si è mai recata nella clinica. Questa circostanza è confermata dal T. che ha riferito di essersi fatto ambasciatore dell’esortazione del medico alla quale, tuttavia, non seguì la visita richiesta. Il sacerdote ha soggiunto di aver ripetuto l’esortazione dopo che la donna era tornata dalle vacanze estive.
La pronunzia considera che la versione dei fatti rese dall’imputato circa l’autosottrazione della paziente alle prescrizioni ed ai controlli non è neanche idoneamente contraddetta dalle testimonianze dei suoi stretti congiunti e del suo medico curante atteso che l’attendibilità di tali testimonianze deve essere valutata con particolare cautela, trattandosi di persone non disinteressate rispetto al giudizio. D’altra parte i familiari, pur affermando che la loro congiunta si recò mensilmente alle visite dall’imputato e che talvolta venne da loro accompagnata, non hanno mai assistito a tali visite. In conclusione non risulta sufficientemente provato che la paziente si sia scrupolosamente attenuta alle prescrizioni dietetiche e farmacologiche prescritte e soprattutto che la stessa si sia sottoposta alle visite secondo la cadenza temporale prescritta dal protocollo di dimissioni. Né può ritenersi che la posizione di garanzia del dottor P. potesse estendersi fino al punto di dover ripetere insistentemente nei confronti di una paziente adulta, che ormai era stata dimessa dalla clinica, le prescrizioni e le raccomandazioni che erano state meticolosamente fornite.
3.1 Tale valutazione è nel complesso immune da censure, non riscontrandosi vizi di carattere logico e giuridico. Come si è sopra esposto, due sono gli addebiti mossi all’imputato. Quello di aver posto in essere un intervento chirurgico non appropriato ed altamente rischioso; e quello di non aver adeguatamente curato la fase postoperatoria e le complicanze insorte. Con riguardo ad ambedue le contestazioni la valutazione della Corte d’appello non presenta censure. Emerge che la patologia da cui la donna è affetta viene trattata con diversi tipi di intervento chirurgico che rispondono a distinte filosofie. Per ciò che riguarda la procedura adottata dal ricorrente non si può trascurare il rilevante peso che correttamente la Corte d’appello attribuisce alla circostanza che si tratta di un tipo di intervento autorizzato e rimborsato dall’amministrazione sanitaria pubblica. Ciò implica un apprezzamento da parte di un organismo istituzionale di cui non può essere trascurata la rilevanza nel considerare come non estraneo al circuito scientifico l’approccio chirurgico in questione. Non si configura neppure il travisamento della prova scientifica adombrato dai ricorrenti mercé la produzione di un trattato di chirurgia generale. Infatti nel documento si da atto che la metodica può comportare minore mortalità e minore gravità delle complicanze al prezzo di elevata percentuale di restaurazione a breve termine. Si aggiunge che ciò è riscontrato particolarmente in Italia: anche a distanza di tempo la mortalità trascurabile ed il mantenimento del peso eccellente mentre la necessità di restauro è marginale. Tale apprezzamento corrobora la valutazione espressa dal giudice di merito che trova, per come si intende anche dal tenore dell’evocato testo scientifico, il suo aspetto positivo nella possibilità di ripristinare la situazione preesistente dell’apparato gastroenterico nel caso in cui, nella fase post operatoria, si manifestino le tipiche rilevanti complicanze della procedura in questione. La condotta del terapeuta, dunque, viene correttamente ritenuta immune da censure.
3.2 Non si configurano profili di colpa neppure con riguardo alla fase post operatoria. Come sopra esposto, il giudice di merito ha posto in luce l’importanza di tale fase postoperatoria nella quale il paziente deve essere attentamente monitorato In modo che, all’insorgere delle già evocate complicanze, si possa provvedere alle terapie appropriate e, se del caso, alla rimozione del bypass. Orbene,in tale fase si è senza dubbio riscontrata una grave carenza che ha avuto come esito un tardivo trattamento delle patologie collaterali insorte, che hanno determinato l’esito letale. Neppure per tale parte della vicenda, tuttavia, può ravvisarsi una condotta concretamente rimproverabile a carico del sanitario. Il Giudice di merito compie un apprezzamento in fatto di cui si è sopra dato conto e che non mostra profili di illogicità. Correttamente si è dato privilegiato peso alle narrazione del teste T. che tenne i contatti tra la paziente ed il chirurgo. Ne emerge che la donna ha trascurato quasi totalmente le raccomandazioni che le erano state fatte; ha inviato al sanitario due soli referti afferenti all’analisi dei liquidi biologici; non si è presentata per i controlli previsti, o almeno non lo ha fatto dopo il primo controllo per la rimozione dei punti. Neppure ha risposto alle sollecitazioni pervenutele dal terapeuta tramite il religioso di cui si è sopra parlato. In tale situazione manca la possibilità di ravvisare condotte colpose, non potendosi pretendersi che li terapeuta spinga la sua diligenza al di là di un insistito e fotte invito a presentarsi ai controlli. Non si scorge in effetti quale più radicale e risolutiva iniziativa costui potesse assumere, considerando anche che non poteva neppure escludersi che la paziente avesse divisato di rivolgersi ad altro sanitario.
I ricorsi vanno conseguentemente rigettati. Segue per legge la condanna al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti ai pagamento delle spese processuali.

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