SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV
SENTENZA 31 gennaio 2014, n. 4968
Ritenuto in fatto
1. V.V. veniva tratto a giudizio avanti il Tribunale di Belluno, sez. dist. di Cadore, per rispondere del “delitto p. e p. dagli artt. 40, comma secondo, e 590, comma secondo, cod. pen., perché, nella sua qualità di legale rappresentante della società SOSVI Meccanica S.p.A. con sede in (omissis) , per colpa consistita nell’aver omesso di adottare tutti gli accorgimenti necessari per la sicurezza dei lavoratori impegnati nell’utilizzo delle attrezzature di sollevamento di carichi (fusti metallici), ed in particolare nell’aver omesso di assicurarsi che tali operazioni venissero correttamente progettate, nonché adeguatamente controllate ed eseguite (in violazione pertanto dell’art. 35 comma 4 ter del D.L vo 626/1994), poneva in essere la causa delle lesioni subite dal lavoratore D.M.G. il quale, mentre effettuava un’operazione di sollevamento di un fusto metallico del peso di 830 Kg. senza utilizzare gli appositi accessori (denominati rane), veniva colpito al volto da un murale (trave di legno) sospinto dal peso del fusto sganciatosi improvvisamente dai sostegni e riportava lesioni personali dalle quali derivava una malattia giudicata guarita in oltre quaranta giorni, con conseguente incapacità di attendere alle normali occupazioni protrattasi per uguale periodo di tempo”. Fatto avvenuto in (omissis) .
1.1. All’esito del dibattimento il detto Tribunale, con sentenza n. 102/2009 del 18/9/2009, riconosceva l’imputato colpevole del reato ascritto e lo condannava alla pena di mesi 3 di reclusione, sospesa ex art. 163 cod. pen., ed al risarcimento dei danni alla parte civile da liquidarsi in separata sede.
Per quel che ancora in questa sede interessa, il giudice di primo grado riconosceva V.V. , legale rappresentante della SOSVI Meccanica s.p.a., come soggetto investito della qualifica di datore di lavoro, escludendo che la delega in materia di prevenzione sugli infortuni e sull’igiene del lavoro conferita con delibera assembleare del 6/5/2005 ad altro componente del C.d.A. (Z.L. ) potesse considerarsi come vera e propria delega di funzioni idonea a trasferire gli obblighi di prevenzione e sorveglianza del datore di lavoro al delegato, ciò in quanto:
– difettava il requisito di specificità in ordine ai compiti attribuiti, non preventivamente e dettagliatamente indicati;
– non vi era prova della capacità tecnica del delegato;
– non vi era alcun riferimento al potere di spesa del delegato ed alla sua piena autonomia decisionale nonché alla disponibilità di mezzi adeguati in relazione alla natura e complessità dell’incarico, disponibilità che persisteva invece in capo al V. ;
– al datore di lavoro era in ogni caso addebitabile la mancata valutazione del rischio e la negligente redazione del documento di valutazione dei rischi, attività queste non delegatali.
1.2. Interposto gravame da parte dell’imputato – che sui detti aspetti della vicenda rilevava che, da un lato, all’epoca del fatto, i requisiti della delega non erano stati ancora codificati dal legislatore e taluna giurisprudenza non riteneva nemmeno necessaria una delega scritta e che, dall’altro, vi era prova che lo Z. disponesse di poteri di gestione di spesa per i compiti attribuitigli – la Corte d’appello di Venezia, con la sentenza in epigrafe indicata, confermava la decisione impugnata.
Per quel che riguarda i temi ancora controversi, la corte territoriale osservava in sintesi che:
– la qualità di datore di lavoro, dunque non solo di legale rappresentante della società, era spesa dallo stesso imputato in diversi atti e documenti della società;
– nel verbale dell’assemblea dei soci del 6/5/2005, nel quale si specificava il contenuto delle deleghe attribuite ai vari componenti del consiglio di amministrazione, nessuna menzione è fatta ai poteri di gestione e di spesa attribuiti allo Z. , la delega avendo ad oggetto un potere di generale direzione dello stabilimento che lo vede assumere semmai la qualità di preposto, essendo invece mantenuti al presidente V. indiscussi poteri di gestione dell’impresa comprensivi degli atti di straordinaria amministrazione e senza limiti di spesa;
– non risulta che lo Z. avesse accettato la delega;
– proprio la ridotta capacità tecnica dello Z. spiega perché egli non si avvide del rischio insito nella movimentazione dei gusci dallo stesso progettata nel 1995;
– il ruolo di responsabile del servizio di prevenzione e protezione attribuito allo Z. non implica la sua assunzione della qualità di delegato alla sicurezza, essendo a tal fine piuttosto necessaria la formale individuazione ed investitura con modalità rigorose (sez. 4, n. 37861 del 10/07/2009, Pucciarini, f Rv. 245276);
– la SOSVI Meccanica S.p.a. aveva un solo stabilimento, quello di (OMISSIS) , dove nel 2006 operavano 27 dipendenti, non 40, sicché anche le dimensioni dell’impresa non consentono di attribuire rilevanza al principio di affidamento al fine dell’esonero della responsabilità;
– se al responsabile del servizio di prevenzione e protezione erano demandati ex lege (artt. 8 e 9 d.lgs. 626/94) i compiti intesi ad individuare i fattori di rischio e ad elaborare le misure preventive e protettive e le procedure di sicurezza relative alle varie attività aziendali, nondimeno la valutazione dei rischi e l’aggiornamento del correlativo documento, obblighi questi connaturati alla posizione di garanzia di datore di lavoro e non delegabili, non facevano venir meno il dovere di vigilanza e di controllo del V. (principio ora codificato dall’art. 17 d.lgs. 81/2008 ma già recepito da consolidata giurisprudenza).
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato, sulla base di due motivi.
2.1. Con il primo deduce “erronea applicazione della legge penale (art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.), con particolare riguardo agli artt. 40, comma secondo, 43 e 590 cod. pen., in raccordo con l’art. 2381 cod. civ., nonché con l’art. 2 lett. b d.lgs. n. 626/1994 e con gli attuali artt. 2, lett. b, 16, 299 del d.lgs. n. 81/2008, nonché contraddittorietà ed intrinseca illogicità della motivazione (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.), in relazione alla attribuzione in capo ad esso ricorrente della qualifica di datore di lavoro ed al conseguente riconoscimento, a suo carico, della posizione di garanzia in relazione all’incidente occorso al dipendente Sig. D.M. ”.
Al riguardo, segnala in premessa una parziale diversità dei percorsi argomentativi seguiti dalle due pronunce di merito, pur convergenti nelle conclusioni, rilevando che, mentre il giudice di prime cure ha incentrato la propria valutazione sul piano della delega di funzioni, ritenendo che quella conferita allo Z. nell’ambito del verbale dell’assemblea ordinaria dei soci del 6/5/2005 non presentasse requisiti a tal fine idonei, nella sentenza della Corte d’appello, la motivazione si è incentrata invece sul terreno delle attribuzioni in seno al Consiglio d’Amministrazione: impostazione questa secondo il ricorrente più corretta essendo lo Z. un componente del consiglio di amministrazione, e non già un soggetto esterno alla società.
Assume al riguardo il ricorrente che, trattandosi di una ripartizione all’interno di un consiglio di amministrazione di società di capitali (soggetto collegialmente investito della qualifica di datore di lavoro) delle singole posizioni di responsabilità individuale, non venivano in rilievo i requisiti dettati dalla giurisprudenza per la validità della delega conferita dal datore di lavoro a soggetto terzo (quali la specificità dei compiti attribuiti, con la capacità tecnica del delegato) erroneamente invece valorizzati dal giudice di primo grado.
Ciò premesso, rileva che, nondimeno, anche le argomentazioni in tale prospettiva svolte dal giudice d’appello, sopra sintetizzate, non possono considerarsi determinanti, né sufficienti, per attribuire ad esso ricorrente la qualifica di ‘datore di lavoro’ e la conseguente ‘posizione di garanzia’.
Deduce infatti che tali motivazioni si limitano a valorizzare il solo dato formale della qualifica di datore di lavoro, senza attribuire alcuna considerazione alle specifiche indicazioni, sia legislative (artt. 2, lett. b, e 299 d.lgs. n. 81/2008), che giurisprudenziali (Sez. 4, n. 39268 del 07/10/2004; Sez. 4 n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini, Rv. 248849), che, al contrario, accordano prevalenza all’effettività della realtà aziendale rispetto alla situazione formale, e rendono doverosa un’indagine su quale soggetto dell’organigramma aziendale avesse, in virtù di effettivi poteri decisionali e di spesa, l’obbligo e la possibilità di impedire l’evento.
In tale direzione sottolinea che:
– con la delibera dell’assemblea dei soci del 6 maggio 2005 (la quale delegava il consigliere Z. a “sovraintendere all’attività dello stabilimento in (OMISSIS) ed accertare che i lavori siano predisposti e condotti nell’osservanza delle normative in materia di infortuni ed ambiente di lavoro e della sicurezza ed igiene”), l’assemblea dei soci attribuiva al predetto, quale componente del consiglio di amministrazione della società, la specifica funzione di responsabile dell’unità produttiva di (OMISSIS) ;
– lo Z. era consigliere d’amministrazione della SOSVI Meccanica S.p.a. e direttore dello stabilimento già dal lontano 1993 e la delibera citata non faceva altro che confermare la medesima attribuzione già conferita da tempo nelle precedenti assemblee;
– che lo Z. avesse appositi poteri di organizzazione dello stabilimento e il potere di spesa all’interno dell’azienda si desume da emergenze processuali pur menzionate nelle sentenze di merito (ossia dal fatto che: la stessa persona offesa riteneva che il vero padrone fosse il signor Z. ; il teste R.I. , rappresentante per la sicurezza dei lavoratori, aveva confermato di ricevere le direttive in materia dal signor Z. ; anche il teste D.R. lo aveva indicato responsabile della sicurezza; tutti i lavoratori, a precisa domanda, hanno dichiarato di non conoscere e di non avere mai avuto alcun rapporto con il V. ; il teste C. , addetto all’ufficio acquisti, e lo stesso Z. , avevano confermato che il delegato era dotato di poteri illimitati e non doveva essere previamente autorizzato dal V. per effettuare acquisti o prendere iniziative in materia di sicurezza sul lavoro; era stato lo stesso Z. a progettare personalmente la procedura di sollevamento dei gusci mediante le cosiddette ‘rane’).
Soggiunge infine che, alla luce del criterio sopra ricordato, il quale assegna prevalenza alla realtà sostanziale ed effettiva dell’organizzazione aziendale, erroneamente la Corte d’appello aveva attribuito rilevanza al dato, a suo dire meramente formale, della firma apposta dall’imputato sul piano di valutazione rischi (v. pag. 13 della sentenza d’appello).
2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce “erronea applicazione della legge penale e di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale (ex art. 606, comma 1, lett. b, c.p.p.), con particolare riguardo agli artt. 40 cpv., 43 e 590 c.p., in raccordo con l’art. 2381 c.c., nonché con l’art. 2 lett. b d.lgs. n. 626/1994 e con gli attuali artt. 2, lett. b, 16, 299 d.lgs. n. 81/2008, nonché contraddittorietà ed intrinseca illogicità della motivazione (ex art. 606, comma 1, lett. e, c.p.p.), con riferimento al riconoscimento della qualifica di preposto in capo al Sig. Z. ed alla attribuzione al Dott. V.V. di una responsabilità per omessa vigilanza dell’attività del preposto rispetto alle violazioni che si assumono essere state rilevanti in relazione all’incidente occorso al dipendente Sig. D.M. ”.
Rileva in proposito, in buona sostanza, che, pur a considerare lo Z. quale preposto a uno stabilimento, ciò nondimeno, alla luce delle ricordate emergenze processuali, ben poteva e doveva discenderne l’attribuzione allo stesso anche della veste sostanziale di datore di lavoro secondo i ricordati criteri e in conformità con il principio di diritto affermato da Cass. Pen. Sez. 3, n. 12370 del 9/3/2005, Bincoletto, Rv. 231076, secondo il quale “nelle persone giuridiche e segnatamente nelle società di capitali il datore di lavoro si identifica con i soggetti effettivamente titolari di poteri decisionali e di spesa all’interno dell’azienda e quindi con i vertici dell’azienda stessa, quali il presidente del consiglio d’amministrazione, l’amministratore delegato o un componente del consiglio d’amministrazione al quale siano state attribuite le relative funzioni o nel preposto ad un determinato stabilimento. Nell’eventualità di una ripartizione di funzioni e di compiti nell’ambito del consiglio d’amministrazione ai sensi dell’articolo 2381 c.c., dei fatti illeciti compiuti dall’amministratore delegato o dal preposto ad un determinato stabilimento, risponde solo quest’ultimo, salvo che gli altri amministratori abbiano dolosamente omesso di vigilare o, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli per la società o dell’inidoneità del delegato, non siano intervenuti”.
Soggiunge che erroneamente la Corte d’appello ha attribuito rilievo impeditivo all’applicazione di tale principio nella fattispecie alle dimensioni dell’azienda quali sopra esplicitate (un solo stabilimento e n. 27 dipendenti), rilevando al riguardo che:
– il d.lgs. n. 81 del 2008 esclude che le dimensioni aziendali costituiscano uno dei requisiti per la validità della delega di funzioni e tale requisito era già ridimensionato nella giurisprudenza antecedente il testo unico che precisava come, ai fini della legittimità della delega di funzioni, “non è necessario che trattasi di un’impresa di notevoli dimensioni, atteso che la necessità della delega non dipende esclusivamente dal dato quantitativo, ma può essere determinata dalle caratteristiche qualitative dell’organizzazione aziendale’ (Cass. sez. 3, n. 26122 del 15/07/2005);
– in ogni caso, le descritte dimensioni dell’azienda si collocavano ben oltre la media delle imprese italiane, anche a considerare che nello stabilimento in questione venivano svolte numerose lavorazioni caratterizzate da differenze procedurali che ne giustificano la qualificazione in termini di organizzazione complessa e non di modeste dimensioni.
Rileva infine che la sentenza impugnata incorre in contraddizione nella parte in cui ascrive al V. violazione de “l’obbligo di sorveglianza e controllo sull’esatto adempimento degli obblighi di sicurezza da parte del preposto”, questa postulando l’esistenza di una delega idonea a trasferire la posizione di garanzia, che si era invece prima negata.
Considerato in diritto
3. Il ricorso è infondato e va rigettato.
Questa Corte in plurime sentenze, ha già avuto modo di statuire che nelle imprese gestite da società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione (Sez. 4, n. 38991 del 4/11/2010, Quaglierini, non mass. sul punto; Sez. 4, n. 6280 del 11/12/2007 – dep. 08/02/2008, Mantelli, Rv. 238959; Sez. 4, n. 988 del 11/07/2002 – dep. 14/01/2003, Macola, Rv. 226699).
Infatti, anche di fronte alla presenza di una eventuale delega di gestione conferita ad uno o più amministratori, specifica e comprensiva dei poteri di deliberazione e spesa, tale situazione può ridurre la portata della posizione di garanzia attribuita agli ulteriori componenti del consiglio, ma non escluderla interamente, poiché non possono comunque essere trasferiti i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega.
In una fattispecie relativa ad impresa il cui processo produttivo prevedeva l’utilizzo dell’amianto e che aveva esposto costantemente i lavoratori al rischio di inalazione delle relative polveri, si è ritenuto che, pur a fronte dell’esistenza di amministratori muniti di delega per l’ordinaria amministrazione e dunque per l’adozione di misure di protezione concernenti i singoli lavoratori od aspetti particolari dell’attività produttiva, gravasse su tutti i componenti del consiglio di amministrazione il compito di vigilare sulla complessiva politica della sicurezza dell’azienda, il cui radicale mutamento – per l’onerosità e la portata degli interventi necessari – sarebbe stato indispensabile per assicurare l’igiene del lavoro e la prevenzione delle malattie professionali. Ciò è in perfetta sintonia con quanto previsto dall’art. 2392 c.c., in tema di s.p.a. e vigente all’epoca dei fatti. Tale disposizione, nel prevedere che gli amministratori nella gestione della società devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, stabilisce che anche se taluni compiti sono attribuiti ad uno o più amministratori, gli altri componenti “sono solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione…” (Sez. 4, n. 988 del 11/07/2002, Macola, cit.).
In sostanza, in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando invece sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei vertici aziendali e quindi di tutti i componenti del consiglio di amministrazione. Diversamente opinando, si violerebbe il principio del divieto di totale derogabilità della posizione di garanzia, il quale prevede che pur sempre a carico del delegante permangano obblighi di vigilanza ed intervento sostitutivo.
In definitiva, anche in presenza di una delega di funzioni ad uno o più amministratori (con specifiche attribuzioni in materia di igiene del lavoro), la posizione di garanzia degli altri componenti del consiglio non viene meno, pur in presenza di una struttura aziendale complessa ed organizzata, con riferimento a ciò che attiene alle scelte aziendali di livello più alto in ordine alla organizzazione delle lavorazioni che attingono direttamente la sfera di responsabilità del datore di lavoro (così in motivazione, Sez. 4, n. 38991 del 2010, Quaglierini, cit.).
4. Nel caso di specie, come si evince dalla contestazione e dalle emergenze della istruttoria dibattimentale esposte nelle sentenze di merito, la violazione delle disposizioni a tutela della sicurezza dei lavoratori afferiva un aspetto strutturale e permanente del processo produttivo interno allo stabilimento (l’unico peraltro) di (OMISSIS) , e in particolare un momento particolarmente delicato, quale quello del sollevamento dei gusci, mai sottoposto ad adeguata attenzione e anzi neppure considerato nel documento di valutazione dei rischi (v. sentenza d’appello, pagg. 6 e 10).
Particolarmente rimarchevole, in tal senso, il rilievo, contenuto a pagina 10 della sentenza impugnata, secondo cui anche la procedura progettata nel 1995 dallo Z. , che prevedeva l’uso delle c.d. rane per il sollevamento dei pesanti elementi metallici sottoposti al processo lavorativo, si rivelava comunque inadeguata a corrispondere ai requisiti di sicurezza prescritti dalla normativa allora vigente e in particolare dall’art. 35, comma 4 ter, d.lgs. 626/1994, a mente del quale: “gli accessori di sollevamento debbono essere scelti in funzione dei carichi da movimentare, dei punti di presa, del dispositivo di aggancio… nonché tenendo conto del modo e della configurazione della imbracatura” (lett. a) e, inoltre, tutte le operazioni di sollevamento debbono essere “correttamente progettate, oltre che adeguatamente controllate ed eseguite” (lett. d).
Ciò in quanto, si legge testualmente nella sentenza impugnata, e il punto non risulta oggetto di specifica censura, “permaneva, ed era certamente prevedibile, quantunque l’operazione fosse meno frequente di altre, un rischio di caduta del pesante manufatto soprattutto nella prima fase del sollevamento, che non poteva essere eseguita direttamente con il gancio giallo chiamato rana”, segnandosi peraltro le convergenti deposizioni dei lavoratori secondo le quali “durante i corsi, e ciò vale anche per il ricorso relativo alla movimentazione dei carichi… le problematiche del sollevamento dei gusci non erano state affrontate e… mancava una specifica e chiara codificazione della procedura”.
In tali termini chiaramente emergente, la violazione di che trattasi non può imputarsi ad un fattore contingente e occasionale, o comunque non prevedibile, ma si rivela talmente grave e ‘strutturale’, da investire indubitabilmente compiti e decisioni di alto livello aziendale non delegabili e proprie di tutto il consiglio di amministrazione ed, in ogni caso, obblighi di sorveglianza e denuncia gravanti su ciascuno dei suoi componenti.
Se ciò vale per i singoli componenti del consiglio, a maggior ragione la posizione di garanzia rimane radicata in capo al presidente del consiglio di amministrazione.
Non può dubitarsi pertanto della persistenza in capo all’odierno ricorrente, con riferimento al fatto dannoso di che trattasi, di una posizione di garanzia, idonea a renderlo responsabile delle conseguenze relative al mancato assolvimento dei compiti su di esso comunque ricadenti in materia antinfortunistica, quali quelli sopra indicati.
5. Il ricorso va pertanto rigettato con la conseguente condanna del ricorrente alle spese del procedimento e alla rifusione in favore della parte civile delle spese dalla stessa sostenute per il presente giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile per questo giudizio di cassazione e le liquida in Euro 2.500,00 oltre accessori come per legge.
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