Suprema Corte di Cassazione
sezione III
sentenza 6 maggio 2014, n. 18698
Ritenuto in fatto
1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Con la sentenza impugnata, la Corte d’appello ha confermato il giudizio di responsabilità pronunciato a carico del ricorrente in relazione all’accusa di avere violato l’art. 2 d.lgs 74/00 limitatamente alla condotta consistita nell’avere, quale legale rappresentante della Universal Service (esercente attività di servizi di pulizia), indicato nella dichiarazione annuale dei redditi, per gli anni di imposta 2004/2006, elementi passivi fittizi, avvalendosi di schede-carburante per rifornimenti mai effettuati presso il distributore di V.V. .
2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, l’imputato ha, personalmente, proposto ricorso deducendo:
1) errata applicazione della legge in relazione agli art. 48 quater ord. giud. e 163 bis disp. att. cui seguirebbe la nullità della sentenza impugnata.
Si rammenta, infatti, che, già dinanzi al Tribunale monocratico di Taranto e, quindi, alla Corte d’appello, il ricorrente aveva evidenziato la violazione delle norme in materia di ripartizione degli affari tra le diverse sezioni distaccate di una medesima sede giudiziaria. Orbene, posto che, nella specie, la società del ricorrente aveva sede in (omissis) e che, verosimilmente, la condotta incriminata (redazione delle dichiarazioni dei redditi ed utilizzazione delle schede-carburante) è stata posta in essere nel luogo in cui ha sede la società, sarebbe stato logico desumere che giudice competente fosse il Tribunale di Taranto sez. dist. di Grottaglie, e non quello pronunciatosi di Manduria. A mente delle disposizioni prima richiamate, quest’ultimo giudice monocratico, al quale la questione era stata posta, avrebbe dovuto rimettere gli atti al presidente del Tribunale di Taranto per la decisione sul punto ma ciò non è stato fatto né la corte d’appello ha risposto adeguatamente e correttamente sulla relativa eccezione.
Al contrario, quest’ultima ha sostenuto la inoppugnabilità del provvedimento di assegnazione degli atti da parte del presidente del Tribunale quando, in realtà, esso non vi è mai stato e, di certo, nel caso, il provvedimento avrebbe potuto, e dovuto, essere impugnabile come si evince dalla decisione di questa terza sezione che il ricorrente cita (5.5.05, n. 22517).
2) violazione di legge nell’applicazione dell’art. 2 d.lgs 74/00 che è stato ritenuto sulla base di una errata lettura delle emergenze probatorie. A tal fine, il ricorrente riporta per esteso brani delle dichiarazioni di V.V. e degli altri testi, sia del maresciallo R.G. che quelle dello steso ricorrente/imputato, ed, infine, anche dei testi a difesa. All’esito, si osserva che l’imputato non avrebbe potuto essere condannato sulla base delle inattendibili dichiarazioni di V.V. , persona che ha mentito perché provava rancore nei confronti del ricorrente (che non aveva voluto assumere nella sua ditta né lui né la moglie del V. );
3) mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione nella parte in cui non tiene conto del fatto che lo stesso mar.llo R. ha dato atto della compatibilità dei costi di carburante documentati nelle schede esaminate con quelle risultanti dalle schede-carburante, visto che l’unico fornitore della Universal era il V. . Ciò è stato ribadito anche dal consulente tecnico di parte del ricorrente ma la Corte ha addirittura ignorato tali conclusioni che conducono, invece, all’affermazione che i costi dedotti dal L. era reali e non fittizi;
4) contraddittorietà della motivazione quando la decisione impugnata ha ignorato il dato emerso dalle deposizioni dei testi, e da quelle dell’imputato, secondo cui è possibile spiegare la discrasia contestata secondo cui, talvolta, risulterebbero rifornimenti in giorni in cui il mezzo era in riparazione. Al contrario, lo stesso L. aveva spiegato che, quando il distributore di V. funzionava solo con il self-service, i suoi autisti andavano ugualmente a rifornirsi e, successivamente (quindi anche in data diversa) gli portavano la ricevuta del distributore automatico avendo in cambio la scheda-benzina che, quindi, recava una data diversa rispetto a quella dell’effettivo rifornimento;
5) violazione di legge per non essere stata ricondotta la fattispecie concreta nell’alveo dell’art. 3 invece che dell’art. 2 dvo 74/00. I giudici non hanno tenuto conto di tale subordinata.
Sostiene il ricorrente che la condotta ascrittagli non costituirebbe il mezzo per commettere il delitto di cui all’art. 2), bensì, a tutto concedere, darebbe vita all’ipotesi residuale dell’art. 3. Ed infatti – escluso che si possa configurare la violazione dell’art. 8 (posto che il falso dell’imputato non era finalizzato a consentire la evasione di terzi) – non può che trattarsi di violazione dell’art. 3 che, però, non è punibile perché non è stata superata la soglia degli ammontari dalla cui evasione, sia agli effetti IVA che IRAP, discende la sanzione;
6) mancanza o insufficienza della motivazione circa il fatto che la Corte abbia ignorato che, dai verbali di conciliazione con l’Agenzia delle Entrate, emerge che, a fronte delle contestazioni della G.d.F., l’importo corrispondente agli elementi passivi è stato decisamente ridotto.
Infine, il ricorrente censura di superficialità la motivazione della Corte nella parte in cui affronta la doglianza svolta dinanzi ad essa in punto di congruità della pena.
Il ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.
Con atto depositato li 28.2.14. il ricorrente formula motivi aggiunti che – detto in estrema sintesi – nell’insistere e ribadire i temi sviluppati in ciascun motivo, evidenzia:
1) che dovrebbe essere pronunciata una declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, nell’ipotesi di rigetto nel merito;
2) che, ex art. 618 c.p.p., la questione relativa alla interpretazione degli artt. 48 ord. giud. e 163 bis disp. att. dovrebbe essere inviata alle sezioni unite circa la eventualità che possa formare o meno oggetto di gravame il vizio procedurale conseguente alla mancata osservanza delle disposizioni che attengono alla ripartizione degli affari nel medesimo ufficio con più sezioni;
3) mancanza o illogicità della motivazione nella interpretazione delle dichiarazioni del teste V. la cui audizione è stata disposta dai giudici ex art. 507 c.p.p. proprio perché, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, la tesi accusatoria era risultata demolita. Il ricorrente, dopo un’accurata disamina delle dichiarazioni dei testi, insiste, sulla tesi della infondatezza delle dichiarazioni di V. ;
4) violazione di legge e vizio di motivazione perché neppure la corte d’appello ha tenuto conto di una serie di dati numerici – dettagliatamente illustrati – dai quali si evince che, i c.d. rifornimenti “ingiustificati” (perché effettuati tra sabato e domenica), hanno avuto una incidenza minima ai fini dell’imponibile;
5) violazione di legge e vizio di motivazione nella parte della sentenza che affronta il tema della linea differenziale tra la fattispecie dell’art. 2 e quella dell’art. 3 d.lgs 74/00. Secondo il ricorrente, si tratta di tesi non condivisibile che contrasta con altra – costituzionalmente orientata – secondo cui l’ipotesi di dichiarazioni dei redditi mediante fatture, regolarmente emesse ma poi alterate dallo stesso utilizzatore, rientra nella previsione dell’art. 3 (si ricorda, infatti, che lo stesso V. ha disconosciuto solo le sigle apposte sulle schede non anche il timbro) e che, a tutto concedere, la condotta ascrivibile all’imputato di emissione di documenti per operazioni inesistenti sarebbe assimilabile a quella disciplinata dall’art. 8 con la differenza, però, che mancherebbe l’elemento soggettivo del dolo specifico;
6) violazione di legge e vizio di motivazione nella parte in cui la Corte ha ritenuto la congruità della pena ignorando la documentazione depositata dalla difesa concernente la conciliazione con l’Agenzia delle Entrate.
Con atto depositato M 13.3.14. la difesa del ricorrente ha illustrato in una memoria le ragioni per le quali vi sarebbe violazione dell’art. 163 disposizioni di attuazione al c.p.p. e dell’art. 48 dell’ordinamento giudiziario nonché violazione degli artt. 2 e 3 d.lgs 74/00 e mancanza di motivazione per mancata considerazione dei verbali di conciliazione.
Considerato in diritto
3. Motivi della decisione – Il ricorso è infondato e – se si eccettua la necessità di dichiarare la sopraggiunta estinzione per prescrizione di parte delle condotte – esso deve essere respinto per le ragioni di seguito precisate.
Prima di entrare nel dettaglio delle numerose argomentazioni difensive, a fini semplificatori, sembra opportuno evidenziare, in primo luogo, come la molteplicità dei motivi svolti dal ricorrente (nei vari atti) siano essenzialmente i medesimi (ripetuti in modi diversi) di quelli svolti nel ricorso principale.
Aggiungasi che, dei sei motivi, proposti, quelli sub 2), 3) e 4) sono ai limiti dell’inammissibilità perché chiaramente in fatto.
3.1. (quanto al secondo, terzo e quarto motivo) – Nell’ottica di “sfrondamento” appena anticipata, pertanto, essi possono essere affrontati preliminarmente in modo congiunto per evidenziare come sia possibile cogliere in essi solo un palese sforzo del ricorrente di indurre questa Corte ad una “rilettura” delle deposizioni dei testi, delle stesse dichiarazioni dell’imputato, e delle altre risultanze investigative. Ciò viene fatto dal ricorrente allo scopo di dimostrare che il teste V. ha mentito per rancore nei confronti dell’imputato e che, quindi, le accuse rivolte al L. sono destituite di fondamento.
Le conclusioni raggiunte dai giudici di merito nella interpretazione data alle prove acquisite viene censurata dal ricorrente sotto i profili della violazione di legge (secondo motivo) e del vizio della motivazione (terzo e quarto motivo) ma, a ben vedere, nessuna di tali critiche risulta fondata.
Nell’ampio secondo motivo di gravame, dopo avere riprodotto il testo delle deposizioni e delle dichiarazioni acquisite nel corso del processo, il ricorrente sostiene, in buona sintesi, che vi è stata una errata lettura delle emergenze probatorie.
L’assunto è tanto errato quanto impropriamente qui sollevato.
Come noto, sin da epoca risalente, le Sezioni Unite (s.u. 1997, Dessimone n. 6402, rv 207944) hanno puntualizzato che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto in quanto il sindacato demandato alla Corte di cassazione deve essere limitato – per espressa volontà del legislatore – a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità, per questa S.C., di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il proprio convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.
Questa premessa di fondo – ribadita nel tempo dalle pronunzie di legittimità – deve fungere da riferimento nell’esame dei motivi in discussione e consente di escluderne la fondatezza anche perché l’adozione di una conclusione differente da quella alternativa suggerita dal ricorrente (ancorché teoricamente possibile) non darebbe mai luogo ad una errata applicazione delle norma. Ed infatti, un vizio motivazionale non determina mai l’ipotesi di cui all’art. 606 lett. b) c.p.p., se non quando il difetto della motivazione consista nel fatto di non esistere graficamente o di essere apparente mentre l’eventuale illogicità manifesta della motivazione può denunciarsi, nel giudizio di legittimità, soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lett. e) dell’art. 606 stesso codice (s.u, 28.1.04, Bevilacqua, rv. 226710).
Ciò, come detto, è quanto fatto dal ricorrente nel terzo e quarto motivo ove, per l’appunto, si segnala contraddittorietà ed illogicità della motivazione ma, nuovamente – da parte del ricorrente – la evocazione di queste figure giuridiche avviene in modo inappropriato. Ed infatti, è pacifico (sez. 1, 12.5.99, commisso, rv. 215132) che, per poter definire la motivazione illogica, essa deve contenere una “frattura logica evidente tra una premessa – o più premesse nel caso di sillogismo – e le conseguenze che se ne traggono”.
Di certo, però, non ricorre alcun vizio “logico” quando, invece, si è solo in presenza di una interpretazione dei dati fattuali meramente “alternativa” ad altre possibili.
Analogamente – e fermo restando che di sicuro, nella specie, di fronte ad una sentenza tanto ampia, articolata e puntuale, è un fuor d’opera parlare di “mancanza” di motivazione (se non nel senso improprio, adottato dal ricorrente, che, nel fare tale affermazione, si riferisce alla motivazione auspicata e non assunta) – non si ravvisa nella decisione impugnata neppure alcuna contraddittorietà, specie se si ha presente che essa si sostanzia nell’incompatibilità tra l’informazione posta alla base del provvedimento impugnato e quella, sul medesimo punto, esistente negli atti processuali (sez. III, 21.11.08, campanella, 243247).
È, appunto, alla luce dei predetti principi che l’esame dei motivi che si vanno commentando convince di essere in presenza di un mero tentativo di indurre questa Corte ad una rivisitazione di tutti gli atti processuali, non, perché nelle argomentazioni svolte dai giudici di merito siano ravvisabili cesure logiche o macroscopiche discrasie tra ciò che essi hanno asserito e le risultanze, ma, perché nell’ottica del ricorrente, quegli atti si prestando ad una differente interpretazione e ad opposte conclusioni.
Tale assunto – già sostenibile agevolmente per la semplice “assertività” del secondo e terzo motivo – è ancora più evidente nell’esposizione del quarto motivo ove il ricorrente oltre ad elaborare platealmente una nuova ricostruzione dei fatti che conduca a conclusioni più consone alle sue aspettative, incorre addirittura in una contraddizione fattuale. Egli sostiene, infatti, che anche la discrasia rappresentata dalla diversità di date tra le ricevute ed i giorni di rifornimento nei quali la pompa di benzina del sig. V. era chiusa può essere spiegata dal fatto che (come egli ricorda), lo stesso imputato, nel proprio interrogatorio, aveva spiegato che, quando il distributore di V. funzionava solo con il self-service, i suoi autisti andavano ugualmente a rifornirsi e, successivamente (quindi anche in data diversa) gli portavano la ricevuta del distributore automatico avendo in cambio la scheda-benzina che, quindi, recava una data diversa rispetto a quella dell’effettivo rifornimento.
Orbene, a prescindere dal rilievo che, come è evidente, la prova di quanto asserito è nelle parole dello steso imputato cui, quindi, si dovrebbe credere per il solo fatto che sia lui ad asserirlo, è, comunque, un fatto che, proprio dal testo delle dichiarazioni del teste V. (riportate a f. 20 del ricorso) si evince, invece, che V. ha sostenuto il contrario e che la emissione della scheda recava ugualmente la data della ricevuta dell’automatico.
Si ripropone, quindi, quel contrasto di versioni tra la difesa del ricorrente e le affermazioni del teste V. che i giudici di merito, avuto riguardo anche a tutte le altre emergenze (acquisizioni documentali, dichiarazioni degli operanti e di altri testi) hanno risolto annettendo credibilità al V. ed affermando la responsabilità dell’odierno ricorrente.
Dal momento che ciò è stato fatto in modo argomentato e scevro da manifesti vizi logici, la decisione deve essere considerata qui inoppugnabile.
In particolare, i giudici di merito hanno dato risalto ai riscontri incrociati eseguiti dalla G.d.F. a seguito dell’esame delle schede carburante relative al rifornimento eseguito presso il distributore di V.V. , delle schede dei mezzi in riparazione ed alle deposizioni del maresciallo R.G. ed a quelle del titolare del distributore V.V. .
Ne è emerso che “gran parte dei prelievi indicati nelle schede era avvenuta durante i giorni di chiusura dell’impianto di distribuzione” e che “in alcuni giorni indicati sulle schede per il rifornimento di specifici automezzi, tali automezzi, ivi menzionati, si trovavano in realtà in riparazione presso officine e pertanto non potevano avere effettuato rifornimenti”.
Del tutto coerente, quindi, risulta la decisione assunta a fronte di “dati oggettivi” che, come detto, anche nel presente ricorso – con profluvio di parole ma, sostanzialmente solo auspicando una rilettura degli atti – il ricorrente ha cercato vanamente di smentire attraverso il teorema della “vendetta del V. ” senza che, però, tale tesi si sia rivelata idonea a smentire la (appunto) “obiettività” delle falsificazione accertate.
Tra l’altro, non è a dire neppure che i giudici non abbiano adeguatamente considerato la tesi difensiva ma l’hanno disattesa, sia, sul rilievo che essa è meramente asserita (la prova dovrebbe rinvenirsi nel fatto stesso della “menzogna” attribuita al V. che, però, come detto, è tanto poco dimostrata da esservi, per contro, oggettive conferme documentali), sia, riflettendo sulla attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del teste V. (definita, dai giudici, costante e coerente nel corso delle indagini ed in dibattimento).
I giudici di merito sottolineano, inoltre, come neppure i testi di parte abbiano dato un contributo significativo a sostenere la tesi difensiva visto che la loro affermazione secondo cui, negli anni oggetto degli accertamenti fiscali, i dipendenti del ricorrente si recavano a fare rifornimento presso il distributore del V. è circostanza non decisiva che, anzi, si presta anche ad una lettura diversa. Ciò, considerando che, in fondo, essa “è compatibile con l’esito degli accertamenti della GdF dal momento che (secondo quanto dichiarato dal m.llo R. ) effettivamente per importi di circa 6.000,00 Euro le operazioni annuali di prelievo del carburante sono risultate veritiere, mentre per il resto le operazioni attestate dalle schede rinvenute presso la Universal Service s.n.c., e utilizzate per le dichiarazioni dei redditi per gli anni 2004-2005-2006 sono risultate fittizie”.
Va, poi, giustamente chiosato – come fatto dalla corte d’appello – che a supporto della impostazione accusatoria opera anche la circostanza che “tutti i pagamenti per i prelievi di carburante – anche per importi notevoli – risulterebbero avvenuti in contante”.
In buona sintesi, é fin troppo evidente, anche dalle poche citazioni fin qui fatte, che il ragionamento dei giudici di merito è validamente sostenuto da obiettive emergenze processuali e da considerazioni sulle quali non vi è nulla da ridire quanto a logica e coerenza.
3.2. (quanto al primo motivo) – Come anticipato, deve essere disatteso anche il primo motivo con il quale il ricorrente cerca di inficiare la validità della decisione assunta sul rilievo della “incompetenza” del primo giudice in quanto trattavasi di sezione distaccata diversa da quella che avrebbe dovuto essere individuata con riferimento al luogo in cui ha sede la società.
Sebbene sia indubitabile che la sentenza di primo grado è stata pronunciata dal giudice della sezione di Manduria, e non quello di Grottaglie, deve ricordarsi che l’anomalia non da luogo ad una ipotesi di incompetenza in senso proprio. Come giustamente viene ricordato anche dalla Corte d’appello, replicando sulla medesima questione, il vizio sulla competenza presuppone la diversità degli uffici o la errata costituzione del giudice.
La prima ipotesi, nella specie, non ricorre visto che l’ufficio giudiziario è uno solo (il medesimo) e va individuato nel Tribunale di Taranto (ove – solo per ovviare ad intuibili esigenze logistiche legate alle distanze dei luoghi – vi è una ripartizione in “sezioni distaccate” che, però, vanno tutte a comporre il medesimo ufficio).
Certamente non ricorre neppure la seconda ipotesi visto che essa dipende dalla eventualità (qui non verificatasi) che il provvedimento giurisdizionale sia stato emesso da persona estranea all’ufficio.
Vi è da soggiungere che neppure il precedente giurisprudenziale evocato dal ricorrente a sostegno della propria tesi è pertinente. Egli, infatti, fa leva sul fatto che, in quella decisione (sez. III, 5.5.05, n. 22517), il ricorso fosse stato accolto e disposto l’annullamento ed il rinvio degli atti al giudice competente ma, a ben vedere, il caso colà esaminato era diverso e la decisione di annullamento con atti trasmessi al “giudice”(invece che ai p.m.) aveva un senso logico perché si era al cospetto di un caso di abnormità di una decisione che (disponendo la trasmissione degli atti ai P.M. e comportando una indebita regressione del procedimento), aveva determinato una stasi ingiustificata.
Il ricorrente si diffonde ampiamente, sia nel ricorso che nella memoria e nei motivi aggiunti, invocando, addirittura, un rinvio della questione alle sezioni unite per dirimere un (non meglio identificato) conflitto interpretativo.
Il vero è che la giurisprudenza di questa S.C. è pacifica nell’affermare che le sezioni distaccate non sono uffici autonomi ma “costituiscono semplici articolazioni dell’unico ufficio da cui dipendono, sicché la violazione dei criteri di attribuzione degli affari tra sede principale e sede distaccata non da luogo a nullità, senza che possa ipotizzarsi alcun conflitto di Competenza tra esse” (Sez. I, 11.1.13, Liberato, Rv. 254510; v. anche: Sez. I, 29.11.06, Wieser, Rv. 235571; Sez. VI, 28.5.04, Ligorio, Rv. 230268)).
È, quindi, corretta la replica della Corte secondo cui non è invocabile, nella specie, la previsione normativa di cui all’art. 24 c.p.p. visto che si è al cospetto di una “semplice inosservanza” delle disposizioni sulle attribuzioni delle sezioni distaccate ex art. 163 bis disp. att. c.p.p.. Trattandosi di questione regolamentare interna, pertanto, ha un senso logico anche il fatto che la norma preveda che la questione sia decisa dal presidente del Tribunale con decreto “non impugnabile”. È ben vero che, nel caso in esame, tale decreto non vi è stato affatto per mancata rimessione della questione di fronte ad esso ma è anche chiaro che la inappellabilità della decisione è stata evocata dalla corte solo a titolo esemplificativo del concetto – da essa evidenziato – della marginalità della questione sollevata.
In ogni caso, come detto, l’inosservanza, non solo, non da luogo ad alcun vizio della competenza, ma neppure, ad alcuna nullità si che (visto il regime di tassatività che vige in proposito nel nostro sistema) la questione qui proposta è destituita di fondamento.
3.3. (quanto al quinto motivo) – È sicuramente suggestiva ma infondata la questione giuridica che il ricorrente pone invocando l’applicazione, nel caso di specie, dell’art. 3 d.lgs 74/00 – in vece di quella dell’art. 2, contestatagli – e, quindi, una declaratoria di non punibilità per mancato superamento delle soglie colà previste.
In pratica, riassunto in estrema sintesi, il ragionamento del ricorrente muove dalla tesi secondo cui, ammesso che la falsificazione sia a lui riferibile, dal momento egli ha anche utilizzato le schede che riportavano dati non veri, egli dovrebbe essere chiamato a rispondere della violazione dell’art. 3 e non dell’art. 2.
Il vero è che, come si desume agevolmente anche dalla stessa lettera della norma (“fuori dai casi previsti dall’art. 2….”) l’art. 3 è ipotesi residuale, rispetto all’art. 2, nel disciplinare l’ipotesi di “dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”. Essa, infatti, oltre ad essere configurabile subordinatamente al mancato superamento di una soglia dell’imposta evasa o degli elementi attivi sottratti all’imposta, è ipotizzabile solo nei confronti di determinate categorie di contribuenti. La disposizione ha, quali elementi costitutivi, “una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” ed il fatto di avvalersi “di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l’accertamento”, sicché è evidente che trattasi di fattispecie, che prescinde dall’uso di false fatturazioni o documentazione equipollente (appunto: “fuori dei casi previsti dall’art. 2”), ed è configurabile esclusivamente nei confronti dei soggetti obbligati a tenere le scritture contabili.
Al contrario, come molto bene chiarito da questa S.C. anche di recente, (sez. III 10.11.11, Adtorio, n. 46785, rv. 2516121) il reato di cui all’art. 2 può essere commesso da qualsiasi soggetto obbligato alle dichiarazioni dei redditi o IVA.
Ai sensi del secondo comma dell’art. 2, infatti, il reato “si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti…..sono detenuti a fine di prova nei confronti dell’amministrazione finanziaria”.
Inoltre, sempre nella citata pronunzia ed in altre in termini (sez. III, 9.2.11 n. 9673, chen, rv. 249613; sez. III, 7.2.07 n. 12284, Argento, rv. 236812), è stato sottolineato come l’elemento differenziale tra l’ipotesi delittuosa dell’art. 2 e quella dell’art. 3 non sia costituito dal tipo di falsificazione posta in essere (se materiale o ideologica) bensì dalla natura del documento usato per commettere la frode fiscale e, più precisamente, dalla sua efficacia probatoria, vale a dire il carattere più o meno subdolo del mezzo adoperato.
Specificando meglio: ai fini dell’art. 2, deve trattarsi di “fatture o altri documenti ad esse equiparati” il cui valore probatorio discende dalla “apparente affidabilità della documentazione contabile corrispondente allo schema normativo, cui la legge collega determinate conseguenze in materia fiscale” (sez. III 10.11.11, cit.), invece, – come già si evidenziava in precedenza – per la ricorrenza dell’art. 3, occorrono solo “una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie” ed il fatto di avvalersi “di mezzi fraudolenti idonei a ostacolarne l’accertamento”.
Orbene, tornando al caso che occupa, è lo stesso ricorrente a riconoscere che, per espressa previsione normativa (art. 1 lett. a) d.lgs 74/00), le schede-carburante sono equiparate alle fatture, come evincibile anche dagli obblighi di annotazione e conservazione previsti per le schede in base agli artt. 25 e 39 D.P.R. 633/72 (v. sez. III, 7.2.07, Argento, rv. 236812).
L’elemento specializzante è indiscutibile e non superabile con il rilievo difensivo secondo cui, dal momento che l’art. 2 opera solo nella misura in cui il soggetto che emette la fattura falsa ed il suo utilizzatore siano diversi, poiché, nella specie, quest’ultima ipotesi è da ritenere esclusa proprio in tesi di accusa, la conseguenza dovrebbe essere l’applicazione dell’ipotesi residuale di cui all’art. 3.
Il ragionamento giunge, però, ad una conclusione erronea perché, anzi – a volerlo estremizzare – esso dovrebbe, semmai, portare alla conseguenza addirittura opposta, vale a dire, della contestabilità di entrambe le fattispecie. La suggestività della tesi difensiva è, in qualche modo, agevolata (ma anche, per le medesime ragioni, smentita) dalla stretta relazione esistente tra le due fattispecie in considerazione che sono sicuramente caratterizzate da una molteplicità di elementi comuni quali il fatto di predisporre una falsa rappresentazione delle scritture contabili e di utilizzarle per la dichiarazione annuale dei redditi. Come ben evidenziato, però, nella sentenza impugnata con motivazione sicuramente esistente (f. 7) (tanto è vero che il ricorrente – dopo una iniziale accusa di mancanza di risposta sul punto – sub quinto motivo – la commenta dettagliatamente nei motivi aggiunti depositati il 28.2.14), si tratta di un rapporto C.d. di specialità reciproca “nel senso che, ad un nucleo comune costituito dalla presentazione di una dichiarazione infedele, si aggiungono, in chiave specializzante, da un lato, l’utilizzazione di fatture e documenti relativi ad operazioni inesistenti, dall’altro, una falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie accompagnata dall’utilizzo di mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento”.
È, dunque, giusta la conclusione dei giudici di merito laddove sottolinea che la fattispecie di cui all’art. 3 prescinde dall’uso di false fatturazioni o documentazione equipollente e – come già si è evidenziato sopra nel commentare le due norme – essa è configurabile esclusivamente nei confronti dei soggetti obbligati a tenere le scritture contabili.
Al contrario, l’art. 2 può essere commesso da qualsiasi soggetto tenuto alla dichiarazioni dei redditi e dell’IVA, mediante la sola utilizzazione di fatture o altri documenti relativi ad operazioni inesistenti.
Non vi è, quindi, motivo di dubitare della correttezza della contestazione di cui all’art. 2 qui mossa non essendo certo un elemento discretivo ulteriore quello evidenziato dal ricorrente (della diversità tra colui che compie il falso e colui che lo utilizza) e, comunque, di certo, a voler seguire il ragionamento del ricorrente (circa la necessità di una interpretazione costituzionalmente orientata della “struttura piramidale” del sistema normativo esistente – v. f. 22 memoria depositata il 28.2.14), è un fatto che, a tutto concedere, se la sovrapposizione delle due figure (emittente ed utilizzatore) potrebbe giustificare, per un verso, la contestazione dell’art. 3, la sicura natura di fattura delle schede carburante è l’elemento specializzante che riconduce all’art. 2. Il che, ripetesi, è conseguenza della peculiarità del rapporto di specialità che collega le due norme ma, al contempo è anche confermativa della giustezza della odierna contestazione che riconduce la fattispecie concreta nell’alveo della più ampia previsione dell’art. 2.
E ciò avviene anche in linea anche con il constante pensiero di questa S.C. (non risultando che i precedenti giurisprudenziali evocati dal ricorrente (30896/01, 32493/04) pervengano a conclusioni difformi essendo, poi, anche inconferenti i richiami ad altre pronunzie che affrontano questioni differenti (12720/08). In particolare, poi, vi è puntualizzare che la n. 12284/07 (sez. III, 7.2.07, Argento, rv. 236812) è stata evocata dalla Corte d’appello al chiaro fine di evidenziare il fatto che in essa fosse stata affermata la sicura natura di fattura delle schede carburante. Per il resto, perciò, risulta un fuor d’opera, da parte del ricorrente, la dettagliata analisi comparativa svolta tra il caso concreto di cui si è occupata quella decisione (per incidens, comunque, neppure tanto diverso) ed il presente.
3.4. (quanto al sesto motivo) – Venendo, infine, alla questione sollevata dal ricorrente con il sesto motivo, se ne deve rilevare la sostanziale inammissibilità per manifesta irrilevanza. Egli, infatti, cerca di richiamare l’attenzione su un aspetto estraneo al processo penale – vale a dire l’accordo intervenuto tra il ricorrente e l’Agenzia delle Entrate – e, soprattutto, successivo al fatto. Si tratta, in altri termini, di post factum rispetto al reato già commesso e perfezionato che attiene ai rapporti tra l’imputato e l’amministrazione finanziaria.
Per quel che attiene, da ultimo, al trattamento sanzionatorio, la censura mossa è da respingere perché generica e, comunque, infondata. Sul punto, infatti, i giudici d’appello hanno vagliato tale doglianza in modo congruo sottolineando il fatto che la pena è stata calibrata verso il minimo edittale come pure non vi per spazio per il riconoscimento delle attenuanti generiche per la non occasionalità della condotta.
Resta da soggiungere, da ultimo che, la non manifesta infondatezza del ricorso, impone di dare atto della parziale estinzione per prescrizione che ha colpito una parte della condotta criminosa ipotizzata, vale dire, quella relativa all’anno 2004, per cui il termine è spirato il 26.4.13. Alla conseguente declaratoria di annullamento, segue un necessario rinvio alla Corte d’appello di Lecce per il nuovo calcolo della pena.
Come invece anticipato e, per le ragioni sopra illustrate, il ricorso, per il resto, deve essere respinto.
P.Q.M.
Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p..
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al reato commesso nel 2004, perché estinto per prescrizione con rinvio alla Corte di appello di Lecce per la determinazione della pena. Rigetta il ricorso nel resto
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