Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 22611 del 11 giugno 2012

 

Ritenuto in fatto
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – La ricorrente è stata giudicata responsabile della violazione dell’art. 4 L. 300/70 (c.d. statuto dei lavoratori) per avere, in qualità di legale rappresentante della soc. F. E., fatto installare un sistema di videosorveglianza composta da quattro telecamere due delle quali inquadranti direttamente postazioni di lavoro fisse occupate da dipendenti.
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’imputata, tramite difensore, ha proposto appello – convertito in ricorso dalla Corte d’appello – deducendo:
1) insussistenza della fattispecie criminosa contestata, sia nel suo elemento oggettivo che in quello soggettivo. In particolare, si fa notare che il teste A. (ispettore del lavoro), espressamente interrogato sul punto, ha escluso che, dagli accertamenti svolti, fosse emersa prova dell’esistenza di un sistema di videosorveglianza (funzionante o disattivato) che consentisse anche potenzialmente, di sorvegliare i dipendenti. L’unico dato certo è relativo all’esistenza delle due telecamere “puntate” su altrettante postazioni di lavoro.
Pertanto, pur essendo sufficiente la mera potenzialità di controllo, è altrettanto vero che deve esservi un impianto idoneo a creare il pericolo. In ogni caso, è stata accertata la esistenza di un apposito documento autorizzativo sottoscritto da tutti i dipendenti dal quale non si può prescindere

essendo esso espressione della volontà dei lavoratori e del loro assenso alla esistenza di quell’impianto. Sul piano soggettivo, vale lo stesso ragionamento e, cioè, che non si può ipotizzare che il datore di lavoro abbia dolosamente preordinato di controllare illecitamente i propri dipendenti se ad ognuno di essi aveva fatto firmare, prima della installazione, una liberatoria di consenso ed, in ogni caso, il luogo di lavoro (v. dep. A.) era tappezzato di cartelli che indicavano la presenza della videosorveglianza.
Tutto ciò è tanto vero che lo stesso P.M. di udienza aveva chiesto l’assoluzione della signora B., sia pure ex art. 530 comma. 2 c.p.p.;
2) erronea applicazione della pena. Si fa, infatti, notare che la pena pecuniaria per il reato contestato va da un minimo di 154 € ad un massimo di 1549 € e che il giudice ha, invece, preso le mosse da una pena base di 1800 € superiore a quella edittale e, comunque, con il riconoscimento delle attenuanti generiche,si è ingiustificatamente attestato su una pena di 1200 € che va verso il massimo. La ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto
3. Motivi della decisione – Il primo motivo di ricorso è fondato ed assorbente.
L’inquadramento del fatto in esame non può che avvenire prendendo come parametro di riferimento la fattispecie normativa. Sotto questo aspetto, deve ricordarsi, perciò, che l’art. 4 L. 300/70, nel secondo comma, precisa che impianti di controllo in ambito lavorativo possono essere installati soltanto «previo accordo con le rappresentanze sindacati aziendali, oppure, in mancanza di queste con la commissione interna». Ciò posto, non può essere ignorato il dato obiettivo – ed indiscusso – che, nel caso che occupa, era stato acquisito l’assenso di tutti i dipendenti attraverso la sottoscrizione da parte loro di un documento esplicito.
Orbene, se è vero che non si trattava né di autorizzazione della RSU né di quella di una “commissione interna”, logica vuole che il più contenga il meno sì che non può essere negata validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza. Del resto, non risultando esservi disposizioni di alcun tipo che disciplinino l’acquisizione del consenso, un diverso opinare, in un caso come quello in esame, avrebbe un taglio di un formalismo estremo tale da contrastare con la logica.
Ed infatti, l’interpretazione della norma deve sempre avvenire avendo presente la finalità che essa intende perseguire.

Se è vero – come è innegabile – che la disposizione di cui all’art. 4 intende tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che tale rischio viene escluso in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi (RSU o commissione interna), a fortiori, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando promani proprio da tutti i dipendenti.
Siffatto modo di pensare non è, del resto, neppure in contrasto con la enunciazione di questa S.C. (sez. n. 15.12.06, R., [Omissis]) – secondo cui integrano il reato di cui agli artt. 4 e 38 L. 300/70 anche gli impianti audiovisivi non occulti essendo sufficiente la semplice idoneità del controllo a distanza dei lavoratori – perché, infatti, anche in tale pronunzia, si è sottolineato che ciò vale sempre che avvenga «senza accordo con le rappresentanze sindacali».
Come a ribadire, cioè, che l’esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del bene protetto, esclude la integrazione dell’illecito.
A tale stregua, pertanto, l’evocazione – nella decisione impugnata – del principio giurisprudenziale appena citato risulta non pertinente e legittima il convincimento che il giudice di merito abbia dato della norma una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica limitandosi a constatare l’assenza del consenso delle RSU o di una commissione interna ed affermando, pertanto, l’equazione che ciò dava automaticamente luogo alla infrazione contestata. In tal modo, però, egli ha ignorato il dato obiettivo (peraltro di provenienza non sospetta, visto che sono stati gli stessi ispettori del lavoro a riportarlo) che l’odierna ricorrente aveva acquisito il consenso di tutti i dipendenti.
Così facendo, la decisione impugnata è censurabile per non avere interpretato correttamente la norma sotto il profilo oggettivo ed analoga censura può essere mossa anche sotto il profilo psichico una volta che si consideri che la piena consapevolezza dei lavoratori è risultata provata, non solo dal documento da loro sottoscritto, ma anche dal fatto che, come riferito dal teste A., «la B. aveva fatto comunque installare dei cartelli che segnalavano la presenza del sistema di video sorveglianza».
In ogni caso, però, l’assenza dell’elemento oggettivo è assorbente per una declaratoria di annullamento senza rinvio della decisione impugnata per insussistenza del fatto.

P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p.. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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