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Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  8 aprile 2014, n. 8129

I fatti

A.P., nel convenire in giudizio dinanzi al tribunale di Torino l’omonimo comune, espose che, nel marzo del 2004, alla guida del proprio motociclo, nell’accingersi ad una svolta verso sinistra, passava sopra un tombino che presentava una superficie liscia, ragion per cui la moto, persa aderenza, piegava verso terra, causandone la caduta, con conseguenti danni alla sua persona e al mezzo meccanico.
Il giudice di primo grado ne respinse la domanda risarcitoria.
L’appello fu rigettato.
La sentenza della Corte territoriale torinese è stata impugnata da A.P. con ricorso per cassazione sorretto da un unico, complesso motivo di censura, suddiviso in due sub­motivi ed illustrato da memoria.
Resiste il comune di Torino con controricorso.

Le ragioni della decisione

Il ricorso è infondato.
Con il primo ed unico motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2051 c.c..
La censura è corredata dal seguente quesito di diritto:
Se, nel caso di caduta di un motociclista in un centro urbano, laddove sia stata accertata in sede di merito la presenza, in corrispondenza del luogo del sinistro e di una delle possibili traiettorie percorribili dal danneggiato con il suo motociclo, di un tombino potenzialmente idoneo, in quanto recante superficie liscia, a cagionare, in tutto o in parte, la perdita di aderenza del mezzo condotto dal danneggiato (il quale abbia allegato dettagliatamente di averne perso il controllo frenando su tale manufatto), la corte territoriale dia luogo ad una violazione o falsa applicazione dell’art. 2051 c.c. (nello specifico, della distribuzione degli oneri probatori ivi previsti e del principio, affermato dalla Cassazione, per cui, nell’eventualità della persistenza dell’incertezza sull’individuazione della concreta causa del danno, rimane a carico del custode il fatto ignoto), allorquando, nel rigettare le pretese risarcitorie ed assolvere integralmente la P.A., tale corte del merito adduca la mera ricorrenza di altre “possibili cause” concorrenti con quella riconducibile all’idoneità lesiva della res, ritenendo del tutto irrilevante la mancanza di prova di un’altra causa da parte del custode e senza neppure aver accertato (con adeguata motivazione) la valenza, interamente assorbente sul piano causale oppure rilevante quale concausa, di un fatto della vittima (quale, ad esempio, l’inesperienza oppure la velocità), solamente ipotizzato dal giudicante come “possibile”, peraltro senza il conforto di una consulenza tecnica disposta d’ufficio.
Il motivo è privo di pregio.
La sentenza della Corte territoriale (pur appesantita, talvolta, da affermazioni e considerazioni del tutto eccentriche, anche sul piano strettamente lessicale, rispetto al thema decidendum) deve essere infatti confermata.
Le doglianze rappresentate a questa Corte da parte ricorrente, benché suggestivamente esposte ed efficacemente argomentate, non colgono, difatti, nel segno, e si infrangono sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello nella parte in cui questi ha ritenuto, con insindacabile apprezzamento di fatto (essendo, come noto, la disamina delle questioni in tema di nesso di causalità una quaestio facci istituzionalmente devoluta al giudice del merito, a differenza della disamina dell’elemento soggettivo dell’illecito aquiliano, che invece, in guisa di giudizio cd. normativo, non si sottrae al puntuale esame del giudice di legittimità), che l’evento di danno lamentato dal P. dovesse, alternativamente, ritenersi conseguenza:
o di una condotta imprudente dell’agente, tale da assumere i caratteri dell’unica causa efficiente dell’evento, alla luce di tutte le circostanze di fatto, di luogo e di tempo, puntualmente esaminate e valutate al folio 7 della motivazione, con iter argomentivo che, scevro da vizi logico-giuridici, si sottrae perciò solo alle censure mosse da parte ricorrente; ovvero di un agente esterno non necessariamente riconducibile al tombino in esito alle sue caratteristiche, tombino che, pertanto, non assumeva né poteva assumere i connotati della causa probabile secondo il criterio civilistico della cd. probabilità relativa, nella specie, correttamente applicato.
Il motivo, sì come articolato, pur lamentando formalmente una decisiva violazione di legge, si risolve, in realtà, nella (non più ammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze ormai definitivamente accertati in sede di merito. Il ricorrente, difatti, pur prospettando a questa Corte, con dovizia di argomentazioni non scevre di pregio giuridico, un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c., si induce in realtà ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo così all’impugnata sentenza censure ormai non più ammissibili, perché la valutazione delle risultanze probatorie all’esito della relativa ricostruzione fattuale, al pari della scelta di quelle fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte, un elemento, un argomento di prova con esclusione di altri, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva. E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove, controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (eccezion fatta, beninteso, per i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile). Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, apparentemente, una deficiente motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perché in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito giudizio di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella risultanza procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente a porsi dinanzi al giudice di legittimità.
Il ricorso è pertanto rigettato.
La disciplina delle spese – che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate – segue come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

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