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La massima

1. La responsabilità penale per reato omissivo improprio (o reato commissivo mediante omissione) presuppone la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla quale deriva l’obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene; obbligo che si attualizza in ragione del perfezionarsi della c.d. situazione tipica. In presenza di tali condizioni la semplice inerzia assume significato di violazione dell’obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l’evento) e l’esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento apre il campo all’ascrizione penale, secondo la previsione dell’art. 40 cpv. cod. pen..

2. Quando il garante non impedisce la verificazione di un evento “naturalisticamente inteso”, tipico rispetto alla corrispondente fattispecie di natura commissiva, la responsabilità penale che ne consegue ha forma monosoggettiva, quando il mancato impedimento concerna l’altrui condotta criminosa lo schema giuridico che si prospetta è, invece, quello del concorso di persone nel reato. La responsabilità del garante omettente trae origine dal combinato disposto agli artt. 40 cpv. e 110 cod. pen..

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV

SENTENZA 5 settembre 2013, n. 36399

Ritenuto in fatto

1. All’esito di rito abbreviato celebrato a carico di una pluralità di imputati, in data 23.2.2009 il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Lamezia giudicava M.M.A. responsabile di esser concorsa negli abusi sessuali e nei maltrattamenti compiuti tra l’anno … e l’anno … in danno di alcune degenti da personale dell’SPDC, dalla stessa diretto in qualità di primario, non avendo impedito la commissione dei medesimi, pur avendone l’obbligo. Il Giudice dell’udienza preliminare giudicava la M. responsabile anche del reato di falso in atto pubblico e la condannava, per entrambi i reati ascrittile, alla pena ritenuta equa. Solo in relazione ad alcuni dei fatti originariamente contestati all’imputata, segnatamente quelli indicati ai capi sub 10 (atti sessuali continuati commessi da C.D. in danno di P.G. ), 24 e 31 (atti sessuali commessi da Ma.Gi.Fr.Ma. rispettivamente in danno di Pa.Ma.Li. e di Co.Pa. ), la responsabilità della M. veniva esclusa, essendo stati mandati assolti i coimputati C. e Ma. dai relativi addebiti.

La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza emessa il 5.2.2010, riformava la condanna pronunciata in primo grado pronunciando l’assoluzione dell’imputata dal reato plurisoggettivo per non aver commesso il fatto e dal reato monosoggettivo perché il fatto non sussiste.

Proposta impugnazione, tra gli altri dal P.G. (nei confronti della M. e del coimputato R. ), pronunciando in data 11.8.2011 la Corte di cassazione annullava con rinvio la sentenza di secondo grado, ritenendo – quanto alla posizione della M. – che la stessa presentasse vizi motivazionali in ordine alla ritenuta mancanza di prova della sussistenza del profilo soggettivo del reato concorsuale ascritto all’imputata e della efficacia impeditiva del comportamento doveroso omesso.

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Catanzaro, quale giudice del rinvio, ha riformato la decisione di primo grado, escludendo la responsabilità della M. anche in relazione al fatto descritto sub 37 della rubrica (violenza privata commessa da R.V. in danno di T.E. ) e, ritenute prevalenti le attenuanti generiche sulle contestate aggravanti, ha rideterminato la pena in anni due mesi sei di reclusione, con la revoca delle pene accessorie disposte dalla sentenza di primo grado, che ha confermato nel resto.

2. La vicenda che viene all’esame di questa Corte concerne una nutrita serie di abusi sessuali, violenze private, molestie e maltrattamenti perpetrati da un medico e da alcuni infermieri del reparto psichiatrico dell’ospedale di (omissis) in danno di alcune pazienti; illeciti che vennero disvelati a seguito di indagini avviate sulla scorta delle dichiarazioni che Ce.Ma. , una di quelle pazienti, aveva rilasciato ad alcuni medici. Alla M. venne contestato di non aver impedito la commissione dei reati, pur avendone l’obbligo in ragione del ruolo svolto di primario del reparto.

Con la sentenza qui impugnata i giudici di secondo grado hanno ritenuto che la consapevolezza da parte della M. della commissione di quei reati sia dimostrata dalle lamentele che le vennero portate dai familiari di alcune delle vittime; dall’atteggiamento di inerzia assunto di fronte alle segnalazioni provenienti da più parti, compresi alcuni medici; da talune affermazioni dalla stessa fatte; dalla conoscenza delle annotazioni scritte degli infermieri, nelle quali si menzionava l’occultamento di alcuni farmaci e anomalie nella somministrazione della terapia ad una paziente. La Corte distrettuale ha anche affermato che l’imputata era del tutto consapevole di quale fosse la condotta doverosa da assumere, individuata nell’approfondimento dei fatti mediante istruttoria interna, segnalazione degli stessi al capo dipartimento, assunzione di provvedimenti per una maggiore vigilanza sulle pazienti, promozione di azioni disciplinari, denuncia di fatti di rilevanza penale. Quanto all’efficacia impeditiva di siffatte condotte, la Corte di Appello ha richiamato le statuizioni del giudice di legittimità per il quale, ove si assolva ai doveri imposti dal ruolo, non si può essere chiamati a rispondere se l’evento lesivo si verifica ugualmente per ragioni indipendenti dall’operati del preposto. Sul versante soggettivo, risultando sufficiente “la coscienza che il proprio mancato intervento contribuisca al protrarsi del fatto commissivo altrui, accettandone quanto meno il relativo rischio di verificazione nelle forme del dolo eventuale”, il Collegio territoriale ha ritenuto che il dolo ha ad oggetto la propria condotta omissiva e non il fatto illecito che il terzo può commettere in conseguenza dell’inerzia, e pertanto ha ritenuto sussistente il dolo richiesto dalla norma, posto che la M. era “nelle condizioni di prospettarsi il rischio del verificarsi di fatti illeciti” per la presenza di segnali perspicui e peculiari e l’anormalità di detti sintomi. In ragione della propria posizione avrebbe avuto il potere di attivare le procedure necessarie, con la concreta possibilità di evitare il protrarsi delle condotte illecite.

3. Ricorre per cassazione l’imputata a mezzo dei difensori di fiducia, avv. Vincenzo Nico D’Ascola e Francesco Gambardella.

3.1. Con un primo motivo si deduce la violazione degli artt. 40 cpv., 42 cpv., 43 e 110 cod. pen., anche in relazione all’art. 530, co. 2 cod. proc. pen..

La Corte di Appello, nel connettere la responsabilità della M. alla presenza di segnali di allarme perspicui e peculiari che ella avrebbe dovuto vagliare e in ragione dei quali avrebbe dovuto attivarsi, ha affermato che il grado di consapevolezza richiesto dai reati omissivi impropri non coincide con la volontà dei fatti ma si identifica nella coscienza che la propria inerzia contribuisca al protrarsi dell’altrui fatto illecito, accettandone il rischio. L’affermazione della Corte distrettuale è che il dolo ha ad oggetto solo la condotta omissiva e non anche il delitto del terzo.

Gli esponenti censurano che il giudice di seconde cure abbia però considerato sufficiente la conoscenza di una generica situazione di rischio piuttosto che la percezione di un evento determinato. Percezione che è esclusa da una condizione di incertezza in ordine alla tipologia di evento. Inoltre, si lamenta che la Corte abbia desunto l’esistenza dell’elemento volitivo dalla prova della sussistenza dell’inerzia, mentre accanto alla prova della rappresentazione occorre altresì la prova della volizione del fatto tipico altrui.

Anche il concetto di dolo eventuale viene ritenuto malamente utilizzato dalla Corte di Appello, avendo questa ritenuto sufficiente ad integrarlo l’accettazione di “una generica situazione di pericolo di commissione di reati da parte di terzi” piuttosto che della probabilità concreta di verificazione dell’evento. Quest’ultima richiede il superamento in termini positivi del dubbio sulla verificazione dell’evento. Richiamando quanto statuito da Cass. S.U. n. 12433 del 30.3.2010, si afferma che il giudice di seconde cure “avrebbe dovuto indicare quali siano stati gli elementi dimostrativi di un atteggiamento così pregnante in termini volontaristici”; indicazione che invece sarebbe mancante. Peraltro, il contenuto della condotta che si sarebbe dovuta tenere (approfondimento dei fatti mediante indagine interna, apprestamento di maggiore vigilanza e sorveglianza dei pazienti) documenta che la situazione in cui versava l’imputata era ancora quella del dubbio; di per sé incompatibile con il dolo eventuale.

Si assume, ancora, che avendo la Corte di Appello individuato quale comportamento doveroso quello di denunciare fatti di rilievo penale, per i fatti antecedenti all'(omissis) alla M. si potrebbe contestare unicamente il reato di cui all’art. 361 cod. pen. Distinguendo tra questi gli illeciti conosciuti dopo il loro compiersi e quelli appresi in itinere, si afferma che per i primi non è concepibile alcun concorso nel reato da parte della M. ; per i secondi, sulla scorta di quanto già evidenziato, si ribadisce che occorre “una indicazione puntuale dello specifico reato nel quale si afferma che l’odierna ricorrente sia concorsa” per concludere che tale indicazione è, nella motivazione, mancante.

Infine, rispetto all’ipotesi che venga ritenuta una condotta colposa della M. , si segnala come non possa ipotizzarsi il concorso colposo nel reato doloso perché il reato del partecipe non è previsto anche nella forma colposa.

3.2. Con un secondo motivo si lamenta violazione dell’art. 476 cod. pen. e motivazione meramente apparente ed illogica, in ordine all’affermazione di responsabilità dell’imputata per il reato di falsità materiale in atti pubblici. Invero, si lamenta, la condanna è fondata sulla circostanza della sostituzione della cartella clinica originale, avanzata però come mera ipotesi dalla teste F. . L’assenza di certezza al riguardo avrebbe dovuto imporre l’assoluzione della M. per il reato in parola.

3.3. Con un terzo motivo ci si duole dell’omessa motivazione, in relazione al motivo di appello attinente al trattamento sanzionatorio. Con il gravame si era chiesta una pena più mite, alla luce dell’art. 133 cod. pen. La sentenza di secondo grado nulla afferma al riguardo.

4. Con atto pervenuto a questa Corte il 9.5.2013, denominato “Motivi nuovi”, si rileva:

– che avendo la M. dato corso all’indagine con la denuncia presentata il 28.10.2006, ella non può essere chiamata a rispondere dei fatti successivi a tale data per l’impossibilità concreta di evitare il verificarsi degli stessi, come dimostrato dalla circostanza che essi furono commessi nonostante il costante monitoraggio eseguito dalla Polizia di quanto accadeva nel reparto; inoltre va considerato che la M. sporse una seconda denuncia il 2.4.2007, poiché ciò dimostra che ella non ebbe alcun atteggiamento omissivo quando venne a conoscenza di dati e circostanze certe;

– la M. non può essere chiamata a rispondere di fatti occorsi nell’anno …, perché all’epoca non era primario del reparto in questione;

– la M. non ebbe alcuna conoscenza dei fatti commessi in danno delle persone offese Pi. ed I. ; più in generale, si lamenta che la sentenza della Corte di Appello abbia omesso “di accertare, relativamente ad ogni singola accusa se ed all’epoca di commissione del fatto illecito: a) il primario fosse effettivamente a conoscenza, in quel determinato momento storico, di una situazione di fibrillazione degenerata nella perpetrazione di reati specifici da parte dei medici e degli infermieri…”.

Considerato in diritto

5. Il ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.

5.1. Il primo motivo di ricorso, sotto diversi angoli visuali, mette a fuoco la tenuta della motivazione quanto all’accertamento dell’elemento soggettivo dell’illecito contestato alla M. . Non è in discussione l’esistenza degli illeciti che, da altri commessi, sono stati ascritti alla M. in forza della previsione degli artt. 40 cpv. e 110 cod. pen. Inoltre, salvo quanto sarà appresso precisato in ordine all’arco temporale entro il quale l’imputata assunse la qualità di primario del reparto, non vi è contestazione sull’esistenza di una posizione di garanzia dell’imputata, in forza della quale ella era in astratto tenuta ad impedire che si compissero atti in pregiudizio della libertà sessuale, della salute e della dignità delle pazienti ricoverate nel reparto.

Si contesta, per contro, la motivazione resa con la pronuncia impugnata quanto alla consapevolezza da parte della M. della concreta possibilità di verificazione dell’evento-reato. Tema già trattato da questa Corte in occasione del giudizio rescindente, con l’esito di annullamento della sentenza di assoluzione dell’imputata.

5.2. Senza alcuna pretesa di approfondimento teorico o di esaustività – che implicherebbe la trattazione di temi non essenziali ai fini della decisione delle questioni poste con il ricorso -, ma solo per una migliore intelligenza delle cadenze della presente motivazione, è opportuno rammentare che la responsabilità penale per reato omissivo improprio (o reato commissivo mediante omissione) presuppone la titolarità di una posizione di garanzia nei confronti del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, dalla quale deriva l’obbligo di attivarsi per la salvaguardia di quel bene; obbligo che si attualizza in ragione del perfezionarsi della c.d. situazione tipica. In presenza di tali condizioni la semplice inerzia assume significato di violazione dell’obbligo giuridico (di attivarsi per impedire l’evento) e l’esistenza di una relazione causale tra omissione ed evento apre il campo all’ascrizione penale, secondo la previsione dell’art. 40 cpv. cod. pen..

Mentre quando il garante non impedisce la verificazione di un evento “naturalisticamente inteso”, tipico rispetto alla corrispondente fattispecie di natura commissiva, la responsabilità penale che ne consegue ha forma monosoggettiva, quando il mancato impedimento concerna l’altrui condotta criminosa lo schema giuridico che si prospetta è quello del concorso di persone nel reato. La responsabilità del garante omettente trae origine dal combinato disposto agli artt. 40 cpv. e 110 cod. pen..

5.3. Il profilo di tal ultima fattispecie di maggiore interesse in questa sede è quello soggettivo.

La giurisprudenza di legittimità in tema di concorso mediante omissione nel reato commissivo, in presenza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, afferma che, perché possa aversi responsabilità del garante, occorre che questi si sia rappresentato l’evento, nella sua portata illecita; tale rappresentazione può consistere anche nella prospettazione dell’evento come evenienza solo eventuale. Detto altrimenti, la giurisprudenza – in ciò avversata da parte minoritaria della dottrina – riconosce che il garante possa rispondere anche a titolo di dolo eventuale per non aver impedito la commissione di un reato da parte di altri. In tal senso, tra le ultime, Sez. 3, n. 28701 del 12/05/2010, Pg in proc. A. e altri, Rv. 248067, per la quale “la responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento può qualificarsi anche per il solo dolo eventuale, a condizione che sussista, e sia percepibile dal soggetto, la presenza di segnali perspicui e peculiari dell’evento illecito caratterizzati da un elevato grado di anormalità” (per Sez. 5, Sentenza n. 9736 del 10/02/2009, Cacioppo e altri, Rv. 243023, “la responsabilità del mero consigliere d’amministrazione di società per fatti di bancarotta fraudolenta, materialmente posti in essere dal presidente, presuppone la rappresentazione dell’evento, nella sua portata illecita, desunta da segnali perspicui e peculiari, e la volontaria omissione nell’impedirlo, sì che possa affermarsi che egli abbia quanto meno accettato il rischio di verificazione dello stesso”).

Invero, l’aspetto maggiormente problematico non concerne tanto la persuasività di tale interpretazione – non si vede perché il dolo eventuale, cui si riconosce legittima cittadinanza fuori dal perimetro del reato omissivo improprio plurisoggettivo, dovrebbe vedersi negato analogo riconoscimento in quest’ultima provincia – quanto le cadenze dell’accertamento di una simile forma di dolo.

Se in linea di principio si può convenire e si conviene sulla tesi che sussiste la responsabilità penale dell’omittente quando, pur essendosi questo rappresentato la concreta possibilità di verificazione dell’evento, si è sottratto consapevolmente all’adempimento dei propri doveri di controllo, accettando il rischio che l’evento si verificasse, il punctum dolens si rinviene lì dove si formula il giudizio di concreta sussistenza del dolo eventuale, che a fronte di indubitabili difficoltà di accertamento, corre il rischio di scivolare verso l’evocazione di schemi tipici della responsabilità per colpa.

Al fine di evitare un simile esito non può farsi a meno di rifiutare concetti quali “prevedibilità” o “conoscibilità”, che rimandano alla struttura della colpa, ed accordare preferenza alla reale “previsione” dell’evento che, in quanto in itinere, si è ancora in condizioni ed in dovere di impedire.

Perché ciò si realizzi non è certo sufficiente che si accerti la violazione dell’obbligo di attivarsi, poiché l’oggettivo inadempimento non dice ancora nulla in ordine al profilo soggettivo dell’autore del fatto (omissivo) (ma tende all’equazione Sez. 3, n. 6208 del 09/04/1997, Ciciani e altro, Rv. 208804, per la quale, anche per i reati imputati ai sensi dell’art. 40 cpv., in forza dei principi generali, per l’elemento soggettivo è sufficiente che il “garante” abbia conoscenza dei presupposti fattuali del dovere di attivarsi per impedire l’evento e si astenga, con coscienza e volontà, dall’attivarsi, con ciò volendo o prevedendo l’evento (nei delitti dolosi); sicché risponde del reato l’amministratore titolare che conosceva i suoi doveri giuridici di vigilare sul comportamento dell’amministratore di fatto e aveva coscientemente omesso di esercitarli, con ciò accettando il rischio che l’amministratore effettivo commettesse i reati tributari che egli aveva il dovere di impedire).

Neppure è sufficiente che siano “oggettivamente” rinvenibili quei “segnali perspicui e peculiari in relazione all’evento illecito”, aventi un grado di anormalità (non in senso assoluto ma in relazione al soggetto garante di cui trattasi) che la giurisprudenza di legittimità ha elevato a guida nell’accertamento già a partire da Sez. 5, n. 23838 del 04/05/2007, P.M. in proc. Amato e altri, Rv. 237251, essendo comunque necessario dare dimostrazione che quei segnali siano stati colti nel loro compiuto significato descrittivo dal garante in questione. Anche su questo punto si dissente da Sez. 3, n. 28701 del 12/05/2010, Pg in proc. A. e altri, Rv. 248067, che pare ammettere la sufficienza di una “possibilità di consapevolezza e di prevedibilità del rischio” di comportamenti censurabili. Ad avviso di questa Corte, il rilievo dell’esistenza di segnali noti non può non essere accompagnato dall’accertamento della elaborazione che degli stessi è stata fatta: quei segnali possono essere stati sottovalutati, malamente interpretati. Ciò indirizza verso un comportamento colposo; non certo doloso.

Va quindi data la prova di una corretta elaborazione dei segnali; essa è legata alla valutazione delle capacità intellettive del soggetto, anche alla stessa evidenza e significatività dei segnali; il giudice deve dimostrare con adeguata motivazione di aver analizzato come quei segnali sono stati elaborati.

Né può essere sufficiente che detti segnali rivelino una indistinta condizione di rischio per il bene tutelato, poiché se la responsabilità vuoi essere per il concorso, in ipotesi, nel reato di “abuso sessuale”, non può essere idoneo a sostenere l’ascrizione penale il dolo, ad esempio, del reato di minaccia o di ingiurie. Non sembra seriamente dubitabile che l’evento di cui si discorre, in quanto oggetto del dolo, ancorché eventuale, debba essere proprio lo specifico reato che andava impedito. Mentre per quanto concerne il quesito se la consapevolezza deve investire anche i singoli episodi illeciti, si può convenire con quanto affermato in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale: che, ad integrare il dolo dell’amministratore di diritto rispetto agli illeciti commessi dall’amministratore di fatto è sufficiente la generica consapevolezza che il secondo compia una delle condotte indicate nell’art. 216 comma 1 n. 1 L. fall., senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi (Sez. 5, n. 29896 del 01/07/2002 – dep. 20/08/2002, Arienti ed altri, Rv. 222389). Detto altrimenti, è necessario che si abbia la rappresentazione caratteristica del dolo eventuale di un evento-reato tipologicamente coincidente con quello del quale si è chiamati a rispondere; non però delle specifiche caratteristiche fattuali del reato commesso dal concorrente (in tal senso Sez. 5, n. 38712 del 19/06/2008, Prandelli e altro, Rv. 242022, per la quale “In tema di bancarotta fraudolenta, in caso di concorso “ex” art. 40, comma secondo, cod. pen., dell’amministratore di diritto nel reato commesso dall’amministratore di fatto, ad integrare il dolo del primo è sufficiente la generica consapevolezza che il secondo compia una delle condotte indicate nella norma incriminatrice, senza che sia necessario che tale consapevolezza investa i singoli episodi delittuosi, potendosi configurare l’elemento soggettivo sia come dolo diretto, che come dolo eventuale; e così sembra potersi interpretare anche Sez. 5, n. 44293 del 17/11/2005, Liberati, Rv. 232816, laddove afferma che, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, la responsabilità dell’amministratore, che risulti essere stato soltanto un prestanome, nasce dalla violazione dei doveri di vigilanza e di controllo che derivano dalla accettazione della carica, cui però va aggiunta la dimostrazione non solo astratta e presunta ma effettiva e concreta della consapevolezza dello stato delle scritture, tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari o, per le ipotesi con dolo specifico, di procurare un ingiusto profitto a taluno”).

5.4. D’altro canto, l’approccio al tema del dolo eventuale del garante omittente non può non tener conto dell’elaborazione che la medesima giurisprudenza di legittimità sta svolgendo quanto alla più generale questione della definizione della linea di demarcazione tra il dolo eventuale e la colpa con previsione.

Anche in questo caso non vi può essere alcuna pretesa di esaurire il panorama delle opinioni in campo. È quindi sufficiente ricordare che la giurisprudenza fa proprio il criterio dell’accettazione del rischio, per il quale ricorre il dolo eventuale quando l’agente/omittente abbia tenuto la condotta tipica nella previsione dell’evento ed accettando la sua verificazione (quale evenienza accessoria al conseguimento dell’obiettivo prefissato), laddove nella colpa cosciente alla previsione dell’evento si accompagna la mancata accettazione dello stesso.

Tuttavia, la declinazione del criterio è invero piuttosto variegata. Ora si afferma che sussiste il dolo eventuale quando “chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità – od anche la semplice possibilità – che esso si verifichi e ne accetta il rischio” (Cass., Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428/1992); ora si rimarca il fatto che “l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il rischio di cagionarle” (Cass., Sez. Un., 14 febbraio 1996, n. 3571); oppure si evoca “la consapevolezza che l’evento, non direttamente voluto, ha la probabilità di verificarsi in conseguenza della propria azione nonché dell’accettazione volontaristica del rischio” (Cass., Sez. Un., 12 ottobre 2003, n. 748/1994).

In alcune decisioni si pone l’accento sull’alternativa astrattezza/concretezza della previsione dell’evento: nel dolo eventuale l’evento viene previsto come concretamente possibile mentre nella colpa cosciente la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta, percepita dal reo come non concretamente realizzabile (Cass. sez. 4, 10.2.2009, n. 13083, P.M. Trib. Salerno in proc. Bodan; cfr. Cass. sez. 5, 17.9.2008, n. 44712; Cass. sez. 1, 14.6.2001, n. 30425, e la giurisprudenza in esse richiamata).

In altre si enfatizza il mancato superamento del dubbio circa la verificazione dell’evento quale connotato essenziale del dolo eventuale (Cass. Sez. 4, sent. n. 11222 del 18/02/2010, P.G. e p.c. in proc. Lucidi, rv. 249492; criterio al quale sembra contiguo, se non coincidente, quello della “previsione negativa” circa la possibilità che l’evento si verifichi).

Il dato che merita di essere sottolineato è che dolo eventuale e colpa cosciente non si pongono come concetti limitrofi, tanto che si può trascorrere dall’uno all’altro al variare di un particolare fattore, identificato come elemento scriminante. È ormai una consapevolezza radicata della cultura penalistica italiana, e non solo, che dolo e colpa sono strutturalmente diversi e non hanno una matrice comune, per quanto elementi della colpa si possano rinvenire anche nel dolo. Si tratta di un’osservazione tanto banale quanto utile, perché chiarisce che non sono le forme che possono riconoscersi alla previsione dell’evento (astratta/concreta; evento probabile/possibile/certo) a poter assurgere di per sé a canone distintivo. Come è stato già affermato, la previsione assume rilievo quale indice di quella particolare volizione che si presenta nelle forme dell’accettazione del rischio: quanto più la previsione dell’evento è “concreta” o propone come certo il verificarsi dell’evento, tanto più potrà dirsi che l’agente/omittente ha accettato e quindi voluto l’evento.

È evidente che ogni concezione che propugni o sottenda una sorta di continuum tra dolo e colpa – con dolo eventuale e colpa cosciente a rappresentare le aree ove si manifesta la contiguità di trarne diverse ma appartenenti ad un medesimo ininterrotto tessuto – appare fallace e origine di affermazioni non condivisibili.

La differente struttura deve far dubitare che la previsione dell’evento si atteggi in ambo le aree (quella della condotta dolosa e quella della condotta colposa) allo stesso modo.

Com’è stato scritto da autorevole dottrina, il dolo è “decisione per l’illecito”; laddove la colpa è rimproverabilità della violazione di una regola cautelare che può essere anche totalmente ignota all’autore del fatto.

Il criterio dell’accettazione del rischio, stabilmente utilizzato dalla giurisprudenza quanto variamente inteso, non può valere ad indicare la struttura del dolo. Piuttosto, esse serve ad indirizzare l’accertamento dell’esistenza di quella “decisione per l’illecito” che davvero caratterizza il comportamento doloso.

Come è stato osservato, l’accettazione del rischio non è un vero processo mentale; potrebbe dirsi che essa è la parafrasi della genesi e della persistenza di una decisione per l’illecito che giunge sino all’esaurimento della condotta con la produzione dell’evento. In questa prospettiva dovrebbe essere ancor più evidente che la ricerca di opposizioni concettuali che dovrebbero connotare in modo caratteristico la differenza strutturale tra il dolo eventuale e la colpa cosciente rischia di condurre lungo la via dell’errore. L’alternativa previsione concreta/previsione astratta dell’evento illecito; come quella possibilità di verificazione/elevata probabilità di verificazione dell’evento illecito; etc, possono solo offrire l’accesso alla ricostruzione dell’atteggiamento mentale del soggetto.

Il canone della “persistenza di una decisione per l’illecito che giunge sino all’esaurimento della condotta con la produzione dell’evento” permette di operare una puntualizzazione quanto all’oggetto del dolo eventuale.

Come è stato spiegato, l’accettazione non deve riguardare solo la situazione di pericolo posta in essere, ma deve estendersi anche alla possibilità che si realizzi l’evento non direttamente voluto, pur coscientemente prospettatosi… altrimenti si avrebbe la (inaccettabile) trasformazione di un reato di evento in reato di pericolo”. L’esemplificazione portata a sostegno dell’affermazione appare piuttosto calzante: se bastasse l’accettazione di una situazione di pericolo cagionata dalla propria condotta trasgressiva di una regola cautelare, “il conducente di un autoveicolo (che) attraversi col rosso una intersezione regolata da segnalazione semaforica, o non si fermi ad un segnale di stop, in una zona trafficata, risponderebbe, solo per questo, degli eventi lesivi eventualmente cagionati sempre a titolo di dolo eventuale”. Tale posizione risponde appieno al rilievo dottrinario secondo il quale “perché sussista il dolo eventuale, ciò che l’agente deve accettare è proprio l’evento – proprio la morte -; è il verificarsi della morte che deve essere stato accettato e messo in conto dall’agente, pur di non rinunciare all’azione che, anche ai suoi occhi, aveva la seria possibilità di provocarlo” (Cass. sez. 4, sent. n. 11222 del 18/02/2010, P.G. e p.c. in proc. Lucidi, rv. 249492).

La necessità che l’accettazione del rischio concerna in realtà proprio l’evento tipico (e in ciò si assume consapevolmente una posizione opposta a quella espressa da questa Corte in occasione del primo giudizio rescindente) riconduce l’accertamento giudiziario al rispetto del principio di legalità e del principio di colpevolezza.

5.5. Ricondotte simili considerazioni nella vicenda che qui occupa, esse convincono ulteriormente circa il fatto che i segnali perspicui non possono che riguardare lo specifico evento che si intende porre a carico del garante omittente; essi devono essere stati percepiti ed assunti nel loro reale significato dal soggetto di cui trattasi; una condizione di dubbio circa la loro significatività non è di per sé in compatibile con l’accettazione dell’evento.

Il dubbio descrive una situazione irrisolta, perché accanto alla previsione della verificabilità dell’evento vi è la previsione della non verificabilità. Il dubbio corrisponde ad una condizione di incertezza, che appare difficilmente compatibile con una presa di posizione volontaristica in favore dell’illecito, ad una decisione per l’illecito; ma che ove concretamente superato, avendo l’agente optato per la condotta anche a costo di cagionare l’evento, volitivamente accettandolo quindi nella sua prospettata verificazione, lascia sussistere il dolo eventuale (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 30472 del 11/07/2011, Rv. 251484, Braidic).

6. La sentenza qui impugnata (unitamente a quella di primo grado, stante la sostanziale coincidenza) è in aperta contraddizione con le linee interpretative sin qui descritte.

È bene puntualizzare alcune caratteristiche delle imputazioni. Nell’ambito dei capi di imputazione ai quali si collegano gli addebiti sub 38), quelli ai capi 5 e 6 (p.o. Y. , salvo per il fatto del (omissis) ), 11, 12 (pp.oo. Pi. e I. ), 19 (p.o. T. E., salvo per il fatto del (omissis) ), 23 (p.o. m. ), 35 (p.o. Ta. ) si collocano prima dell'(omissis) , descrivendo un arco temporale che tocca gli anni dal (omissis) con i fatti concernenti la Y. , il (omissis) con gli illeciti in danno della m. , e poi il XXXX con gli altri fatti; i restanti (13, p.o. Ce. ; 14, p.o. Ro. ; 15, p.o. r. ; 17, p.o. c. ; 25, p.o. Ro. ; 27, p.o. Ce. ; 36 e 37, p.o. T. ) sono successivi a tale data.

Poiché la Corte di Appello ha confermato la condanna pronunciata dal Giudice dell’udienza preliminare per tutti i reati che questi aveva ritenuto (che, rispetto all’originaria contestazione, non contemplavano il concorso nei fatti descritti ai capi 10, 24 e 31), salvo che per il reato di cui al capo 37, va rilevato come la condanna della M. concerna fatti che si pongono in un arco temporale che va dall’anno … sino all’anno ….

Nonostante ciò, la sentenza impugnata non reca alcuna esplicazione delle ragioni per le quali si è ravvisata la responsabilità della M. anche per fatti risalenti ad un periodo addirittura anteriore rispetto a quello dagli stessi giudici di merito individuato come quello in cui emersero indicatori che avrebbe dovuto essere significativi per la M. .

Infatti, secondo la ricostruzione operata dal giudice di primo grado (e fatta propria dalla Corte di Appello in sede di rinvio) le prime notizie la M. le ebbe in relazione all’episodio che coinvolse il Ma. nel (omissis) (capo 22, fatto non contestatole). Avuta notizia dell’approccio abusivo operato dal Ma. in danno della degente S. , la M. convocò entrambi; nell’occasione il medico negò di aver baciato la giovane, che dal canto suo confermò di essere stata vittima della indebita “attenzione” del medico (cfr. pg. 39 s.). A fronte di ciò la M. non assunse alcun provvedimento.

Un secondo viene indicato nell’episodio che coinvolse la T. (capo 19). Tuttavia, senza specificare in quale tempo i parenti della donna informarono la M. dell’accaduto; e nell’evidenziare gli elementi di prova a carico del C. , non si da alcuna collocazione temporale ai fatti (cfr. pg. 46 s.).

Si citano poi le lamentele fatta alla M. da P.D. , padre di G. , a proposito di un rapporto sessuale avuto dalla figlia nel reparto. Il capo 10 imputa toccamenti ed altri atti sessuali abusivi a C. in danno della P. ; i fatti sono del ….

Vengono ancora evocate le lamentele dei parenti della Ta. ; fatti antecedenti all'(omissis) .

La dr.ssa G. ha riferito che la M. venne messa al corrente della vicenda L. (capi 8 e 9, del (omissis) ).

Si cita poi quanto detto dalla F. , relativamente ad una “situazione generale del reparto”.

Pertanto, la condanna della M. per fatti occorsi in epoca anteriore all’emergere dei primi segnali che si ritiene siano stati posti all’attenzione dell’imputata non da conto degli elementi che, resi disponibili dall’accertamento processuale, ha assunto varrebbero a dare prova del dolo di reato; ed anzi appare evidente che il tema non è stato all’attenzione della Corte di Appello, la quale parla esplicitamente di una “situazione allarmante” a partire dal … (pg. 12); senza peraltro chiarire quale posizione avesse assunto rispetto all’affermazione della ricorrente, di aver assunto le funzioni di primario solo dopo l’anno ….

Più sopra si è richiamata l’attenzione sulla data del (omissis) . È incontroverso che in tale data la M. presentò una denuncia avente ad oggetto gli atti sessuali commessi in danno di C.M. la notte del (omissis) dall’infermiere C.D. .

Ciò rende evidente che almeno da quel tempo la M. ebbe consapevolezza che alcuni dipendenti del reparto avevano commesso fatti di abuso sessuale, o quanto meno che si erano verificati fatti che imponevano la denuncia ai sensi dell’art. 361 cod. pen. In ogni caso, fatti che ella avrebbe, da allora in avanti, avuto l’obbligo di impedire, una volta acquisiti elementi di natura omologa a quella che era stata ritenuta in grado di far scattare l’obbligo di denuncia.

Tuttavia la Corte di Appello ha reclutato una pluralità di circostanze, non puntualmente collocate nel tempo, assunte cumulativamente e indistintamente rispetto ai fatti reati contestati; in tal modo rendendo impossibile valutare se si sia fatta corretta applicazione della criteriologia alla quale ha inteso richiamarsi.

Ma per quanto sopra esplicato, non è sufficiente verificare che il soggetto è stato consapevole di causare con il proprio comportamento una situazione di pericolo per beni di altrui appartenenza, senza distinguere di quali beni (nella rappresentazione dell’autore) si trattasse. Ponendo sul medesimo piano la previsione della minaccia e la previsione dell’abuso sessuale.

La sentenza impugnata merita quindi di essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro, che provvedere a nuovo esame, facendo applicazione dei principi di diritto posti da questa Corte al superiore paragrafo 5.

7. Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso. L’affermazione della responsabilità della M. per il delitto di falso in atto pubblico risulta invero argomentata solo apparentemente. La Corte di Appello, infatti, si è limitata a trascrivere in forma pedissequa la motivazione resa al riguardo dal Giudice dell’udienza preliminare, non palesando l’avvenuto, concreto, pur essenziale ma puntuale vaglio autonomo dei punti specifici devoluti dall’impugnazione ed il percorso argomentativo che l’ha accompagnata.

8. Le motivazioni dell’annullamento assorbono le censure concernenti il trattamento sanzionatorio formulate con il terzo motivo di ricorso.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro per l’ulteriore corso.

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