Le massime

1. La persona, non legata da rapporti di stretta parentela e non convivente con la vittima del reato di omicidio, è esclusa dal diritto al risarcimento dei danni patrimoniali; tuttavia, per il risarcimento dei danni morali, è necessario verificare, in diritto, se alla stessa, ancorché non congiunta e non convivente della vittima, spetti il diritto al risarcimento a tale titolo o, meglio, le sia riconosciuta la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale.

2. Non si può escludere che una persona fisica, in conseguenza della uccisione di una persona, cui era legata intimamente da un rapporto di “affectio familiaris”, per la definitiva perdita di tale rapporto, possa subire l’incisione di un interesse giuridico, diverso dal bene salute, quale è quello dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 cod. pen. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato. Va da sé che in tal caso, in riferimento alla mera ipotetica titolarità di tale diritto, va verificata la concreta lesione che comporta il risarcimento del danno, verifica che è demandata al giudice della liquidazione.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE IV PENALE

SENTENZA 25 maggio 2012, n.20231 

estensore Claudio D’Isa

Ritenuto in fatto

 

P.M. ricorre in cassazione avverso (a sentenza, in data 28.12.2010, della Corte d’Appello di Genova che, in parziale riforma della sentenza di condanna, emessa nei sui confronti dal GIP del Tribunale dello stesso capoluogo il 23.11.2009, in ordine al delitto di omicidio colposo con violazione delle norme sulla circolazione stradale, ha escluso il concorso di colpa della persona offesa ed ha confermato nel resto.

Il fatto come ritenuto dai giudici del merito è ben descritto nel capo di imputazione: il P. , percorrendo, il giorno 16.07.2007, alla guida della sua autovettura Mitsubishi Tg XXXXXXX, la Via (OMISSIS) in direzione mare, in una giornata caratterizzata da avverse condizioni atmosferiche con pioggia battente, giunto in prossimità di un attraversamento pedonale, a causa di una condotta di guida imprudente e distratta ed omettendo di adeguare la velocità alle specifiche condizioni climatiche e della circolazione, non si avvedeva della presenza del pedone B.S. , il quale stava effettuando l’attraversamento della carreggiata servendosi del citato attraversamento pedonale, di tal che investiva il pedone che veniva inizialmente caricato sul cofano e poi spinto in avanti sulla carreggiata; a seguito dell’urto il pedone riportava lesioni gravissime dalle quali derivava il decesso.

Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ammissione della parte civile A.E. da parte del giudice di primo grado e alla mancata estromissione di essa da parte della Corte d’Appello.

Si premette che l’A. , figlio non convivente della moglie del B. , richiedeva in primo grado di costituirsi parte civile, con opposizione della difesa dell’imputato. Il GIP ammetteva la costituzione dell’A. e la Corte distrettuale, su specifico gravame dell’imputato, rigettava la richiesta di estromissione.

La Corte motivava tale statuizione in tal senso: ‘ritiene la Corte di non aver ragioni per escludere la parte civile A.E. : se egli – figlio della moglie del defunto – non avrà sufficienti ragioni per accreditare nel giudizio civile un suo concreto diritto al risarcimento, dato il tenore della sentenza appellata, provvedere di conseguenza il giudice civile’.

Per il ricorrente è evidente la carenza di motivazione tenuto conto che il giudice penale, ai fini dell’ammissione della parte civile nel processo penale, deve valutare la sussistenza della legittimazione del richiedente ad ottenere il risarcimento del danno la cui sola quantificazione è rimessa al giudice civile. Nel caso di specie, non sussistendo alcun rapporto di parentela e di convivenza tra l’A. ed il defunto B. , mancava la legittimazione del richiedente ad esercitare l’azione civile, e tra l’altro, il GIP, pur non estromettendo dal processo l’A. , rilevava l’impossibilità di liquidare ad esso il danno: ‘dal momento che non risulta in alcun modo dimostrata l’attualità del danno, né elementi concreti per una sua quantificazione, atteso che non risulta allegato alcunché circa i rapporti con la vittima al momento della sua morte e la convivenza esauritasi da decenni’.

Con il secondo motivo si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione relativamente alla richiesta di estromissione della parte civile C.M. .

Si premette che la C.M. , moglie del defunto, era ritualmente costituita in primo grado, ma nel giudizio di appello, prima della discussione, il suo difensore rappresentava che la stessa era nelle more deceduta senza però rinnovare la costituzione a nome degli eredi con procura speciale ad hoc da parte loro.

La Corte d’Appello su specifica richiesta dell’imputato relativamente a tale irregolarità nulla ha risposto.

Con il terzo motivo si eccepisce travisamento della prova in ordine alla ritenuta responsabilità penale, in sostanza si contesta la valutazione delle dichiarazioni rese dai testi S. e M. .

Il primo proveniente da direzione opposta rispetto all’imputato ed il secondo conducente dell’autovettura che seguiva quella del P. .

Il M. ha affermato che il pedone aveva impegnato l’attraversamento pedonale nel momento in cui sopraggiungeva l’auto dell’imputato ‘all’ultimo momento’, quindi con un’azione repentina difficilmente prevedibile dal P. . Il M. afferma anche che il B. avesse l’ombrello aperto e che era rivolto verso l’auto dell’imputato in modo che gli era impossibile vedere il sopraggiungere dell’auto. La Corte d’Appello non ha tenuto conto di tali affermazioni giudicandole sostanzialmente inattendibili.

Con il quarto motivo si eccepisce la violazione della disposizione di cui all’art. 597 c.p.p. per avere la Corte distrettuale escluso il concorso di colpa della persona offesa in assenza di appello sul punto del P.M. o del P.G..

 

Ritenuto in diritto

 

1. La sentenza va annullata senza rinvio limitatamente alle statuizioni civili nei confronti delle parti civili C.M. , B.G. e B.M. , statuizioni che vanno eliminate per la intervenuta revoca di costituzione di parte civile da parte dei loro procuratore speciale, avv. Bruno Poce, fatta pervenire, il 30 marzo 2012, nella Cancelleria della Corte nelle more del giudizio di legittimità.

Per completezza di motivazione si evidenzia, quanto alla denunciata violazione di legge, oggetto del secondo motivo del ricorso, in ordine alla mancata estromissione della parte civile C.M. che essa è infondata, avendo questa Corte (V. Sez. 5, Sentenza n. 23676 del 19/05/2005 Rv. 231911; Sez. 5, Sentenza n. 15308 del 21/01/2009 Rv. 243603) affermato il principio secondo cui alla morte della persona costituitasi parte civile – evento disciplinato dall’art. 111 cod. proc. civ. in mancanza di specifica disciplina nel codice di rito penale – non conseguono gli effetti interruttivi del rapporto processuale, previsti dall’art. 300 cod. proc. civ. ma inapplicabili al processo penale, che è ispirato all’impulso di ufficio. La costituzione resta valida ‘ex tunc’ e gli eredi del defunto titolare del diritto possono pertanto intervenire nel processo senza effettuare una nuova costituzione, ma semplicemente spendendo e dimostrando la loro qualità di eredi.

2. Altresì infondato è il primo motivo del ricorso.

Si condivide nella sostanza la motivazione sul punto della sentenza impugnata, ancorché appaia opportuno fare delle precisazioni alla luce delle censure mosse dal ricorrente.

Ed, invero, la Corte d’Appello, quanto alla legitimatio ad causam della parte civile A.E. , correttamente ha fatto riferimento al risarcimento di un ‘danno morale’, derivante dal dolore subito, in ragione della ‘affectio familiaris’, per la morte del patrigno B.S. .

Il ricorrente ritiene la insussistenza di alcun diritto al risarcimento del danno in capo all’A. rilevando che non intercorreva alcun rapporto di parentela o di convivenza tra il medesimo ed il B. al momento della morte di costui. Orbene, l’azione civile può essere esercitata nel processo penale: – dal danneggiato dal reato (o dai suoi successori universali) per tale dovendosi intendere colui il quale abbia subito un danno (sia patrimoniale che non patrimoniale ex combinato disposto dell’art. 74 c.p.p. e art. 185 c.p.), come conseguenza diretta ed immediata del reato, indipendentemente dal fatto che ne sta la vittima: art. 74 c.p.p.;

– dalla parte offesa, ossia da colui che è stata la vittima del reato, e, in caso di decesso in conseguenza del reato, i suoi eredi ex art. 90 c.p.p.. Per quanto interessa in riferimento al procedimento odierno, in materia di titolarità del diritto alla costituzione di parte civile nel processo penale e di risarcibilità dei danni da quel diritto derivante, la giurisprudenza di questa Corte ha, altresì, costantemente affermato che, in caso di uccisione di un familiare (ovviamente non rileva se per dolo o per colpa), ai congiunti superstiti spetta il risarcimento del danno patrimoniale e di quello morale (pretium doloris), essendovi reato. Spetta ai predetti ‘iure successionis’ anche il risarcimento del danno biologico c.d. terminale che spettava al morto, purché però il decesso sia intervenuto al termine di un’agonia e non sia stato istantaneo o quasi, non essendo configurabile un danno da morte in sé. In tal guisa, è appunto rilevante, in caso di lesioni seguite da morte dopo breve tempo, la consapevolezza della parte offesa che “si sta per morire’, quale sofferenza psichica risarcibile nel contesto del pregiudizio morale da reato, perché nel frangente vale l’intensità del dolore e della paura, anche se di breve durata, (v. in tema da ultimo Sez. 4, Sentenza n. 32137 del 14/06/2011 Ud. Rv. 251346; Cass. Sez. 3 Civile 23/02/2005 n. 3766).

Inoltre, quanto alla risarcibilità del danno sia patrimoniale che morale, l’elaborazione giurisprudenziale l’ha estesa anche ai conviventi della vittima (V. Sez. 1, Sentenza n. 3790 del 04/02/1994 Ud. Rv. 199108; Sez. 4, Sentenza n. 33305 del 08/07/2002 Cc. Rv. 222366) in quanto, agli effetti della ‘legitimatio ad causam’, del soggetto, convivente di fatto della vittima dell’azione omicidiale di un terzo, viene in considerazione non già il rapporto interno tra i conviventi, bensì l’aggressione che tale rapporto ha subito ad opera del terzo. Conseguentemente, mentre è giuridicamente irrilevante che il rapporto interno non sia disciplinato dalla legge, l’aggressione ad opera del terzo legittima il convivente a costituirsi parte civile, essendo questi leso nel proprio diritto di libertà, nascente direttamente dalla costituzione, alla continuazione del rapporto, diritto assoluto e tutelabile ‘erga omnes’, senza, perciò, interferenze da parte dei terzi. Tuttavia, quanto al danno patrimoniale, non ogni convivenza, anche soltanto occasionale, può ritenersi sufficiente a fondare un’azione risarcitoria: consistendo il danno patrimoniale risarcibile nel venir meno degli incrementi patrimoniali, che il convivente di fatto era indotto ad attendersi dal protrarsi nel tempo del rapporto, esso in tanto può essere risarcito, in quanto la convivenza abbia avuto un carattere di stabilità tale da far ragionevolmente ritenere che, ove non fosse intervenuta l’altrui azione omicidiale, la convivenza sarebbe continuata nel tempo.

Sulla scorta di tale principio la persona, non legata da rapporti di stretta parentela e non convivente con la vittima del reato di omicidio, è esclusa dal diritto al risarcimento dei danni patrimoniali; tuttavia, per il caso di specie, non avendo l’A.E. fatto la richiesta del risarcimento di tali danni, bensì di quelli morali, è necessario verificare, in diritto, se al medesimo, ancorché non congiunto e non convivente della vittima, spetti il diritto al risarcimento a tale titolo o, meglio, gli era riconosciuta la possibilità di costituirsi parte civile nel procedimento penale de quo.

Innanzitutto, l’affermazione, secondo la quale il danno morale spetta alla sola vittima del reato e non ad altri, è destituita di ogni fondamento giuridico trovando una smentita letterale nel combinato disposto dell’art. 74 c.p.p. e art. 185 cod.pen., non facendo tale ultima norma riferimento alla sola persona offesa dal reato (nei termini prima precisati), ma al danneggiato in genere. Copiosa è la giurisprudenza, a partire dagli anni 70′ sia di merito che di legittimità, che riconosce il diritto al risarcimento dei danni morali e, quindi, la possibilità di costituzione come parte civile nel processo penale, in materia di reati ambientali, o di attentato alla salute pubblica, ad Enti ed Associazioni portatori di diritti c.d. adespoti, intesi questi come aventi ad oggetto interessi diffusi e collettivi, non riferibili ad una pluralità determinata di individui, ma al contrario comuni a tutti gli individui di una formazione sociale non organizzata e non individuabile autonomamente.

Ma al di là di questo fenomeno, non si può escludere che una persona fisica, in conseguenza della uccisione di una persona, cui era legata intimamente da un rapporto di ‘affectio familiaris’, per la definitiva perdita di tale rapporto, possa subire l’incisione di un interesse giuridico, diverso dal bene salute, quale è quello dall’interesse all’integrità morale (la cui tutela, ricollegabile all’art. 2 Cost., ove sia determinata una ingiusta sofferenza contingente, si esprime mediante il risarcimento del danno morale soggettivo), e ciò in quanto l’interesse fatto valere è quello alla intangibilità della sfera degli affetti. Trattasi di interesse protetto, di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione non apre la via ad un risarcimento ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., nel cui ambito rientrano i danni patrimoniali, ma ad una riparazione ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., senza il limite ivi previsto in correlazione all’art. 185 cod. pen. in ragione della natura del valore inciso, vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di mercato.

Va da sé che in tal caso, in riferimento alla mera ipotetica titolarità di tale diritto, va verificata la concreta lesione che comporta il risarcimento del danno, verifica che è demandata al giudice della liquidazione.

Conseguentemente, è destituita di fondamento la censura del ricorrente secondo cui, nel caso di specie, in sede di costituzione di parte civile l’A. non ha dimostrato né l’attualità del danno, né elementi concreti della sua quantificazione.

Sul punto questa Corte ha affermato che la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza – desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità – di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando impregiudicato l’accertamento riservato al giudice della liquidazione dell’esistenza e dell’entità del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudizio formatosi sull’an; Sez. 5, Sentenza n. 191 del 19/10/2000 Ud. Rv. 218077;Sez. 5, Sentenza n. 2435 dei 19/01/1993 Ud. Rv. 193807).

Per altro, anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta ‘in re ipsa’, ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici (V. Cass. Civ. sez. 3, Ordinanza n.8421 del 12/04/2011 (Rv. 617669).

3. Il terzo motivo del ricorso è inammissibile.

Invero, la tesi oggetto di tale motivo, sotto una veste meramente fattuale, già era stata sottoposta all’esame della Corte d’Appello, la quale, puntualmente, ha considerato la diversa ricostruzione del fatto, con riferimento al momento dell’impatto tra l’autovettura e la vittima ed alla dedotta impossibilità dell’imputato di prevenire la condotta del pedone e porre in essere le dovute manovre di emergenza, alla luce delle dichiarazioni ei testi S. e M. .

E, non c’è chi non veda come il motivo addotto dal ricorrente inerisce, anche se diversamente modulato, alla ricostruzione del sinistro sulla base di una diversa valutazione della prova.

È indubbio lo sforzo argomentativo profuso per far rientrare nella previsione normativa dell’art. 606 lett. e) c.p.p. quella che è una mera valutazione del fatto.

I giudici, all’esito della valutazione degli elementi acquisiti, hanno ritenuto di attribuire rilievo nel determinismo causale dell’evento alla velocità tenuta dall’imputato al momento dell’incidente.

Il giudizio espresso sul punto attiene al merito dei fatti e non è sindacabile in sede di legittimità perché frutto di un apprezzamento delle emergenze processuali, in ordine alla condotta di guida del ricorrente, ai profili di colpa in essa ravvisati ed alla loro incidenza sotto il profilo causale, del quale è stata data congrua e coerente giustificazione.

La Corte distrettuale ha ritenuto, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, che la velocità tenuta dal P. nella circostanza era eccessiva se rapportata alla situazione concreta; ad una situazione, cioè, caratterizzata dalla presenza delle strisce pedonali, dalle condizioni meteorologiche avverse (pioggia battente), dall’avvistamento del pedone in procinto di attraversamento (sul punto la Corte rileva che il Sa. , l’altro automobilista proveniente nel senso opposto di marcia, si era fermato diligentemente consentendo l’attraversamento del B. ). Si trattava, a tutta evidenza, di una situazione che esigeva una particolare prudenza, una condotta che potesse assicurare al conducente la possibilità di arrestare prontamente la marcia del veicolo. Ha, dunque, la Corte territoriale applicato principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità. Basti ricordare, anzi tutto, che il conducente è tenuto a vigilare al fine di avvistare il pedone.

L’avvistamento del pedone, poi, implica la percezione di una situazione di pericolo, in presenza della quale ogni conducente è tenuto a porre in essere una serie di accorgimenti (in particolare, moderare la velocità e, all’occorrenza, arrestare la marcia del veicolo) al fine di prevenire il rischio di un investimento. Quanto ai doveri di attenzione del conducente tesi ad avvistare il pedone, questa Corte ha già avuto modo di affermare che il conducente deve continuamente ispezionare la strada che sta per impegnare, mantenendo un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada stessa e del traffico e prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (cfr. Cass. 4A, 30 gennaio 1991, Del Frate, RV 187055). Detta affermazione va posta in correlazione con altre, non meno significative, come quella secondo cui ‘ad escludere il carattere repentino ed improvviso dell’attraversamento della carreggiata da parte di pedoni rileva la loro avvistabilità da parte del conducente del veicolo che li ha investiti’ (Cass. 4, 17 gennaio 1992, Arata) o quella secondo la quale ‘nel caso di investimento di un pedone, perché possa essere affermata la colpa esclusiva di costui per le lesioni subite o per la sua morte, è necessario che il conducente del veicolo investitore si sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido e inatteso; occorre, inoltre, che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza sia riscontrabile nel comportamento del conducente’ (Cass. 4, 9 novembre 1990, Pascali, RV 186076).

4. Parimenti infondato è il quarto motivo di ricorso, atteso che il ricorrente dimentica che contro la sentenza, proprio al fine di contestare il concorso di colpa del pedone, ritenuto dal Tribunale, era stato presentato l’appello dalle costituite parti civili.

 

P.Q.M.

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili nei confronti delle parti civili C.M. , B.G. e B.M. ; statuizioni che elimina. Rigetta il ricorso nel resto.

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