Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza n. 17896 del 18 ottobre 2012

In fatto e in diritto

1. Con sentenza del Giudice di Pace di Roma veniva rigettata la domanda risarcitoria di D.P. , in relazione al sinistro occorso in (omissis) in Via (omissis), tra l’Audi coupé di C.V. e l’attore, il quale, fermo in prossimità del marciapiede antistante l’Istituto scolastico (omissis), era stato urtato dall’Audi all’altezza della caviglia e del polpaccio posteriore sinistro.

Il P. proponeva appello deducendo che in corso di causa la N. T. gli aveva versato l’importo di Euro 5.880,00, accettato a titolo transattivo con l’impegno ad abbandonare il giudizio; che inopinatamente, il convenuto V. aveva continuato il giudizio, inducendo testimoni a proprio favore che avevano determinato una ricostruzione non veritiera dell’incidente e non provvedendo a notificargli l’ordinanza di ammissione dell’interrogatorio formale. Chiedeva, pertanto, dichiararsi “che la sentenza di primo grado non è titolo esecutivo”; in accoglimento dell’appello, dichiararsi la nullità del giudizio di primo grado, per omessa notifica del verbale ammissivo dell’interrogatorio formale “al contumace”, nonché la nullità della sentenza per insufficiente e contraddittoria motivazione; in via subordinata, dichiararsi il P. garantito dalla N. T. S.p.A. Si costituiva la CST T. quale mandataria e rappresentante della N. T. S.p.A. chiedendo al Tribunale di decidere secondo giustizia relativamente alle domande oggetto di causa, rigettando in ogni caso, per intervenuta definizione transattiva, ogni domanda proposta nei suoi confronti. Si costituiva l’Avv. V. in proprio impugnando e contestando tutto quanto ex adverso dedotto, e sostenendo la correttezza della decisione impugnata; conseguentemente, chiedeva il rigetto dell’appello con condanna dell’appellante alle spese ed onorari del doppio grado del giudizio.

2. Con la sentenza oggetto delle presenti impugnazioni, depositata il 15.2.2006, il Tribunale di Roma riteneva fondato l’appello del P. , perché l’avvenuta transazione della lite, documentata agli atti, tra lo stesso e la Compagnia N. T., determinava come dovuta la declaratoria di cessazione della materia del contendere in ordine alla pretesa del P. in relazione al sinistro in lite. Ciò precludeva l’approfondito esame delle molteplici, ulteriori questioni prospettate dalla parte appellante. Il Tribunale ordinava la cancellazione delle espressioni sconvenienti usate dalla Difesa V. e, rispettivamente, del P. ; riteneva evidente la sussistenza di giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del doppio grado.
3. Il V. ricorre per cassazione sulla base dei seguenti motivi:
3.1. violazione di norme di diritto con particolare riguardo all’art. 345 c.p.c. per avere il giudice di appello pronunciato la cessazione della materia del contendere sulla base di eccezione illegittimamente sollevata dalle controparti per la prima volta in sede di appello: né il P. (assente durante la causa da lui stesso iscritta a ruolo innanzi al Giudice di Pace di Roma e quindi regolarmente costituito in giudizio) né la N. T. S.p.A. (contumace in prima istanza) avevano tempestivamente sollevato tale eccezione non rilevabile d’ufficio, durante la causa di primo grado, soggiacendo così entrambi alla riferita decadenza. L’esistenza della “transazione della lite” (intervenuta solamente con la Compagnia Assicuratrice e non già anche con l’odierno ricorrente, il quale ne era venuto indirettamente a conoscenza solo nel luglio 2004, ben sei mesi dopo l’emissione della sentenza di primo grado) avrebbe dovuto essere dedotta innanzi al Giudice di primo grado, atteso che la transazione – come risultava dai documenti prodotti anch’essi tardivamente dalle controparti per la prima volta in sede di gravame – era stata formalizzata tra il P. e la Compagnia in data 19-20/05/2003 e, quindi, in epoca antecedente all’udienza di prima comparizione dinanzi al Giudice di prima istanza del 27/05/2003. La conseguente eccezione di “cessata materia del contendere” però ricade nell’ambito del divieto di cui al secondo comma dell’art. 345 c.p.c., poiché deve annoverarsi tra le eccezioni in senso stretto o proprio, rappresentate da quelle ragioni delle parti sulle quali il giudice non può esprimersi se ne manchi l’allegazione ad opera delle stesse, con richiesta di pronunciarsi al riguardo. Poiché detta eccezione non rientra certamente tra quelle rilevabili d’ufficio, il Giudice di secondo grado non avrebbe potuto neppure pronunciare la “cessata materia del contendere” sulla base di un’eccezione formulata per la prima volta (e tardivamente) in sede di appello. Né la circostanza che la Compagnia Assicuratrice fosse rimasta contumace nel giudizio di primo grado comportava che la stessa potesse eludere il divieto di cui all’art. 345 c.p.c., dato che la parte rimasta contumace non può godere, nel giudizio di appello, di diritti maggiori di quelli che spettano alla parte che sia stata presente nel primo giudizio, ma deve accettare il processo nello stato in cui si trova, con tutte le preclusioni e le decadenze già verificatesi a cagione della sua omessa costituzione nella pregressa fase processuale. Del resto, neppure il Giudice di primo grado avrebbe potuto conoscere dell’esistenza della transazione avvenuta tra le parti mai comparse in giudizio a dedurla e documentarla. Pertanto il Giudice di appello avrebbe illegittimamente posto ad unico fondamento della pronuncia impugnata un’eccezione che avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile, in quanto tardiva e proposta in violazione di quanto dispone il secondo comma dell’art. 345 c.p.c. e – per tale dichiarato unico motivo – ha precluso “l’approfondito esame delle molteplici ulteriori questioni”.

La deduzione dell’esistenza della transazione da parte dell’appellante, avvenuta per la prima volta in appello, avrebbe dovuto comportare la sua rinuncia all’appello; rinuncia che, secondo il diritto sostanziale, avrebbe dovuto altresì essere accettata da tutte le parti convenute, incluso il V. Diversamente da quanto avviene con riferimento alla rinuncia agli atti del giudizio – che richiede l’accettazione della controparte e che conduce alla estinzione del processo e, pertanto, ad una pronuncia di mero rito -, la declaratoria di cessazione della materia del contendere presuppone la rinuncia all’azione del soggetto che accampa la pretesa in giudizio e ciò sia nel caso in cui vi sia stata transazione tra le parti, sia che ciò avvenga perché l’attore (rectius: l’appellante P. ) riconosce non fondata la propria domanda e finanche laddove sia il convenuto stesso ad ammettere la fondatezza delle ragioni avverse, con la conseguenza che la verifica circa il venir meno delle ragioni di contrasto esista in una pronuncia sul merito della res controversa, suscettibile di passare in cosa giudicata. Il tutto perché il venir meno delle ragioni del contendere riverbererebbe i suoi effetti sull’interesse ad agire della parte, provocandone il sopravvenuto difetto, interesse ad agire che, costituendo una condizione dell’azione, va valutato, come è noto, al momento della adozione della pronuncia. L’autonomo interesse ad agire del V. (l’accertamento della propria responsabilità in ordine alla causazione del sinistro) mai è venuto meno in entrambi i gradi di merito e neppure ha mai formato oggetto di rinuncia (rectius: accettazione dell’eventuale rinuncia dell’appellante) e pertanto avrebbe doveva essere attentamente valutato al momento dell’adozione della pronuncia e che andava resa con dovere di specifica motivazione da parte del Giudicante in appello.

3.2. violazione e falsa applicazione di norme di diritto anche con riferimento agli artt. 11 e 12 l. n. 990/1969 nonché agli artt. 24 e 25 Cost., perché il Tribunale ha accolto l’eccezione tardiva sollevata dalla Compagnia Assicuratrice in ordine alla circostanza che “l’avvenuta transazione tra creditore principale e condebitore solidale, ha comportato la cessazione della materia del contendere circa l’obbligazione risarcitoria principale”, senza tenere in debito conto tutto quanto legittimamente dedotto e domandato in atti dall’odierno ricorrente. L’iniziativa di addivenire alla transazione all’insaputa del proprio assicurato, aveva costituito un comportamento autonomo della N. T. S.p.A. che non poteva essere certamente condiviso dall’assicurato, atteso che il Contratto Assicurativo vigente tra le parti neppure prevedeva alcun patto di “Gestione della Lite”, come invece asserito (e non provato) all’atto di costituzione in appello della Compagnia Assicuratrice (v. pag. 4 – 3Q capoverso del punto n. 1 in diritto).

Dunque, il ricorrente non aveva violato alcun patto di gestione della lite; ma piuttosto tutelato i propri diritti ed interessi, resistendo legittimamente in giudizio alla domanda spiegata dal P. nella causa di primo grado. Dalla corrispondenza indirizzata dall’assicurato alla Compagnia (ritualmente prodotta in primo grado) risultava piuttosto evidente che la N. T. aveva omesso di adoperare la diligenza professionale (e neanche quella del buon padre di famiglia) nell’accertamento del danno lamentato dal P. , mancando addirittura all’obbligo di informare il proprio assicurato che si era esplicitamente posto a disposizione per fornire ulteriori elementi utili a resistere alle pretese avversarie; pertanto, il ricorrente era stato esposto per colpa della mala gestio” della propria Compagnia Assicuratrice a subire rilevanti danni patrimoniali (l’illegittimo aumento del premio praticatogli per due annualità tuttora protrattosi per il decremento della classe di merito) a dispetto degli esiti vittoriosi ottenuti nella causa di primo grado, che aveva escluso ogni responsabilità in capo ali assicurato per il sinistro de qua. Come gli esiti istruttori del giudizio di primo grado attestavano (tre testi escussi sotto giuramento), il convenuto Sig. V. aveva dunque validi motivi e pieno diritto a resistere in giudizio – con autonoma domanda di accertamento negativo – alle domande risarcitorie spiegate nei suoi confronti nella causa di primo grado, e ciò a prescindere dall’esistenza o meno del c.d. Patto di Gestione della Lite.

Infatti, quand’anche il “patto” fosse esistito (e ciò non è mai stato provato in entrambi i giudizi di merito), esso non avrebbe potuto costituire legittimo impedimento per l’esponente a contestare in sede giudiziale le pretese risarcitorie avanzate dal P. , atteso che – anche avuto riferimento agli artt. 24 e 25 della Costituzione – nessun “patto” avrebbe potuto preventivamente escludere il diritto dell’assicurato a ricorrere alla A.G. per escludere l’iniquo addebito di responsabilità in ordine alla causazione del sinistro che la propria Compagnia avesse convenienza a transigere a dispetto della effettiva realtà dei fatti. Nessun “patto” di natura privatistica può preventivamente derogare alle norme di Legge che garantiscono ad ogni soggetto l’esercizio del diritto di difesa dinanzi al giudice naturale precostituito per legge. Nella fattispecie, l’accordo transattivo concordato tra il presunto danneggiato P. e la N. T. sarebbe stato concluso all’insaputa dell’assicurato, al quale la stessa Compagnia Assicuratrice aveva poi preteso di imputare tutti i conseguenti oneri patrimoniali stabiliti dagli artt. 11 e 12 L. 990/1969 (declassamelo in peius, applicazione clausola bonus-malus) senza che – per contro – ne ricorressero i presupposti oggettivi di Legge (la responsabilità esclusiva nella causazione del sinistro). La N. T. avrebbe malamente gestito il sinistro ed in esito a valutazioni di convenienza e/o opportunità che non appartengono alla sfera del diritto e ha autonomamente convenuto una transazione con il P. , anche nell’aspettativa di recuperare dall’assicurato una buona parte degli esborsi sostenuti, con l’aumento dei premi R.C. che il mutamento in malus della classe di merito avrebbe determinato. Contrariamente agli assunti difensivi della Compagnia, l’avvenuta transazione tra presunto danneggiato (il P. ) ed il condebitore solidale (la Compagnia) ha voluto estinguere una obbligazione risarcitoria mai validamente sorta, poiché nel sinistro di che trattasi non vi è stata alcuna condotta colposa in capo all’assicurato. In tal senso ed in assoluta mancanza di alcun Patto di Gestione della lite, la sentenza di primo grado non appariva affatto “inutiliter data” in quanto domandata e resa ad accertare giudizialmente – con l’escussione di ben 3 testi sotto giuramento – la mancanza di ogni responsabilità in capo all’assicurato e, conseguentemente, a tenere indenne l’assicurato V. dagli aumenti di polizza contemplati agli artt. 11 e 12 della nota L.990/69. Circa la sussistenza di un autonomo interesse ad ottenere una decisione della propria domanda di accertamento in capo al V. , l’aumento della c.d. “Classe di Merito” che la Compagnia ha comunque praticato all’assicurato, viene – di fatto – “perpetuato”, poiché la normativa in materia contempla l’attribuzione vita natural durante all’automobilista di tale classe di merito nella c.d. “attestazione dello stato di rischio” ogni Compagnia Assicuratrice rilascia e richiede, rispettivamente alla cessazione di ogni rapporto assicurativo ed alla nuova stipulazione di una nuova polizza RCA..

3.3. Omessa insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio, relativo alla contestata esistenza di un patto di gestione della lite, non avendo il Giudice di appello svolto alcun accertamento diretto ad appurarne l’esistenza né motivando il perché siano andate disattese le specifiche eccezioni e deduzioni sollevate circa l’assoluta mancanza di prova. Invece di limitarsi a prendere atto della “avvenuta transazione della lite, documentata agli atti “, il Giudice dell’appello sarebbe stato tenuto ad esporre l’iter logico che lo conduceva alla decisione impugnata o, quantomeno, a specificare le motivazioni per cui aveva ritenuto di accogliere le tardive eccezioni delle controparti; avrebbe dovuto, altresì, precisare se la propria decisione conseguiva alla convinzione che nella fattispecie esisteva il più volte menzionato patto (a dispetto della eccepita mancanza di prova), chiarire quali erano gli effetti prodotti dall’invocato accordo ed, infine, esporre in che misura gli effetti della transazione intervenuta solo tra due delle parti in giudizio, potevano inficiare l’attività difensiva che l’assicurato pretermesso aveva svolto in sede giudiziale, peraltro ignaro del fatto che la transazione medesima era stata conclusa.

3.4. Omessa motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio. La dedotta cessazione della materia del contendere – secondo il ricorrente – avrebbe potuto rilevare nel giudizio di primo grado, laddove il P. aveva svolto la propria domanda risarcitoria, non già nel giudizio di appello, laddove in via principale egli chiede specificamente “accertarsi e dichiarare” la nullità della sentenza di primo grado ai sensi dell’art. 292 c.p.c. ed ancora la declaratoria di sussistenza della responsabilità del V. in conferma dell1 “accertamento” del nesso causale che il Giudice di primo grado aveva escluso. Pertanto l’oggetto del giudizio verteva – per specifica domanda dell’appellante – sull’ “accertamento” della responsabilità dell’appellato che era stata esclusa dal Giudice di Pace di Roma ed il Giudice d’appello avrebbe dovuto pronunciarsi in via principale su tale petitum che ha notevole importanza per il V. ai fini della attribuzione della classe di merito che gli compete, a norma della richiamata Legge 990/69. Sempre in ordine alla determinazione dell’oggetto del giudizio, non si rinveniva nelle conclusioni dell’appellante alcuna domanda risarcitoria per contro presupposta dal Giudice d’appello a motivazione della resa declaratoria di cessazione della materia del contendere che si dichiara “come dovuta in ordine alla pretesa del P. in relazione al sinistro per cui è causa”. Siffatta “pretesa” (rectius: domanda) del P. non esisteva in alcuna parte delle conclusioni rese dall’appellante medesimo il quale anche in via subordinata svolgeva tutt’altra domanda (garanzia e manleva) nei confronti della N. T.; né, del resto, avrebbe potuto il P. chiedere di essere nuovamente risarcito dalla Compagnia che aveva transatto il sinistro. Appariva eclatante che il Giudice d’appello avesse inteso pronunciarsi sulla questione risarcitoria già risolta stragiudizialmente fra il (presunto) danneggiato e la Compagnia Assicuratrice, domanda questa che l’appellante non aveva affatto proposto. Per contro lo stesso Giudice avrebbe disatteso l’esame delle domande effettivamente proposte nella causa di seconda istanza (e particolarmente l’accertamento della responsabilità del V. in ordine alla causazione del sinistro), fino a negare ogni pronuncia in merito all’oggetto principale del giudizio, che avrebbe dovuto individuare con riferimento alle conclusioni rassegnate dalle parti anziché ritenendo precluso l’approfondito esame delle molteplici ulteriori questioni prospettate dalla parte appellante.
3.5. Contraddittoria messa motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio. Alla luce di quanto innanzi esposto, la sentenza del Giudice di appello si paleserebbe contraddittoria laddove nei “motivi della decisione” motiva che “l’avvenuta transazione della lite, documentata agli atti, tra l’attore e la Compagnia N. T., determina come dovuta la declaratoria di cessazione della materia del contendere in ordine alla pretesa del P. in relazione al sinistro per cui è causa” mentre nel dispositivo, “dichiara cessata la materia del contendere, compensando integralmente tra le parti le spese del doppio grado”. Il Tribunale dapprima dichiara che la cessazione della materia del contendere riguarda “la pretesa del P. “, salvo poi definire il giudizio estendendo anche all’odierno ricorrente gli effetti della transazione intervenuta solo tra Fattore/appellante e la Compagnia Assicuratrice (alla quale l’assicurato non aveva conferito alcuno specifico mandato ed, infatti, nessuna prova sarebbe stata offerta in tal senso). Dunque, l’eccezione “di intervenuta definizione transattiva”, sollevata dalla N. T. al fine di ottenere il rigetto delle domande spiegate dall’appellante, era stata inspiegabilmente estesa anche all’odierno ricorrente, che mai aveva svolto alcuna domanda nei diretti confronti della Compagnia Assicuratrice. La dedotta cessazione della materia del contendere rilevava solamente ai fini delle pretese risarcitorie avanzate dal P. (come del resto esplicitamente dichiarato nella sentenza d’appello) e non già ai fini della domanda di rigetto avanzata dall’odierno ricorrente, convenuto in primo grado ed appellato in sede di gravame. Non sarebbe dato comprendere come il Giudice d appello abbia potuto porre ad unico fondamento della propria decisione la declaratoria di cessazione della materia del contendere, dopo aver affermato che la stessa riguardava solo ‘la pretesa del P. in relazione al sinistro per cui è causa”; in questo modo, il Tribunale avrebbe contraddittoriamente ed illegittimamente esteso all’odierno ricorrente V. gli effetti di una transazione (eccepita dalla N. T. in sede di gravame al fine di controdedurre alla domanda dell’appellante P. ) intervenuta tra il P. e la Compagnia Assicuratrice, negando ogni pronuncia in merito alla sussistenza della responsabilità dell’assicurato che era stata assolutamente esclusa dalla sentenza di primo grado.

4. Resiste con controricorso il P. , chiedendo dichiararsi inammissibile o infondato il ricorso, e propone contestualmente ricorso incidentale per “omessa, insufficiente motivazione in merito alla compensazione delle spese di lite e violazione degli artt. 91 c.p.c. e 24 della Costituzione”, perché il giudice di appello, pur avendo accolto integralmente il suo appello, non aveva condannato alle spese di lite la controparte soccombente. Il P. aveva proposto appello perché si era visto notificare dal V. un atto di precetto su sentenza del Giudice di pace, con cui si vedeva accollare il pagamento dell’importo di Euro 2.152,08, relativo alle spese del primo grado del giudizio, nonostante l’accertamento del danno patito e l’intervenuta cessata materia del contendere tra Io stesso e la N. T. Spa, che aveva tutti i requisiti per transigere la vertenza; che, per difendersi, il P. aveva dovuto ricorrere in secondo grado ove è notorio che le spese di giustizia siano più alte rispetto a quelle del Giudice di Pace, cosicché il P. per avere giustizia e non essere costretto a pagare l’ingiustizia della prima sentenza, si era visto accollare interamente le maggiori spese del secondo grado del giudizio, pur risultando totalmente vittorioso. Il Tribunale avrebbe dovuto ampiamente motivare la decisione di compensare tra le parti le spese di lite, tenuto conto che il regime delle spese, anche con riguardo all’ipotesi della compensazione, a mente dell’art. 92 c.p.c., è governato dal principio di causalità e che il riconoscimento, in materia, di uno spazio di pura discrezionalità, cioè senza obbligo, per il giudice, di motivare la scelta compiuta, oltre a costituire una anomalia nel sistema, si risolverebbe in un sostanziale diniego di tutela giurisdizionale, intesa come soddisfacimento “effettivo” del diritto fatto valere in giudizio, in palese violazione dell’art. 24 della Costituzione.

5. Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi, essendo stati proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

6. Il primo motivo del ricorso principale – con cui il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 345 c.p.c., per avere il Tribunale deciso la causa sulla base dell’eccezione dell’intervenuta cessazione della materia del contendere, per avvenuta transazione – si rivela fondato.

Si tratta, infatti, di eccezione nuova, che avrebbe dovuto essere proposta in primo grado, in quanto la transazione, tra il danneggiato e l’assicurazione, era intervenuta durante il giudizio di primo grado (argomento desumibile, tra le altre, da Cass. n. 13488/2009, 18337/2007, secondo cui costituisce domanda nuova, improponibile in grado di appello ex art. 57 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – norma che ricalca l’art. 345 c.p.c. – la pretesa fondata sulla presentazione della domanda di condono, fatta valere per la prima volta in appello, nonostante tale fatto costitutivo del diritto si fosse verificato in pendenza del giudizio di primo grado, integrando detta ipotesi mutamento della causa petendi, nonché del petitum, in quanto il contribuente chiede la cessazione della materia del contendere, in luogo dell’iniziale richiesta di ottenere l’annullamento dell’atto impositivo impugnato). Infatti, non si può introdurre in appello una causa petendi né un petitum diversi, fondati su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado (pur essendo già intervenute nel corso di esso, come nella specie), sicché risulti inserito nel processo un nuovo tema di indagine.
6.1. Del resto, questa Corte, con la sentenza delle Sezioni Unite 3 febbraio 1998 n. 1099, ha affrontato il tema della distinzione tra eccezioni in senso stretto e non e della rispettiva loro rilevabilità e, dopo aver ricordato che le prime ricorrono quando la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte, ha ritenuto che il giudice deve tener conto dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito, senza che, peraltro, ciò comporti un superamento del divieto di utilizzare la sua scienza privata o delle preclusioni e decadenze previste, atteso che il generale potere-dovere di rilievo d’ufficio delle eccezioni, facente capo al giudice, si traduce solo nell’attribuzione di rilevanza, ai fini della decisione di merito, a determinati fatti, sempre che la richiesta della parte in tal senso non sia strutturalmente necessaria o espressamente prevista; ha quindi precisato che, in entrambi i casi, è necessario che i predetti fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultino legittimamente acquisiti al processo e provati alla stregua della specifica disciplina processuale in concreto applicabile. In altre parole, con estrema chiarezza, la Corte non solo ha distinto tra allegazione dei fatti e loro rilevazione, ma ha precisato che della prima non solo deve necessariamente farsi carico la parte, ma che questa deve provvedere alla loro acquisizione-allegazione nel rispetto dei tempi processuali previsti dalla legge, per cui, con singolare forza, ha ribadito che, per essere valutati dal giudice, quei fatti devono essere dedotti rite et recte, ossia nella prima difesa utile rispetto al momento della conoscenza – disponibilità dei fatti stessi ovvero dal loro emergere come processualmente rilevanti. Con detta decisione le sezioni unite hanno affermato che è onere delle parti allegare i fatti rilevanti per la decisione nel rispetto dei tempi fissati dalle norme rilevanti (in quell’occasione, gli artt. 414, 416 e 420 c.p.c.), venendo così precluso alle parti stesse la possibilità di allegare ad libitum e nel tempo ritenuto più congruo ciò che invece è necessario acquisire al processo perché esso possa svolgersi secondo i tempi previsti dalla legge (principi ribaditi, tra le altre, da Cass. Sez. III, n. 14581/2007; 7542/2012 e Sez. lav. n.12353/2010).
6.2. Deve pertanto ribadirsi che: “far valere nei confronti del creditore quale fatto estintivo l’esistenza di una conciliazione (o transazione, come nella specie) non integra un’eccezione in senso stretto, ma la relativa circostanza, per essere presa in esame dal giudice, deve essere dedotta nella prima difesa utile e, quindi, anche nel corso del giudizio, sempre che la conciliazione stessa sia avvenuta quando già detto giudizio pendeva, nel qual caso va allegata nella prima udienza successiva” (Cass. n. 3322/2008).
6.3. Applicando questo principio al caso in esame, mentre da un Iato deve escludersi che l’esistenza di una transazione integri un’eccezione in senso stretto, dall’altro va rilevato che il fatto-transazione non è stato tempestivamente allegato rispetto al momento in cui esso è venuto ad esistenza. In altre parole, l’odierna resistente non ha dimostrato che tale deduzione sia avvenuta nella prima difesa utile dopo che la transazione era stata posta in essere (vale a dire entro l’udienza di comparizione in primo grado). In mancanza di tale dimostrazione, il motivo della parte ricorrente principale deve essere accolto.
7. L’accoglimento del primo motivo comporta l’assorbimento di tutti i restanti motivi e dello stesso ricorso incidentale. Infatti, la cassazione della sentenza travolge anche la statuizione sulle spese dell’appello. La sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa rinviata per nuovo esame al medesimo Tribunale, in diversa composizione, che deciderà sulle spese, anche relativamente a quelle del presente giudizio.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, assorbiti tutti i restanti motivi dello stesso, nonché il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per spese, al Tribunale di Roma in diversa composizione.

 

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