Corte di Cassazione bis

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza 30 settembre 2015, n. 19541

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUSSO Libertino Alberto – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:
sentenza

sul ricorso 15374-2012 proposto da:

SAN LUIGI SRL, in persona del legale rappresentante sig.ra R. V., elettivamente domiciliata in ROMA, V.PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUPPI ALBERTO giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

BA.IL., B.G., BO.GA., F. M.;

– intimati –

Nonchè da:

BO.GA., BA.IL., B.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLE MILIZIE 2, presso lo studio dell’avvocato CIOCIOLA ROBERTO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato GENOVESI SERGIO giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrenti incidentali –

contro

SAN LUIGI SRL, in persona del legale rappresentante sig.ra R. V., elettivamente domiciliata in ROMA, V.PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUPPI ALBERTO giusta procura a margine del ricorso principale;

– controricorrente all’incidentale –

e contro

F.M.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1326/2011 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 02/12/2011 R.G.N. 662/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 01/07/2015 dal Consigliere Dott. CIRILLO FRANCESCO MARIA;

udito l’Avvocato LUPPI ALBERTO;

udito l’Avvocato MANTOVANI PAOLO per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE AUGUSTINIS Umberto che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

1. Bo.Gi., G. e Ga. e Ba.Il.

convennero in giudizio, davanti al Tribunale dì Mantova, Sezione distaccata di Castiglione delle Stiviere, il Centro medico poliambulatorio “(OMISSIS)” e la Dott.ssa F.M., chiedendo che fossero condannati in solido al risarcimento dei danni conseguenti alla morte della loro congiunta B.A.M..

A sostegno della domanda esposero che la loro familiare si era recata il 27 luglio 1998 presso il Centro per un trattamento di ossigeno e ozono terapia; colta da malore ed entrata in coma, la B. era stata ricoverata presso l’ospedale civile, dove era morta il successivo 23 agosto a seguito di arresto cardiaco.

Si costituirono in giudizio tutti i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda. In particolare, il Centro S. (OMISSIS) negò di avere un qualsiasi rapporto con la dott.ssa F.; quest’ultima, invece, eccepì il proprio difetto di legittimazione passiva, sul rilievo che gli attori avevano da lei accettato in precedenza la somma di Euro 150.000 a titolo di acconto del risarcimento danni, rinunciando a domandare (tranne Bo.Ga.) il risarcimento di un danno ulteriore.

Il Tribunale, riconosciuta la colpa della Dott.ssa F. e la responsabilità del Centro S. Luigi ai sensi dell’art. 2049 c.c., accolse la domanda e condannò entrambi i convenuti, in solido, al risarcimento dei danni liquidati, detratto l’acconto, nelle somme di Euro 162.864,60 in favore di Bo.

G., Euro 159.994,09 in favore di Ba.Il., Euro 129.994,09 in favore di B.G. ed Euro 60.000 in favore di Bo.Ga., con gli interessi ed il carico delle spese di giudizio.

2. La pronuncia è stata appellata dal Centro S. Luigi in via principale; nel giudizio si sono costituiti B.G. e Ga. e Ba.Il., anche in qualità di eredi di Bo.Gi., nel frattempo deceduto, chiedendo un aumento della somma liquidata a titolo di risarcimento danni.

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza del 2 dicembre 2011, ha respinto entrambi gli appelli, confermando la pronuncia di primo grado e condannando il Centro S. Luigi alla rifusione delle ulteriori spese del grado.

Dopo aver respinto in limine un’eccezione di presunta nullità della procura alle liti sollevata dai danneggiati appellati, ha osservato la Corte territoriale che era infondato il primo motivo di appello, col quale il Centro S. Luigi sosteneva che la limitazione del risarcimento alla somma di Euro 150.000, concordata con la Dott.ssa F., si sarebbe dovuta estendere anche ai soggetti tenuti alla garanzia.

L’esame delle scritture private prodotte dimostrava, infatti, che la somma percepita dai danneggiati “costituiva un’anticipazione rispetto a quanto preteso nei confronti di tutti i responsabili, compresa la F.”. In altre parole, non vi era alcuna rinunzia all’azione, ma solo una limitazione della responsabilità da far valere, eventualmente, in sede di esecuzione; il carattere transattivo dell’accordo risultava dal fatto che i congiunti della vittima avevano “limitato le loro ragioni nei confronti del medico alla somma percepita in via stragiudiziale”.

D’altra parte, non poteva affermarsi che il Centro S. Luigi fosse stato chiamato in garanzia, trattandosi invece di una responsabilità diretta ai sensi dell’art. 2049 c.c.; per cui la rinuncia all’ulteriore risarcimento nei confronti della Dott.ssa F. non poteva valere nei confronti dell’altro obbligato.

Passando al merito, la Corte d’appello ha affermato che la responsabilità della Dott.ssa F. era stata del tutto correttamente riconosciuta dal Tribunale; risultava dalla perizia svolta in sede di processo penale, infatti, che l’ingresso indebito di materiale improprio nel sangue della vittima era certamente da ricondurre alle punture eseguite dal medico, che aveva punto un vaso di ampio calibro oppure aveva errato nella quantità di ozono (ovvero entrambe le cose). Dovendosi, nel processo civile, applicare la regola causale della preponderanza dell’evidenza, cioè del più probabile che non, l’accertamento della violazione dei canoni della diligenza e perizia professionale doveva ben ritenersi causa rilevante ai fini della determinazione della morte del paziente; nè sussisteva alcun problema nel riconoscere piena validità alle prove raccolte in sede penale nel giudizio svoltosi tra le stesse o anche tra altre parti. Dalla perizia svolta nel processo penale risultava che la B. era morta in conseguenza di un “arresto cardiaco causato da complicanza embolica di un trattamento iniettorio di ozonoterapia alle cosce”. Nel caso specifico, l’attività medica era stata eseguita in un luogo non consentito, sicchè la violazione di tale regola implicava l’obbligo del medico di rispondere di ogni eventuale pregiudizio.

In relazione, poi, al punto della responsabilità del Centro S. Luigi ai sensi dell’art. 2049 c.c., la Corte bresciana ha affermato che il contratto tra il paziente e la struttura sanitaria, essendo a forma libera, può formarsi “anche tacitamente”. Nel caso in esame, era emerso dall’istruttoria che i pazienti si rivolgevano al Centro S. Luigi per avere un appuntamento coi sanitari; il Centro fissava i giorni, forniva i locali, stabiliva il regolamento delle sedute e percepiva materialmente i pagamenti, girandoli poi ai singoli medici.

Era palese, quindi, l’irrilevanza della qualificazione del rapporto esistente tra la dott.ssa F. e il Centro, perchè la tutela dell’affidamento del terzo rendeva corretta la valutazione del primo giudice circa l’esistenza di un rapporto tra i pazienti e il Centro stesso.

Una volta concluso il contratto di spedalità, la responsabilità della struttura ha natura contrattuale, senza che la stessa venga meno per il fatto che ad eseguire l’intervento sia un medico di fiducia del paziente.

Quanto, infine, all’entità del risarcimento, la Corte d’appello ha confermato la decisione del Tribunale.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Brescia propone ricorso la s.r.l. San Luigi, con atto affidato a quattro motivi.

Resistono Ba.Il., B.G. e Ga. con un unico controricorso, contenente ricorso incidentale condizionato su sette motivi e supportato da memoria.

La s.r.l. San Luigi resiste con controricorso al ricorso incidentale condizionato.

La dott.ssa F. non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione degli artt. 99, 112 e 113 c.p.c., nonchè dell’art. 2907 c.c..

Rileva la società ricorrente che la Corte d’appello, non svolgendo il proprio compito di interpretare la domanda giudiziale, avrebbe errato nell’escludere che la dott.ssa F. avesse inteso eccepire l’avvenuta transazione e la rinuncia altrui al risarcimento dei danni; tale volontà del medico risultava chiaramente dalle scritture private esaminate dalla sentenza in esame.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., oltre a omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Osserva la parte ricorrente – dopo aver trascritto ampie parti delle scritture private esaminate dalla Corte d’appello – che dal testo delle medesime emergerebbe il fatto che gli eredi B. intendevano intraprendere un’azione nei confronti degli altri soggetti ritenuti responsabili della morte della loro congiunta, limitando la pretesa risarcitoria nei confronti della Dott.ssa F. alla somma di euro 150.000; l’affermazione della sentenza secondo cui “l’accordo avrebbe riguardato una mera anticipazione rispetto a quanto preteso nei confronti di tutti (…) ma ciò relativamente alla sola fase esecutiva” costituisce, secondo la società ricorrente, una violazione delle regole sull’interpretazione dei contratti, oltre che un’affermazione illogica.

3. Il primo ed il secondo motivo sono da trattare insieme, in considerazione della stretta connessione che li unisce, e sono entrambi privi di fondamento.

3.1. Conviene prendere le mosse dalle censure di cui al secondo motivo relative alla presunta violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in merito all’interpretazione delle scritture private intercorse tra le parti e oggetto di esame da parte della Corte d’appello.

Rileva il Collegio, su questo punto, che, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione (v., tra le tante, le sentenze 22 febbraio 2007, n. 4178, 30 aprile 2010, n. 10554, e 10 febbraio 2015, n. 2465).

Ciò comporta che “deve essere ritenuta inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati” (sentenza n. 2465 del 2015 cit.), ovvero nel semplice tentativo di ottenere da questa Corte l’adozione di una diversa interpretazione del contratto, evidentemente più gradita o comunque favorevole alla parte che la prospetta. La censura sull’interpretazione del contratto, in altri termini, non può risolversi nel tentativo indebito di ottenere il recepimento della propria interpretazione, ancorchè astrattamente possibile e ragionevole.

3.2. Tanto premesso, il Collegio aggiunge che la Corte d’appello di Brescia ha svolto il proprio compito di interpretazione delle scritture private in modo corretto, con una motivazione ampia, intrinsecamente coerente e del tutto priva di vizi logici. La sentenza è pervenuta alla conclusione che la somma versata dalla Dott.ssa F. ai familiari della vittima non implicava, da parte di questi ultimi, alcuna rinuncia all’azione, non risultando coinvolti “tutti i soggetti attivi e passivi della futura causa civile”, per cui l’accordo non avrebbe potuto riguardare altro che la fase dell’esecuzione; e che si trattasse di una transazione è stato confermato dalla Corte d’appello nella parte in cui essa ha osservato che “l’aliquid datum, rispetto ai congiunti della defunta, risiede nel fatto che gli stessi hanno limitato le loro ragioni nei confronti del medico alla somma percepita in via stragiudiziale”.

Le censure in ordine all’interpretazione del contratto si rivelano, dunque, infondate.

3.3. Occorre, peraltro, soffermarsi ancora sui due motivi in esame poichè essi, nonostante un’evidente improprietà nei richiami normativi, pongono una censura che involge la portata dell’art. 1304 c.c., in materia di effetti della transazione nell’obbligazione solidale.

Benchè la censura non sia del tutto chiara, si comprende che l’odierna parte ricorrente ravvisa una violazione di legge nella sentenza impugnata là dove essa non ha riconosciuto che la transazione conclusa dalla Dott.ssa F. con i familiari della vittima potesse esplicare effetti favorevoli anche nei confronti della società S. Luigi; i motivi in esame, infatti, ipotizzano che i familiari della vittima non avrebbero potuto chiedere l’ulteriore risarcimento neppure agli altri coobbligati .

A questo proposito la Corte rileva che la sentenza in esame ha ricostruito in modo chiaro che si trattava, nella specie, di una transazione parziale accompagnata – nonostante la sentenza non lo dica formalmente – da un pactum de non petendo tra i familiari e la Dott.ssa F..

L’art. 1304 c.c., prevede che la transazione “fatta dal creditore con uno dei debitori in solido non produce effetto nei confronti degli altri, se questi non dichiarano di volerne profittare”; ciò significa che gli altri debitori hanno la possibilità di avvalersi degli effetti positivi che derivano dalla transazione conclusa tra il creditore ed uno di loro.

Tuttavia il Collegio rammenta che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza 30 dicembre 2011, n. 30174 -alla quale l’odierna pronuncia intende dare continuità – hanno affrontato il problema della transazione intervenuta tra il creditore ed uno tra più condebitori solidali.

Si è detto in quella pronuncia, tra l’altro, che la transazione prò quota, “in quanto tesa a determinare lo scioglimento della solidarietà passiva rispetto al debitore che vi aderisce, non può coinvolgere gli altri condebitori, i quali dunque nessun titolo avrebbero per profittarne, salvo ovviamente che per gli effetti derivanti dalla riduzione del loro debito in conseguenza di quanto pagato dal debitore transigente”; le Sezioni Unite hanno poi anche aggiunto che la previsione dell’art. 1304 c.c., comma 1, non si riferisce a questa fattispecie, avendo come campo di applicazione soltanto la transazione avente ad oggetto l’intero debito, in quanto “è la comunanza dell’oggetto della transazione a far sì che di questa possa avvalersi il condebitore in solido, pur non avendo partecipato alla sua stipulazione e quindi in deroga al principio secondo cui il contratto produce effetto solo tra le parti”.

Il tutto con la ovvia precisazione per cui stabilire se la transazione abbia avuto ad oggetto l’intero debito o solo la quota del debitore che ha transatto costituisce una tipica attività del giudice di merito; la cui decisione nel caso di specie – come si è detto – è chiarissima.

Pertanto, in considerazione della natura parziale della transazione intervenuta tra la Dott.ssa F. e i familiari della vittima, l’odierna società ricorrente mai avrebbe potuto profittare della medesima.

Dal complesso di queste considerazioni discende l’infondatezza del primo e del secondo motivo di ricorso.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, costituito dall’esistenza di un contratto di spedalità.

Osserva la società ricorrente che la Corte d’appello avrebbe compiuto, nella specie, un’errata applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di responsabilità delle case di cura e degli enti ospedalieri, a proposito del contratto di spedalità. Tali principi non si adatterebbero al caso in esame, perchè il Centro S. Luigi si limita, in effetti, a mettere a disposizione dei locali per l’espletamento di prestazioni da parte dei medici; nè potrebbe equipararsi un servizio di segreteria e di accettazione dei pazienti alla situazione di una casa di cura privata ai fini del ricovero.

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), violazione e falsa applicazione dell’art. 1228 c.c., oltre a omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Osserva la ricorrente che sarebbe stata compiuta un’errata applicazione dei principi dell’art. 1228 c.c., perchè la Corte d’appello avrebbe trascurato la necessità dell’esistenza dì un potere di controllo da parte del debitore o, comunque, dì un collegamento tra il presunto ausiliario e l’organizzazione aziendale del debitore; mancherebbe, quindi, ogni motivazione sul potere di controllo del Centro S. Luigi rispetto all’operato della Dott.ssa F..

6. Il terzo ed il quarto motivo sono da trattare insieme, in considerazione della stretta connessione che li unisce, e sono entrambi privi di fondamento.

6.1. Occorre sgombrare subito il campo dalla censura di preteso vizio di motivazione formulata con il terzo motivo. La Corte d’appello, infatti, con un’ampia e corretta motivazione, coerente e priva di vizi logici, ha dato conto – nei termini che sono stati in precedenza già riassunti – delle ragioni per le quali doveva ritenersi sussistente, in capo al centro gestito dalla società odierna ricorrente, la responsabilità conseguente alla conclusione di un contratto di spedalità. Rispetto a tale scrupolosa e dettagliata ricostruzione si infrangono le censure contenute nel terzo motivo di ricorso, tutte evidentemente finalizzate ad ottenere un nuovo e non consentito esame del merito. Ciò è reso evidente, in particolare, dalle considerazioni contenute alle pp. 22 e 23 del ricorso le quali vorrebbero sminuire in ogni modo la responsabilità della s.r.l. S. Luigi, mentre la sentenza in esame ha spiegato assai bene il ruolo svolto da quest’ultima nella gestione del centro, nei contatti con i clienti e nella percezione dei pagamenti che venivano poi girati ai singoli sanitari operanti.

6.2. Anche il quarto motivo di ricorso, peraltro, è palesemente privo di fondamento.

La decisione in esame, infatti, è in linea con la giurisprudenza dì questa Corte la quale ha già affermato che l’accettazione del paziente in una struttura deputata a fornire assistenza sanitario- ospedaliera, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto dì prestazione d’opera atipico di spedalità, in base al quale la stessa è tenuta ad una prestazione complessa, che non si esaurisce nella effettuazione delle cure mediche e di quelle chirurgiche, ma si estende ad una serie di altre prestazioni, quali la messa a disposizione di personale medico ausiliario e di personale paramedico, di medicinali, e di tutte le attrezzature tecniche necessarie, nonchè di quelle lato sensu alberghiere. La responsabilità della casa dì cura nei confronti del paziente ha natura contrattuale, con conseguente applicazione dell’art. 1228 cod. civ. anche nei rapporti tra il medico e la struttura (v. le sentenze 13 aprile 2007, n. 8826, 14 giugno 2007, n. 13953, nonchè la più recente 26 giugno 2012, n. 10616).

Nel caso in esame il Centro medico dove avvenne la disgrazia non aveva, come riconosciuto da tutte le parti in causa, una dimensione tale da poter essere paragonata ad una casa di cura; ciò non toglie, tuttavia, che, una volta accertata nei termini di cui in sentenza la natura dell’attività svolta, l’applicabilità dell’art. 1228 c.c., sia stata correttamente ritenuta sussistente anche nel caso in esame.

Ne consegue che la violazione dell’art. 1228 c.c., presupporrebbe, per poter essere ritenuta esistente, un nuovo esame del merito, precluso in questa sede.

7. Il ricorso principale, pertanto, è rigettato.

Tale decisione comporta l’assorbimento del ricorso incidentale proposto da Ba.Il., B.G. e Ga., siccome avente natura condizionata.

La ricorrente principale va condannata al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità ai soli parametri introdotti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, sopravvenuto a disciplinare i compensi professionali.

P.Q.M.


La Corte, decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale con assorbimento di quello incidentale condizionato e condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 7.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile, il 1 luglio 2015.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2015.

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