Corte di Cassazione bis

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV

Sentenza 28 marzo 2014, n. 14616

 

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Roma ha condannato R.G. alla pena di sette mesi di reclusione per i reati p. e p. dagli art. 590 cod. pen. e 189, commi 1 e 6, cod. strada oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede.

Secondo la descrizione del fatto contenuta nel primo capo di imputazione, la predetta, mentre percorreva, alla guida di una Alfa Romeo 147, in (omissis) con direzione piazza Risorgimento, giunta alla intersezione con la via (omissis) , in violazione dell’art. 154 cod. strada e comunque per imprudenza, non avendo controllato dallo specchio retrovisore il sopraggiungere di veicoli, svoltava improvvisamente a sinistra tagliando la strada al motociclo Honda che sopraggiungeva nella stessa direzione condotto da Re.Ma. che, rovinato a terra, riportava lesioni personali guaribili in 10 giorni.

Con la seconda imputazione si contestava inoltre alla predetta di aver omesso, in occasione del sinistro sopra descritto, di prestare soccorso alla predetta parte lesa, dandosi alla fuga.

Fatti commessi il (omissis).

A fondamento della decisione impugnata, la corte territoriale rileva che la censura mossa dall’imputata, secondo cui la versione dei fatti resa dal Re. e dalla teste T.V. è contraddittoria e inattendibile, non può essere condivisa, non essendovi motivi per non ritenere attendibile il Re. , “stante l’assenza di elementi di prova di segno contrario e la presenza di tutta una serie di elementi di riscontro alle sue dichiarazioni”, e che al contrario ad essere inverosimile è la versione dell’incidente fornita dall’imputata, secondo cui era stato il R. ad andarle addosso apposta e ad allontanarsi dal luogo del sinistro.

Secondo la Corte d’appello, tale ultima ricostruzione dei fatti è smentita dal fatto che, come risulta dalla documentazione sanitaria del pronto soccorso, l’imputata ha riportato lesioni ed è rimasta sul posto fino al suo trasporto in ospedale ed inoltre dal fatto che la moto del Re. era rimasta in terra fino all’intervento della polizia giudiziaria. Il racconto del Re. inoltre è stato ritenuto attendibile anche per quanto concerne il reato di cui al capo B, risultando dalle sue dichiarazioni che l’imputata si è allontanata dal posto dell’incidente, senza preoccuparsi di accertare quali erano le sue condizioni fisiche e che lesioni aveva riportato.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’imputata, personalmente, sulla base di quattro motivi.

2.1. Con il primo deduce violazione di legge e vizio di motivazione.

Rileva che, diversamente da quanto ritenuto in sentenza, dall’istruttoria emergono elementi in contraddizione con quanto affermato dalla parte civile e dalla teste T.V. , quali in particolare: a) la mancanza di ammaccature nella carrozzeria della propria autovettura (in contrasto con l’affermazione del Re. di essere caduto sulla macchina); b) la mancata conferma da parte della teste T. del fatto che essa odierna ricorrente avrebbe profferito espressioni ingiuriose; c) l’affermazione della teste B.F. secondo cui il Re. si è alzato da terra senza l’aiuto di nessuno e si presentava lucido e vigile: in contrasto con l’affermazione della teste T. secondo cui il Re. è rimasto a terra.

Si duole, inoltre, che la Corte d’appello ha omesso di valorizzare la circostanza che la ricostruzione dei fatti da essa dedotta era stata già resa il giorno dopo il fatto negli uffici della sezione infortunistica della polizia di Frosinone.

Osserva ancora che dalle dichiarazioni rese dalla stessa persona offesa emergeva che questi era consapevole delle manovre che lei stava facendo e che ciononostante effettuava molto imprudentemente con il suo motociclo la manovra di sorpasso, vietata nella via che era in quel momento percorsa. Allo stesso modo anche la versione della teste T. , che ha dichiarato ai vigili il giorno del sinistro che “la moto era affiancata all’auto nella parte posteriore come se stesse effettuando il sorpasso” e che “è stata costretta a spostarsi verso sinistra”, denota che non c’è stata repentina inversione ad U ma anzi il motociclista ha avuto il tempo di spostarsi verso sinistra perché accortosi della manovra che la conducente dell’autovettura stava effettuando.

Rileva ancora che la circostanza che il Re. si sia allontanato dal luogo del sinistro è provata dal fatto che il referto medico in suo possesso risale ad appena 11 minuti dopo l’incidente ed è inoltre confermata dalla dichiarazione della teste B. , che ha affermato di non aver visto alcuna ambulanza ed inoltre che, subito dopo il sinistro, la moto del Re. venne spostata e quest’ultimo, lucido e vigile, si preoccupò di chiamare uno studio presso cui si stava recando a piedi (mostrandosi dunque, nota la ricorrente, tutt’altro che dolorante e accasciato al suolo in attesa di ambulanza).

2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di cui al capo B.

Osserva che l’affermazione della parte civile secondo cui lei sarebbe scappata dopo il sinistro è contraddetta dal fatto che il Re. ha avuto modo di guardarla in viso tanto da descriverne le fattezze e dalla affermazione dello stesso secondo cui la conducente dell’autovettura “si è fermata un attimo per inveire”.

Rileva inoltre che sia dalla propria ricostruzione dei fatti, sia da quanto dichiarato dalla teste B. , sia dal referto di pronto soccorso, poteva desumersi che al momento del sinistro il Re. non manifestava stato di sofferenza alcuna.

2.3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce ancora manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio, lamentando in particolare che la Corte d’appello ha omesso di valorizzare adeguatamente la “minorata capacità delinquenziale dell’imputata”, risultante dall’assenza di precedenti penali e giudiziari e dalle condizioni di vita individuali, familiari e sociali, nonché di considerare che essa ricorrente aveva sporto denuncia per calunnia nei confronti del Re. , circostanza sintomatica della ferma convinzione di non aver commesso i fatti.

2.4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia carenza di motivazione per non avere la corte territoriale concesso il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, applicabile anche d’ufficio.

3. Con nota depositata in data 24/02/2014 la ricorrente, per mezzo di nuovo difensore, ha lamentato di non aver ricevuto alcun avviso dell’udienza avanti questa S.C., essendo stato questo notificato all’Avv. Francesco De Cristofaro che assume aver nominato esclusivamente per il grado d’appello; si duole inoltre che, sebbene per tal motivo essa risultasse priva di difensore, non si è provveduto alla nomina di difensore di ufficio.

Considerato in diritto

4. Non sussiste la dedotta nullità della notifica dell’avviso di udienza. Risulta dagli atti del processo – che questa Corte può direttamente esaminare trattandosi di vizio in procedendo – che, con atto depositato in data 20/04/2012 nella Cancelleria del Tribunale di Roma, l’imputata ha nominato, in vista del proponendo appello, quale suo nuovo difensore di fiducia l’Avv. Francesco De Cristofaro del Foro di Roma. Diversamente da quanto dedotto dalla ricorrente con la surrichiamata nota, tale atto non contiene alcuna limitazione del mandato al solo giudizio di appello, dovendosi pertanto presumere la sua ultrattività anche per il presente giudizio di legittimità, in mancanza di successive revoche.

Una volta intervenuta, infatti, la nomina è sorretta dal principio dell’immanenza, per cui, in assenza di una espressa e contraria manifestazione di volontà o di una causa risolutiva del rapporto, esplica effetti per tutto il corso del giudizio, come in caso di ricorso per cassazione, proponibile dal medesimo difensore che abbia assistito la parte nel merito, senza che necessiti un ulteriore e specifico mandato (cfr. Sez. 3, n. 22050 del 19/05/2006, Chiras, Rv. 234698; Sez. 6, n. 8350 del 16/12/2010 – dep. 02/03/2011, Fusco, Rv. 249584; Sez. 1, n. 3259 del 02/05/2000, Selini, Rv. 216756).

Nessuna necessità vi era pertanto di nominare un difensore d’ufficio, risultando il predetto avvocato De Cristofaro, abilitato al patrocinio in cassazione, e inoltre la notifica dell’avviso d’udienza, effettuata nei confronti di detto difensore, deve ritenersi pienamente idonea a consentire alla ricorrente di averne tempestiva conoscenza, discendendone l’infondatezza dell’ulteriore doglianza relativa alla mancata notifica dell’avviso alla parte personalmente.

Ed invero, a mente dell’art. 610, comma 5, cod. proc. pen. nessun avviso dell’udienza di discussione del ricorso in cassazione compete all’imputato, essendo dovuto solo al suo difensore, abilitato al patrocinio in questa sede di legittimità. Soltanto nelle ipotesi in cui il ricorrente sia privo di difensore o quello di fiducia non sia abilitato all’anzidetto patrocinio è dovuto l’avviso alla parte personalmente nonché al difensore d’ufficio appositamente nominato (v. ex aliis Sez. 5, n. 29763 del 28/05/2010, Longo, Rv. 248263).

5. È infondato il primo motivo di ricorso.

Questa Corte, chiamata ad esaminare la denunciata contraddittorietà e la carenza motivazionale, non può invero fare a meno di rilevare l’infondatezza delle censure al riguardo proposte, non potendosi revocare in dubbio l’intrinseca coerenza logica e l’adeguatezza del percorso argomentativo della impugnata sentenza, tanto più in quanto suscettibile di essere integrato – per il nuovo principio della c.d. doppia conforme – dalle argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado, integralmente confermata.

5.1. Le presunte lacune o contraddizioni segnalate dalla ricorrente investono invero, con ogni evidenza, aspetti marginali ovvero non possono affatto ritenersi tali ovvero ancora si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle prove come tale certamente inammissibile nel giudizio di legittimità.

Ed infatti:

sub a) l’esistenza o meno di segni evidenti dai quali possa desumersi la proiezione ovvero la gravità della caduta del motociclista a seguito dell’impatto, non toglie che quest’ultimo vi sia stato, né che abbia cagionato delle lesioni al predetto, ciò risultando comunque pacifico in causa, e non essendo negato nemmeno dalla ricorrente;

sub b) non si ricava affatto dalla motivazione della sentenza impugnata che la teste T. abbia negato che l’imputata abbia profferito parola ingiuriose nei riguardi del motociclista, ma che ha semplicemente detto di averla vista dalla sua postazione abbassare il finestrino della propria autovettura e dire qualcosa al motociclista, precisando tuttavia di non aver percepito il contenuto delle frasi rivolte; il che se non conferma quanto sul punto dichiarato dalla persona offesa, nemmeno espressamente lo contraddice: fermo restando che anche in tal caso si tratta di aspetto con ogni evidenza del tutto marginale della vicenda;

sub c) il riferimento alle dichiarazioni della teste B. , tale almeno indicata in ricorso, è inammissibile, trattandosi di prova mai neppure menzionata né nella sentenza impugnata, né in quella di primo grado. Ammesso che tale essa fosse -ma ciò non è neppure affermato dalla ricorrente, che precisa trattarsi di dichiarazioni scritte allegate a una memoria depositata in giudizio dalla parte civile, non constando dunque nemmeno che si tratti effettivamente di prova testimoniale legittimamente acquisita al processo – l’utilizzo che la ricorrente ne fa a supporto della propria tesi sottintende evidentemente una doglianza di omessa valutazione di prova ovvero di travisamento di prova, che (fondata o meno che sia rispetto alle conclusioni che la parte ne intende trarre) nella specie deve ritenersi preclusa dal fatto che ci si trova in presenza di una c.d. doppia conforme e cioè di una doppia pronuncia di eguale segno (nel nostro caso, di condanna).

In tal caso infatti il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso – che nella specie non si verifica – in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.

Ed invero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del devolutum con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (v. ex multis Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, Buraschi, Rv. 243636; Sez. 2, n. 5223 del 24/01/2007, Medina, Rv. 236130).

Nel caso di specie, invece, il giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al tribunale e, dopo avere preso atto delle censure dell’appellante, è giunto alla medesima conclusione della assenza di responsabilità.

Può ad abundantiam comunque rilevarsi che, stando alle frasi trascritte in ricorso, nessuna patente contraddizione nemmeno è desumibile dalle dichiarazioni della B. , circa le condizioni del Re. subito dopo l’incidente, atteso che, da un lato, la teste T. non aveva detto al contrario che il Re. poté alzarsi da terra soltanto attraverso l’aiuto dei soccorritori, dall’altro, nemmeno la B. ha escluso che il motociclista dovette essere condotto in ospedale. Anche in tal caso peraltro trattasi di circostanza marginale nella ricostruzione del fatto e delle sue conseguenze, non potendosi comunque negare che conseguenze lesive vi siano state, risultando essa dal referto del pronto soccorso in sé non contestato nemmeno dalla ricorrente.

5.2. Quanto alle restanti osservazioni, è appena il caso di rilevare che non vi è alcun motivo logico per attribuire prevalenza alla ricostruzione del sinistro offerta dall’imputata, sol perché identica a quella da essa stessa resa il giorno dopo agli agenti della infortunistica stradale di Frosinone, senza considerare che si tratterebbe comunque al più di una ricostruzione appunto meramente alternativa a quella accolta dal giudice di merito, come tale certamente inidonea a dimostrare di per sé che quest’ultima sia incoerente con i risultati dell’istruttoria o manifestamente illogica.

5.3. È evidente, in definitiva, che – come già accennato – le critiche mosse dalla ricorrente si risolvono nella mera prospettazione di altra interpretazione delle emergenze processuali, come noto, in sé irrilevante ai fini del sindacato che compete in questa sede operare.

Giova al riguardo rammentare che in tema di sindacato del vizio di motivazione, compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici del merito, ma solo quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, dandone una corretta e logica interpretazione, con esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti; se abbiano, quindi, correttamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995 – dep. 29/01/1996, Clarke, Rv. 203428; Sez. U, n. 12 del 31/5/2000, Jakani, Rv. 216260). E poiché il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato, o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 comma 1, lett. e) cod. proc. pen., dall’art. 8 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 – da “altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame”, tanto comporta, quanto al vizio di manifesta illogicità, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si presterebbero ad una diversa lettura o interpretazione, ancorché, in tesi, munite di eguale crisma di logicità (cfr. Sez. U, n. 30 del 27/9/1995; Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; in termini sostanzialmente identici, ancorché con riferimento alla materia cautelare, Sez. U, n. 16 del 19/6/1996, Di Francesco, Rv. 205621; e non dissimilmente, Sez. U, n. 30 del 27/9/1995, Mannino, Rv. 202903; Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199391; e, con riguardo al giudizio, Sez. U, n. 930/96 del 13/12/1995, cit.; Sez. U, n. 12 del 31/5/2000, cit.).

Inoltre, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, proprio perché l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi – come s’è detto – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di una nuova valutazione delle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003; Petrella, Rv. 226074; Sez. 1, n. 5854 del 30/11/2000 – dep. 12/02/2001, Andretta, Rv. 218119; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, cit.).

Ebbene una siffatta evidente illogicità non è certamente predicabile rispetto alla decisione qui impugnata, tanto più se si tiene conto del quadro normativo nel quale la vicenda va iscritta, rispetto al quale l’opposta valutazione proposta dalla ricorrente si rivela fondata su argomenti palesemente inconducenti.

5.4. Posto invero che, a ben vedere, la tesi della ricorrente non è che l’incidente non vi sia stato, né che non abbia avuto le conseguenze lesive indicate in imputazione, ma ben diversamente che lo stesso sia da attribuire a condotta colposa del motociclista, per essersi lo stesso avventurato in una manovra di sorpasso vietata e imprudente, non può non rilevarsi che, quand’anche fosse possibile affermare che la manovra della persona offesa sia connotata dai caratteri predetti e quand’anche persino si possa ipotizzare che essa abbia avuto inizio in un momento in cui l’imputata aveva già intrapreso la svolta a sinistra e per questo non ha potuto avvedersi del suo sopraggiungere da tergo, ciò non varrebbe comunque ad escludere la rimproverabilità dell’evento anche a quest’ultima, per essersi posta nelle condizioni di non accorgersi per tempo della manovra, quand’anche estremamente a sua volta imprudente, del conducente del motoveicolo.

Giova in proposito rammentare che, secondo pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa S.C., nei reati colposi, perché una condotta concomitante a quella dell’imputato, consistente nel comportamento imprudente della vittima, possa escludere il rapporto di causalità, è necessario che essa sia del tutto slegata dalla condotta dell’imputato, trovandosi del tutto al di fuori dello sviluppo causale da questi innescato, tanto che l’evento che si verifica si presenti come assolutamente eccezionale e da attribuire esclusivamente alla azione della vittima: situazione questa nient’affatto predicabile rispetto alla manovra di sorpasso di che trattasi in quanto, quand’anche tacciabile di grave imprudenza, tuttavia pur sempre riconducibile al novero degli eventi prevedibili nell’ambito della circolazione stradale.

Secondo l’art. 140 cod. strada, invero, gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione stradale ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale e secondo l’art. 141 vi è obbligo di adeguare la velocità alle concrete condizioni della circolazione e obbligo di conservare sempre il controllo del veicolo. Tali disposizioni dimostrano che la misura della diligenza che si pretende nel campo della circolazione dei veicoli è massima, richiedendosi a ciascun utente, al fine di controbilanciare la intrinseca pericolosità della specifica attività considerata, peraltro assolutamente indispensabile alla vita sociale e sempre più in espansione, una condotta di guida di assoluta prudenza della quale fa parte anche l’obbligo di preoccuparsi della possibili irregolarità di comportamento di terze persone. Il principio dell’affidamento dunque, nello specifico campo della circolazione stradale, trova un opportuno temperamento nell’opposto principio, secondo cui l’utente della strada è responsabile anche del comportamento imprudente di altri utenti purché rientri nel limite della prevedibilità (v. ex multis Sez. 4, n. 27350 del 23/05/2013, Feliziani, non mass.; Sez. 4, n. 17481 del 14/02/2008, Notarnicola, non mass.; cfr. anche Sez. 4, 28168 del 21/03/2013, Mercurio, non mass.; Sez. 4, n. 12361 del 07/02/2008, Biondo, Rv. 239258; Sez. 4, n. 9420 del 21/06/1988, Rv. 179227).

6. Per analoghe considerazioni si appalesa infondato anche il secondo motivo di ricorso.

La circostanza che la persona offesa abbia avuto modo di guardare in faccia la conduttrice dell’autovettura – essendo peraltro pacifico che la stessa si è fermata, ha abbassato il finestrino e, senza scendere dall’autovettura, si è rivolta al motociclista per proferirgli delle frasi (ingiuriose a detta della persona offesa) per poi subito dopo imboccare la via posta alla sua sinistra – lascia emergere una condotta dall’imputata che comunque, con ogni evidenza, è ben lontana dal potersi considerare satisfattiva dell’obbligo comportamentale imposto dall’art. 189, comma 1, cod. strada di “fermarsi e di prestare l’assistenza occorrente a coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona”.

Che poi la persona offesa sia stata o meno in grado di allontanarsi dal luogo dell’incidente dopo poco tempo, con o senza l’aiuto di soccorritori, non toglie che comunque quell’obbligo nella specie era divenuto attuale per il solo fatto del sinistro stradale e dell’evidente coinvolgimento della persona fisica del motociclista in circostanze (quale in particolare quella, pacifica in causa, secondo cui lo stesso era “rovinato per terra”) certamente idonee a determinare l’apparenza e a far sorgere il timore di possibili lesioni.

Mette conto sottolineare al riguardo che, secondo il più recente ed ormai consolidato, nonché assolutamente condivisibile, indirizzo interpretativo di questa Corte, “in tema di circolazione stradale, l’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 189, comma 6, cod. strada (punito solo a titolo di dolo) ricorre quando l’utente della strada, al verificarsi di un incidente – idoneo a recar danno alle persone e riconducibile al proprio comportamento – ometta di fermarsi per prestare eventuale soccorso, non necessario per contro essendo che il soggetto agente abbia in concreto constatato il danno provocato alla vittima” (v. in termini ex plurimis Sez. 4, n. 5510 del 12/12/2012, Meta, rv. 254667; Sez. 4, n. 7615 del 10/11/2004 – dep. 01/03/2005, Verginella, Rv. 230816). Ai fini della configurabilità del reato di fuga, quanto all’elemento psicologico, pur essendo richiesto il dolo, “la consapevolezza che la persona coinvolta nell’incidente ha bisogno di soccorso può sussistere anche sotto il profilo del dolo eventuale, che si configura normalmente in relazione all’elemento volitivo, ma che può attenere anche all’elemento intellettivo, quando l’agente consapevolmente rifiuti di accertare la sussistenza degli elementi in presenza dei quali il suo comportamento costituisce reato, accettandone per ciò stesso l’esistenza” (v. in termini, Sez. 4, n. 34134 del 13/07/2007, Agostinone, Rv. 237239; conf., Sez. 4 n. 21445 del 10/04/2006, Marangoni, Rv. 234570; Sez. 4, n. 8103 del 10/01/2003, Fanello, Rv. 223966).

6.1. Giova ancora precisare che, per pacifica giurisprudenza, nel reato de quo, l’accertamento dell’elemento psicologico va compiuto in relazione al momento in cui l’agente pone in essere la condotta e, quindi, alle circostanze concretamente rappresentate e percepite a quel momento, che siano univocamente indicative di un incidente ricollegabile al proprio comportamento ed idoneo ad arrecare danno alle persone, dovendo riservare ad un successivo momento il definitivo accertamento delle effettive conseguenze del sinistro.

E giova evidenziare, altresì, che il dovere di fermarsi sul posto dell’incidente deve durare per tutto il tempo necessario all’espletamento delle prime indagini rivolte ai fini dell’identificazione del conducente stesso e del veicolo condotto, perché, ove si ritenesse che la durata della prescritta fermata possa essere anche talmente breve da non consentire né l’identificazione del conducente, né quella del veicolo, né lo svolgimento di un qualsiasi accertamento sulle modalità dell’incidente e sulle responsabilità nella causazione del medesimo, la norma stessa sarebbe priva di ratio e di una qualsiasi utilità pratica (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 20235 del 25/01/2006, Mischiarti, Rv. 234581).

Non può dubitarsi che nella specie, alla stregua dei dati pacifici in causa, tale obbligo non può considerarsi rispettato, non valendo nemmeno a giustificare la condotta dell’imputata l’addotta esigenza di spostare l’autovettura dal flusso della circolazione, tale esigenza dovendo soccombere rispetto a quella primaria di scendere dall’auto per accertarsi delle condizioni della persona coinvolta nell’incidente, sia pure per il tempo necessario eventualmente ad un compiuto accertamento e/o sincerarsi della esistenza di altri idonei soccorsi, ovvero essere soddisfatta in altri modi che non richiedano un allontanamento dal luogo del sinistro e, soprattutto, dalla vittima in ipotesi abbisognevole di soccorso.

7. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.

È al riguardo appena il caso di rammentare che, per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità sul tema, la giurisprudenza di questa Corte ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, n. 36382 del 04/07/2003, Dell’Anna, Rv. 227142) o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua” v. Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998, Urrata, Rv. 211583), precisando che “la determinazione della misura della pena tra il minimo e il massimo edittale rientra nell’ampio potere discrezionale del giudice di merito, il quale assolve il suo compito anche se abbia valutato globalmente gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen. Anzi, non è neppure necessaria una specifica motivazione tutte le volte in cui la scelta del giudice risulta contenuta in una fascia medio bassa rispetto alla pena edittale” (Sez. 4, n. 41702 del 20/09/2004, Nuciforo, Rv. 230278).
In relazione alle esposte coordinate di riferimento è da escludersi che, nel caso in esame, la quantificazione della pena sia frutto di arbitrio o di illogico ragionamento o che comunque si esponga a censura di vizio di motivazione, avendo il giudice a quo ampiamente e specificamente motivato sul punto facendo in particolare riferimento alla gravità del reato ed anche al comportamento successivo.

8. È infine inammissibile l’ultimo motivo di ricorso, relativo alla mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.

Per pacifico indirizzo, dal quale non v’è motivo di discostarsi, la mancata concessione della non menzione della condanna non è infatti deducibile con il ricorso per cassazione quando il beneficio non è stato richiesto nel corso del giudizio di merito (v. Sez. 4, n. 43125 del 29/10/2008, Marci Gavino, Rv. 241370), essendosi altresì precisato che il giudice di secondo grado, in assenza di richiesta dell’impugnante, non ha alcun dovere di motivare il mancato esercizio del potere discrezionale, conferitogli dall’art. 597 quinto comma cod. proc. pen., di applicare d’ufficio il beneficio, né tale mancato esercizio può costituire motivo di ricorso per cassazione (Sez. U, n. 10495 del 09/10/1996, Nastasi, Rv. 206175).

Nella specie non risulta che la richiesta del beneficio sia stata avanzata in primo grado, né proposta in grado d’appello.

9. Il ricorso va pertanto rigettato, con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione in favore della parte civile delle spese sostenute per la sua difesa nel presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore della parte civile, che liquida in Euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.

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